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 2015  luglio 21 Martedì calendario

VESTITI PER CASO

Quello che sappiamo per certo è che due milioni e mezzo di anni fa nella savana dell’Africa si aggirava una scimmia antropomorfa completamente diversa dalle altre. Oltre alla postura eretta, alle gambe innestate direttamente sotto il bacino e alla corsa agile, c’era, a distinguere questo “animale” dai suoi lontani parenti, l’evidente mancanza di pelo. Sul corpo aveva soltanto una peluria sottile, quasi trasparente, e un’epidermide esposta che sudava copiosamente. Era, insomma, una “scimmia nuda”, come la definì il famoso antropologo Desmond Morris.
Sappiamo pure con relativa sicurezza (possiamo ricostruirlo sulla base di un curioso indizio) in quale momento la nostra scimmia decise di rivestire la propria nudità con pellicce e abiti. Accadde circa 170.000 anni fa, quando la stirpe del pidocchio del capo si separò da quella del pube e dei vestiti.
Gli studiosi discutono invece ancora sulle cause profonde di tali cambiamenti: cioè sulle ragioni che spinsero la specie umana a “denudarsi”, perdendo il pelo; e quelle che, molto più tardi, la indussero a fare marcia indietro e a ricoprirsi artificialmente, inventando i vestiti, con tutto ciò che ne seguì dal punto di vista culturale e delle abitudini sessuali. Ma anche qui non mancano indizi e ipotesi. Rinforzate, se servisse, da un esperimento organizzato sei anni fa dalla Bbc, per verificare fino a che punto uomini e donne possono sbarazzarsi di abiti e senso del pudore. Il risultato del test britannico, come vedremo, getta luce anche sul comportamento dei nostri antenati.
Torniamo alle domande centrali. Perché mai gli uomini persero i peli e si ritrovarono completamente nudi (con gli organi sessuali esposti, fra l’altro), soltanto per ricoprirsi successivamente di pelli altrui?
«Fu tutta questione di clima e temperatura corporea», risponde Daniel Lieberman, evoluzionista della Harvard University. «Gli antenati dell’uomo, una volta acquisita la posizione eretta, si sono evoluti soprattutto per camminare molto e correre lunghe maratone in un clima caldo e arido. E tutto il loro corpo si è trasformato». Inseguire per giorni la cacciagione nella savana africana (o fuggire dai predatori) è un’attività faticosa, che produce un’enorme quantità di calore, da disperdere subito. Una pelliccia rappresenta in questo senso l’ostacolo maggiore: meglio peli sottili e trasparenti, accompagnati da una pelle capace di sudare. La perdita del vello rappresenta insomma l’ultimo atto della trasformazione del corpo della “scimmia”: da antropomorfa di foresta che cammina sulle nocche (come gorilla e scimpanzé) a cacciatore efficiente che può permettersi di attraversare la savana anche di giorno, quando la maggior parte dei predatori se ne sta sotto gli alberi a prendere il fresco.
Altri scienziati completano il quadro e fanno notare che se la pelliccia è controproducente nelle ore diurne, di notte è pur sempre necessaria per proteggersi dal freddo, pungente anche in Africa. Ci sarebbe, secondo loro, un’ulteriore spiegazione della nudità umana: siamo diventati glabri (anche) perché così è più facile disfarsi di molti parassiti. Il passaggio da una vita nomade a una di accampamenti semifissi era stata una vera manna per animaletti come le pulci, che rimanevano nei giacigli ad attendere il ritorno dei legittimi residenti proto-umani. I quali, senza peli, riuscivano però a scoprirle e a eliminarle più facilmente. C’è poi una terza spiegazione all’imporsi della “scimmia nuda”. Per Giorgio Manzi, paleoantropologo dell’Università La Sapienza di Roma, «la perdita dei peli è dovuta forse a cambiamenti nella struttura sociale e nei rapporti tra i sessi, più che a fenomeni legati alla temperatura».
Maratone di caccia, lotta alle pulci, mutazioni sociali... alla fine del processo, circa 2,5 milioni di anni fa, l’Africa ospitava comunque una specie di scimmia bipede e quasi glabra. Che era ancora molto lontana dall’uomo moderno e non padroneggiava il complicato scambio di segnali e simboli all’origine della cultura come la conosciamo. Forse per questo, pur continuando a espandersi nel continente, non sentiva la necessità di coprirsi, che sarebbe arrivata solo un paio di milioni di anni dopo.
Quando nacquero dunque i primi vestiti? Ci aiutano a rispondere alleati improbabili: ancora dei parassiti, stavolta i pidocchi. I fastidiosi insettini perseguitano l’uomo in due forme diverse della stessa specie, il pidocchio del capo e quello del pube. Secondo David Reed, dell’Università della Florida, le due forme si sono separate quando abbiamo iniziato a vestirci. Il pidocchio del pube vive infatti di preferenza tra gli abiti, quello del capo preferisce aggrapparsi ai capelli; l’analisi delle differenze del loro Dna ci dice che il divorzio risale a circa 170.000 anni fa.
Da allora, per un lunghissimo periodo, decine di migliaia di anni, i vestiti furono usati esclusivamente per tenersi caldi. Ci volle l’arrivo della cultura per cambiare (molto lentamente) le cose. A partire da 40.000 anni fa, una serie di documenti trovati in Europa ci dice che gli uomini avevano inventato il modo di manipolare i simboli. Col linguaggio, la musica, la danza e, appunto, con il corpo avevano creato un collante per tenere insieme la tribù: tutto, comprese le parti più intime (e in parte perfino i vestiti), era veicolo di comunicazione, usato per trasmettere agli altri un “messaggio”. Non era giunto ancora, però, il momento della vergogna e del pudore. «Nell’arte preistorica sono rarissime le raffigurazioni e le sculture con i vestiti. Il corpo è quasi sempre spogliato», ricorda Fabio Martini, professore di archeologia preistorica all’Università di Firenze. All’epoca, la nudità e il sesso non scandalizzavano nessuno: «Nell’area della Mezzaluna fertile, dove iniziò l’agricoltura, sono tantissime le scene di penetrazione molto esplicite», dice Martini. Un discorso legato soprattutto alla fecondità: le statuette nude femminili delle “Veneri paleolitiche” esageravano i caratteri legati alla riproduzione, come seni, ventre, natiche e cosce. Un inno alla sopravvivenza.
Da questa galoppata (prei)storica, si capisce che l’attenzione particolare dedicata agli organi sessuali, coperti o nudi, è piuttosto recente e derivata dalla cultura. Lo conferma il fatto che l’imbarazzo è un sentimento tutto umano; non ci sono animali, neppure i nostri parenti prossimi, che nascondono volontariamente gli organi sessuali perché “si vergognano”. Il risultato della nostra evoluzione culturale è un arcobaleno di comportamenti: in alcuni popoli il pene viene coperto da un piccolo (o grande) astuccio che simula una continua erezione, in altri neppure un centimetro del nudo può essere esibito, specie per le donne. «Le diverse civiltà», insiste Martini, «hanno elaborato canoni condivisi che permettevano alcune cose e ne vietavano altre». La vergogna del nudo è soltanto un fatto indotto: dalla tribù, spessissimo dalle religioni, oppure dal costume, o dai tempi.
Appunto perché è appresa, la vergogna si può facilmente superare: un esperimento della Bbc ha dimostrato nel 2009 che l’esposizione continua ad altre persone senza vestiti contribuisce, in un paio di giorni, a far cadere tutte le convenzioni sociali che governano le nostre vite. I volontari, alla fine del test, sono scesi in strada nudi come mamma li aveva fatti, si sono messi in coda e hanno chiamato un taxi senza battere ciglio. Tutta questione di cultura: con la vergogna e l’imbarazzo, la nostra specie, l’evoluzione e il Dna, per una volta, hanno ben poco a che fare.