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 2015  luglio 21 Martedì calendario

È TUTTO MIO E NON TE LO DO!


Riesce a evitare di offrire un bicchiere anche il giorno del suo compleanno: per sicurezza, tiene nascosta la data, e pazienza se così nessuno lo festeggerà. Se potesse, anzi, abolirebbe anche il genetliaco di tutti gli altri, parenti e amici, perché l’idea di essere costretto a donare qualcosa, senza peraltro avere niente in cambio, non lo fa dormire. Il Natale, poi, è l’incarnazione di tutti i suoi incubi: allora, e solo per i famigliari più stretti (quelli, per intenderci, che altrimenti potrebbero più facilmente “fargliela pagare”), si costringe al “regalo utile”: cioè quel necessario... di cui però potrà usufruire anche lui, tipo una maniglia nuova per sostituire quella rotta del bagno.
Alzi la mano chi non ha mai incontrato una persona così: tirchia, taccagna, “con il braccino corto”... avara, insomma. Qualcuno che, in modo più o meno grave, come Paperon de’ Paperoni e Scrooge nel Canto di Natale di Dickens, vive ossessionato dall’accumulo irragionevole di denaro e dal timore di perderlo. Una persona per la quale anche solo offrire un caffè diventa una prospettiva tragica. La sua, decisamente, è una vita di inferno. Per se stesso, visto che per primo si nega qualsiasi piacere, e naturalmente per chi lo circonda.

NEL DNA. Ma tirchi si nasce o si diventa? Secondo uno studio delle Università di Buffalo e della California, condotto su un campione di 711 individui, un po’ è colpa della natura. Noi tutti, infatti, porteremmo l’avarizia “scritta” nel Dna: a seconda però della “versione” di geni che abbiamo in dotazione, e che si combinano con due noti ormoni – ossitocina e vasopressina – possiamo essere, o non essere, l’incarnazione di Scrooge. Volete scoprire in quale misura?
Margriet Sitskoorn, docente di Neuropsicologia clinica all’Università di Tilburg, nel suo libro I sette peccati capitali del cervello propone un interessante esperimento: immaginate di essere seduti su una panchina, quando arriva uno sconosciuto che vi porge una busta contenente 10.000 euro e vi spiega che dovete dividerli con l’uomo seduto accanto a voi, il quale dovrà accettare la somma che gli offrite, qualunque essa sia. Nel secondo scenario, ricevete la stessa busta. Ma questa volta l’uomo seduto accanto a voi potrà accettare o rifiutare la vostra offerta. Nel caso dovesse rifiutare, perché la ritiene troppo scarsa, nessuno dei due riceverà nulla. Stavolta quanto gli offrite? Il senso di giustizia suggerirebbe che a ciascuno andasse circa la metà della somma, eppure nella prima situazione quasi tutti tengono per sé una cifra più alta; la ricchezza, a quanto pare, rende avidi. Nel secondo scenario, in cui chi è troppo avido rischia una punizione, ciascuno si affanna per capire quanto la persona seduta accanto a sé sarebbe disposta ad accettare e, in sostanza, per fare un’offerta più generosa. Spiega Sitskoorn: «L’avarizia alberga nel nostro cervello, poiché accumulare attiva il circuito della gratificazione, e ci motiva a continuare a farlo. A tenerci a freno sono le aree cerebrali anteriori che purtroppo, però, sembra vengano attivate solo in presenza di regole, o sotto la minaccia di una punizione».

RICCHI È PEGGIO. Pensateci su. Vi è mai capitato di usare scuse come «I negozi erano chiusi e non sono riuscito a portarti il dolce» (se invitati a cena da un amico), oppure «Ho dimenticato di fare il bancomat» (al momento di pagare un caffè al bar)? Tenete presente che chi è avaro tende a mentire, per mascherare la propria avarizia come può; «Risparmio sul riscaldamento perché inquina», oppure «Non ti porto fuori a cena ma ti preparo una pasta in casa, così siamo più tranquilli», o ancora «Buttare un farmaco solo perché è scaduto? È un vero peccato»... Certo, il confine tra parsimonia e avarizia può essere sottile. Il parsimonioso però, secondo le risorse di cui dispone, sa rispondere in modo appropriato all’invito di un amico, o ricambiare un regalo. Il taccagno, invece, viola costantemente la reciprocità, indipendentemente dalla propria capacità economica. Povertà o ricchezza non incidono sull’attitudine al dono: anzi, come diceva Balzac, «l’avarizia comincia dove finisce la povertà». L’avaro trattiene per sé, non registra il bisogno dell’altro, non si accorge della delusione degli amici. «Del resto, sebbene l’avarizia sia classificata come il primo e il peggiore dei peccati capitali, in alcune fasi storiche, per esempio nel Dopoguerra, è stata considerata una virtù», spiega Stefano Zamagni, economista: «Fino a 30 anni fa nessuno dei miei colleghi la citava esplicitamente. Oggi invece tutti diciamo che chi “nasconde i soldi sotto il materasso”, accumula e non investe, paralizza il sistema produttivo. La crisi economica degli ultimi anni è anche il risultato di eccessiva tirchieria».

RADICI FAMIGLIARI. Genetica e cervello, abbiamo detto, giocano la loro parte. In contraddizione con questo, tuttavia, anche dividere equamente stimola il sistema cerebrale della gratificazione e procura piacere come l’accumulare. Quindi? Il fatto è, dice Sitskoorn, che la genetica ha un peso, «ma molto dipende anche dalle esperienze vissute dai singoli individui. E moltissimo dal tipo di famiglia in cui sono cresciuti». Non si tratta solo del fatto che crescere con genitori troppo parsimoniosi può portare a seguirne l’esempio (anche se c’è chi si ribella e diventa uno spendaccione). Come spesso accade, è invece una questione di amore. Ci conferma Federico Baranzini, psichiatra e psicoterapeuta: «L’avarizia non è in sé una malattia, ma un sintomo, l’espressione di un disagio. Dietro l’avaro c’è spesso un bambino ferito, deprivato e inibito, che ha imparato ad aggrapparsi alla “sicurezza degli oggetti” perché pensa di non poter contare sull’amore degli altri. La madre dell’avaro è spesso distratta, lontana dai bisogni di suo figlio». Forse incapace di amarlo ma sicuramente abile nel controllarlo e punirlo: così il bambino cresce a sua volta ipercontrollante, sospettoso, machiavellico. Malizioso perché pensa che gli altri siano tutti come lui, non sa lasciarsi andare e nemmeno “lasciare andare” le cose.

IN AMORE. Perciò, come se la caverà l’avaro nelle relazioni sentimentali? Non bene. Il taccagno viene percepito come incapace di “darsi”, spesso è affettivamente isolato anche quando si sposa e ha dei figli. «La sola forma di relazione che
lo rassicura è la dominanza», dice Zamagni, «la possibilità di gestire gli affetti con la stessa parsimonia con cui usa il denaro». Gli uomini poi tendono a essere più avari delle donne, «che sono più capaci di dinamiche di aiuto e di scambio, e attraverso la maternità capiscono meglio l’esperienza del donarsi totalmente, e del “lasciare andare” l’altro da sé, come si fa con i figli», aggiunge Federico Baranzini. Per complicarsi ulteriormente la vita, l’avaro teme il disprezzo degli altri, perciò si nasconde e adotta un atteggiamento camaleontico; pur di non essere giudicato arriva a rompere del tutto i rapporti. In qualche contesto, però, è socialmente ben tollerato: esistono persino siti web, come Braccino-corto.it, dedicati alle “regole per risparmiare”. Eccone una: «Tenere aperti i finestrini nei tratti extraurbani agisce come effetto frenante per l’automobile, spingendo in alto il consumo di carburante. Apriteli soltanto per il tempo necessario al ricambio dell’aria nell’abitacolo». Se pensate che sia ridicolo, sappiate che la parola “risparmiare”, su Google, è stata la più cercata del 2014. Ma diventare generosi si può? Spesso è la vita a insegnare agli spilorci che il costo del trattenere per sé e non dare agli altri è troppo alto. E chi come Scrooge, dopo essere rimasto solo, riesce infine a rimettere gli affetti al primo posto, potrà superare la propria tendenza all’avarizia.
Serena Rocchi