VARIE 20/7/2015, 20 luglio 2015
APPUNTI PER GAZZETTA - QUATTRO ITALIANI RAPITI IN LIBIA
REPUBBLICA.IT
ROMA - Quattro italiani sono stati rapiti in Libia, nei pressi del compound dell’Eni nella zona di Mellitah presso alcuni impianti, si tratta di tecnici che lavorano presso alcuni impianti petroliferi nord-africani, per attività di sviluppo, trasporto e manutenzione per la società Bonatti di Parma, general contractor nel settore oil and gas.
Lo rende noto la Farnesina con un comunicato ufficiale, senza specificare da chi siano stati rapiti e senza diffonderne le generalità. Sarebbero stati "prelevati" la sera di ieri a Zuaia, città sotto il controllo delle milizie islamiste che appoggiano il governo di Tripoli, a nord-ovest del paese nordafricano, "mentre stavano rientrando dalla Tunisia", riferisce l’agenzia di stampa locale Afrigate.
"Informiamo che ieri, 19 luglio 2015, si è verificato in Libia nei pressi di Mellitah il rapimento di 4 tecnici italiani dipendenti della nostra società. Al momento siamo in diretto contatto e coordinamento con le Autorità e con l’Unità di Crisi del Ministero degli Esteri Italiano. Seguiranno eventuali aggiornamenti" dichiara l’Ufficio stampa della Bonatti. L’azienda mantiene per ora il riserbo sull’identità dei tecnici, si è appreso solo con certezza che nessuno di loro è residente in provincia di Parma. La procura di Roma ha aperto un fascicolo per avviare l’indagine.
SCHEDA Bonatti, un colosso internazionale di F. NANI
Per il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni è difficile fare ipotesi sugli autori del rapimento. Gentiloni precisa che l’Unità di crisi della Farnesina sta lavorando con urgenza e con l’intelligence."L’Unità di crisi si è immediatamente attivata per seguire il caso ed è in contatto costante con le famiglie dei connazionali e con la ditta Bonatti", dice. "Come noto in seguito alla chiusura dell’ambasciata d’Italia in Libia il 15 febbraio, la Farnesina aveva segnalato la situazione di estrema difficoltà del Paese invitando tutti i connazionali a lasciare la Libia". "Confermo - specifica il ministro - che è pericoloso restare in Libia". Al-Jazeera, rapiti da Jeish al Qabail. Secondo l’emittente televisiva al-Jazeera che cita fonti militari di Tripoli, i rapitori sarebbero vicini al cosiddetto ’Jeish al Qabail’ (L’esercito delle Tribù), milizie tribali della zona ostili a quelle di ’Alba della Libia’ (Fajr) di Tripoli. Secondo quanto riferiscono queste fonti militari libiche, i quattro italiani sono stati rapiti nel villaggio di al-Tawileh, vicino Mellitah, e portati verso sud.
Il gasdotto. Mellitah è il punto di partenza del gasdotto Greenstream, il più lungo d’Europa, minacciato da mesi dai combattimenti e dall’avanzata dei miliziani dello Stato Islamico. Greenstream - gestito per tre quarti dall’Eni e per un quarto dalla Noc, la Compagnia nazionale libica - è un gioiello ingegneristico realizzato nel 2004, 520 chilometri affogati nel Mediterraneo fino a una profondità di 1.200 metri, un investimento di 7 miliardi metà dei quali messi dall’Eni.
FOCUS Da Mellitah parte il gasdotto Greenstream: le minacce dell’Is
L’azienda. La Bonatti spa è un general contractor internazionale che ha sede a Parma. Offre, spiega il sito istituzionale della azienda, servizi di ingegneria, costruzione, gestione e manutenzione impianti per l’industria dell’energia. Ha sussidiarie o associate in Arabia Saudita, Egitto, Algeria, Kazakhstan, Austria, Messico Canada, Mozambico e Libia. Bonatti opera in 16 nazioni: Algeria, Austria, Canada, Egitto, Francia, Germania, Iraq, Italia, Kazakhstan, Messico, Mozambique, Romania, Arabis Saudita, Spagna, Turkmenistan e appunto Libia.
Italiani rapiti in Libia. Rispettivamente il 13 e il 16 novembre 2014 sono stati liberati Marco Vallisa, 54enne tecnico italiano della ditta Piacentini rapito in Libia a Zwara il 5 luglio 2014 e Gianluca Salviato, anche lui tecnico, rapito in Libia il 22 marzo 2014. L’ultimo italiano a essere liberato, il 9 giugno scorso, è stato Ignazio Scaravilli, il medico catanese sequestrato in Libia a gennaio. Con il rapimento dei 4 dipendenti della Bonatti salgono a cinque i connazionali sequestrati nel mondo. Dal luglio del 2013 non si hanno notizie di Padre Paolo Dall’Oglio, di cui si sono perse le tracce in Siria da allora. Sessant’anni, gesuita romano, per trent’anni e fino alla sua espulsione nell’estate del 2012, Dall’Oglio ha vissuto e lavorato nel suo Paese d’adozione in nome del dialogo islamo-cristiano. Regolarmente emergono notizie - mai confermate - sulla sua morte o prigionia. Le informazioni circolate negli ultimi mesi lo davano per detenuto in una delle prigioni dell’Isis a Raqqa. Ma anche questa circostanza non ha trovato conferme.
Le tensioni nel Paese. Tunisi ha aumentato le misure di sicurezza per cercare di impedire l’infiltrazione nel Paese di terroristi provenienti dal Paese confinante. In particolare, secondo i media libici, non viene accettata da parte libica la costruzione di un muro divisorio e di un fossato che divida i due Paesi, il che, secondo il governo di Tobruk che controlla la parte orientale della Libia, rappresenta una violazione della sovranità del Paese. Secondo il sito libico Ean Libya, nonostante le autorità tunisine si siano giustificate con la necessità di combattere il terrorismo, il governo del premier Abdullah al Thani ha più volte protestato e si temono in futuro incidenti tra le due parti a causa di questo muro divisorio.
Un possibile "messaggio". Dietro il sequestro "potrebbero esserci le milizie islamiche di Tripoli", il cui obiettivo è "fare pressioni sul governo italiano" per il ruolo svolto nei colloqui di pace sulla crisi libica. Lo sostiene l’incaricato d’affari dell’ambasciata libica presso la Santa Sede, Ali Rugibani. Tra le ipotesi suggerite da Rugibani c’è anche la questione delle possibili sanzioni che l’Ue potrebbe imporre ai soggetti che ostacolano il dialogo sostenuto dalle Nazioni Unite. Il rapimento, secondo Gentiloni, non è tuttavia una ritorsione contro l’Italia per il suo appoggio in sede Onu al governo attualmente in formazione.
CHE COS’È LA BONATTI
Dai primi impianti realizzati in Italia per l’Agip a braccio operativo delle Sette Sorelle che dominano il mercato petrolifero mondiale: è la parabola della Bonatti, general contractor nel settore oil and gas che nel 2013 ha raggiunto 1,8 miliardi di euro di portafoglio lavori, record storico per l’azienda fondata a Parma nel 1946 dall’ingegner Saul Bonatti.
Oggi la holding - 600 milioni fatturato - controllata dall’azionista manager Paolo Ghirelli e dal gruppo Igefi della famiglia Di Vincenzo di Pescara gestisce oltre 6 mila dipendenti in 14 Paesi, dal Messico al Nord Africa, dall’Arabia al Kazakhstan dove, grazie a una recente commessa, costruirà nei prossimi tre anni una città del petrolio nelle steppe a ridosso del Mar Caspio - con temperature da più 40 a meno 40 gradi - per sviluppare il giacimento di Tengiz raddoppiandone la produzione.
Un contratto da 500 milioni di dollari che la vedrà impegnata insieme al partner kazako Isker Group nella costruzione di un nuovo campo residenziale di 150 mila metri quadrati con 5 mila posti letto, uffici, ristoranti, strutture tecniche e sportive per conto del Consorzio TCO (TengizChevrOil), operativo sul posto dal 1993 e guidato da Chevron al 50%, ExxonMobil al 25%, la locale KazMunayGas al 20% e Lukoil, al 5%.
"Lavorare all’estero - aveva spiegato Ghirelli ad Affari&Finanza - è una necessità dovuta alla crisi di investimenti in Italia. Fino a 20 anni fa gli enti pubblici potevano essere buoni committenti, poi il numero dei progetti si è ridotto e oggi il mercato locale dei general contractor a nostro avviso non esiste più".
Lasciato definitivamente il ramo edile (una chiosa "casalinga" con la nuova stazione ferroviaria di Parma prossima all’inaugurazione), al momento il principale intervento in corso in Italia è in Basilicata, Val d’Agri, nella quinta linea di produzione idrocarburi per l’Eni. L’ultimo grande progetto europeo in cui Bonatti ha giocato da leader è stato il mega gasdotto Nord Stream dalla Russia alla Germania inaugurato nel 2011, anno in cui l’azienda viene classificata tra i primi 100 contractor internazionali per giro d’affari all’estero.
Quando anche il resto del Vecchio Continente si è fermato, il "mappamondo" di Bonatti si è spostato verso Messico, Iraq e fino al Mozambico, dove sono state scoperte ingenti risorse petrolifere e il Gruppo è da poco entrato in joint venture con una controllata della mozambicana National Oil Company. E’ così che l’80% del fatturato - circa 550 milioni di euro a pre consuntivo 2013 con previsione di raggiungere i 740 milioni nell’anno in corso - viene realizzato fuori dai confini nazionali. Numeri possibili grazie a un background e una esperienza più che trentennale: fu Ghirelli che nel 1979, con la firma del primo contratto in Libia per conto dell’Agip, diede avvio all’attività oltre mare di Bonatti.
Uno dei segreti del successo internazionale dell’azienda è saper agire con continuità in aree geografiche ad alto potenziale petrolifero, talvolta politicamente instabili come rivelato dalle Primavere Arabe, attraverso organizzazioni fisse che si radicano e conoscono il territorio in cui operano le più importanti compagnie petrolifere globali. Una strategia confermata nella gara in Kazakhstan in cui ha avuto un peso importante la presenza dal 2000 nel paese
Qui Bonatti ha già costruito gli impianti onshore del progetto Kashagan e potrà avvalersi del supporto della sua nuova base logistico operativa con un capacità di 500/700 persone. "Altro elemento favorevole - sottolineava Ghirelli - è l’attitudine a stringere partnership con società del posto e l’incisività della politica di local content". A Tengiz, infatti, per l’esecuzione dei lavori, la società potrà contare su quote di personale locale superiori al 90%, tenendo fede ai principi della sua politica di sviluppo, orientata a mettere radici nelle zone in cui opera e alla valorizzazione delle risorse locali.
Questo, tra l’altro, significa maturare un vantaggio competitivo nei confronti di aziende concorrenti, ad esempio asiatiche o mediorientali, che possono contare su addetti dei paesi di origine, quindi con un costo del lavoro notevolmente più basso, ma meno abituati a lavorare in contesti ambientali estremi che vanno dai deserti alle steppe.
In Bonatti la forza lavoro italiana è del 5% del totale, agli europei vengono solitamente affidate le funzioni direttive con lo staff di cantiere, dagli ingegneri ai progettisti, di svariate nazionalità.
Il ruolo in LIbia - In Libia, dove da decenni svolge assistenza e manutenzione alla stazione di compressione che manda gas in Italia, nei mesi caldi della caduta di Gheddafi, l’azienda ha dovuto far evacuare il personale ma nel settembre 2011 è tornata subito operativa grazie al lavoro dei suoi quadri libici che avevano gestito gli asset e preparato il terreno al rientro.
"Eni, una eccellenza mondiale, ha rappresentato il campo scuola. Da parte nostra - osservava il manager - siamo stati in grado di esportare le conoscenze acquisite e la multidisciplina, garantendo alle grandi major petrolifere mondiali standard europei con tecnici locali. Si tratta di clienti di primo livello, esigenti dal punto di vista della qualità, della sicurezza e del rispetto dei tempi, e al tempo stesso molto solvibili, a cui forniamo tutti i servizi di cui hanno bisogno per l’attività necessaria a valle del pozzo petrolifero: trattamento
e separazione della materia prima, pipeline, interventi ingegneristici, realizzazione delle opere, messa in marcia e manutenzione. Partecipiamo alla vita economica di un impianto petrolifero dall’inizio alla fine. Siamo uno one stop shop".
E la prossima fermata della corsa petrolifera è in Nord America, in particolare in Canada, aree in cui la ripresa economica è già realtà e dove Bonatti è pronta a cimentarsi nei prossimi 10 anni.
PAOLO G. BRERA
GIÙ le mani da Mellitah. Quel nome agli italiani dirà poco e nulla, ma c’è un tubo da 81 centimetri di diametro negli incubi che hanno convinto il governo a varare l’operazione militare "Mare sicuro". Le bandiere dell’Is sventolano troppo vicine al Gas & Oil complex di Mellitah da cui parte Greenstream, il gasdotto più lungo d’Europa. Affonda nella sabbia sulla spiaggia a sud di Zuwara, a 70 chilometri dal confine tunisino, e riemerge a Gela, in Sicilia, soffiando fino a otto miliardi di metri cubi di gas all’anno: è un gigante che alimenta l’energia di mezza Europa, e visti i rapporti turbolenti con il gas russo è difficile ipotizzare uno scenario peggiore, se i tagliagole dovessero prendere in mano il rubinetto libico.
Greenstream - gestito per tre quarti dall’Eni e per un quarto dalla Noc, la Compagnia nazionale libica - è un gioiello ingegneristico realizzato nel 2004 con i tubi Saipem, 520 chilometri affogati nel Mediterraneo fino a una profondità di 1.200 metri, un investimento di 7 miliardi metà dei quali messi dall’Eni: roba nostra, insomma, ma guai per tutti se cadesse nelle mani sbagliate. È lui il grande obiettivo nel mirino delle milizie. Quando Roma e Tripoli andavano d’amore e d’accordo, ai tempi in cui Gheddafi piantava tendoni beduini zeppi di odalische nel verde di villa Pamphili, più di due terzi del Pil libico arrivava dagli idrocarburi e ingrassava l’amministrazione pubblica libica, pagava stipendi e comprava serenità e buoni rapporti con tutti. Eni e la compagnia petrolifera nazionale firmarono una joint venture paritetica per realizzare il Western Libyan Gas Projects, "un’opera straordinaria, la più importante attualmente in corso nel bacino del Mediterraneo ". Il gas prodotto dai giacimenti nel deserto di Wafa e dai campi offshore di Bahr Essalam entra nei gasdotti e viene trasportato a Mellitah, sulla costa, per essere trattato. Il 20% del gas prodotto resta in Libia, l’80% viene compresso e inviato in Sicilia tramite Greenstream.
Poi c’è il petrolio, un tesoro potenziale di 48 miliardi di barili da estrarre. Dal milione e 600mila barili quotidiani dell’era d’oro del Raìs a zero alla metà del 2011 durante la rivoluzione, poi su in altalena fino a 1,4 milioni di barili giornalieri e riecco la crisi: dopo l’attacco al giacimento della Total a Mabrook e l’attentato all’oleodotto di El Sarir in Cirenaica, che ha isolato temporaneamente il più importante giacimento del paese, la produzione è crollata a poche centinaia di migliaia di barili al giorno. Interessi e alleanze non esistono più, gli uomini neri dello Stato Islamico hanno spazzato via tutto. L’Eni ha ritirato interamente il personale italiano, concentrando il resto sulle basi offshore di Bouri, per il petrolio, e di Bahr Essalam per il gas. La produzione però non si è mai fermata. Pompano i pozzi di Wafa (petrolio e gas) ed Elephant, al confine con l’Algeria, mentre resta chiuso da un anno e mezzo quello di Abu Attifel in Cirenaica. E dove finisce tutto il petrolio spillato dal deserto e dai pozzi offshore? L’intera produzione "italiana" confluisce nel complesso di Mellitah, da dove viene caricato sulle petroliere e spedito alle raffinerie di mezzo mondo.
Ce ne sarebbe già abbastanza per schierare navi e droni, ma in realtà c’è altro a turbare i sonni economici italiani. Ci sono i dati e i megadati, quelli che viaggiano alla velocità della luce nei grandi cavi sottomarini affondati proprio lì, al largo delle coste libiche e tunisine: passano di lì le quattro principali dorsali di collegamento tra l’America e l’Oriente, che come terminazioni nervose si estendono poi a rete collegando l’Europa e l’Africa. Il nodo italiano più importante, in cui l’autostrada digitale europea converge con quelle della grande dorsale Est-Ovest, è a Mazara del Vallo, dove i cavi si immergono con dentro le nostre voci e i nostri contenuti digitalizzati, le chat con gli amici su Facebook o le telefonate via Skype, le email di lavoro e i saluti di WhatsApp. Il nodo libico, connesso con le stesse reti, è a Tripoli: metterci le mani vuol dire avere un accesso diretto e incensurabile alle telecomunicazioni mondiali, e poter intercettare quegli stessi dati sensibili che i servizi americani rubavano a nostra insaputa.
Dunque, eccoci lì davanti con le nostre navi e i nostri aerei: Mare sicuro dovrà proteggere gli interessi italiani tutelando le infrastrutture e gli eventuali connazionali in pericolo. Il governo ha affidato allo Stato maggiore la stesura di un piano dettagliato, ma i contenuti sono praticamente pronti: un migliaio di uomini tra incursori della Marina e marò del San Marco, quattro navi dotate di attrezzature sanitarie, una nave da sbarco, fregate e cacciatorpedinieri, elicotteri e droni Predator. In parte potrebbero essere utilizzate anche le forze schierate per l’esercitazione "Mare aperto" appena conclusa, e l’intera operazione si affiancherà alle altre due già attive nel Mediterraneo: Triton, una "mare nostrum" in tono minore per controllare frontiere e immigrazione; e Active Endeavour, organizzata dalla Nato per contrastare il traffico d’armi e il terrorismo internazionale controllando le navi mercantili. Il tutto in attesa dell’esito della missione difficilissima dell’inviato dell’Onu, Bernardino Leon, da cui potrebbe nascere un impegno italiano molto più concreto.
CORRIERE.IT
Quattro italiani dipendenti della società di costruzioni parmense Bonatti sono stati rapiti in Libia nei pressi dell’impianto della «Mellitah Oil & Gas», 60 chilometri a ovest di Tripoli, quasi al confine con la Tunisia da dove parte il gasdotto Greenstream che porta il petrolio direttamente a Gela, in Sicilia. Il sequestro è avvenuto domenica, mentre il gruppo dalla Tunisia rientrava in Libia ed era diretto verso l’impianto petrolifero e gasiero che esporta anche verso l’Italia. Per ora non c’è stata alcuna rivendicazione. La procura di Roma ha già aperto un’inchiesta.
L’Unità di crisi del ministero degli Esteri si è immediatamente attivata per seguire il caso ed è in contatto costante con le famiglie dei connazionali e con la ditta Bonatti. Un dirigente della società, che ha confermato il rapimento, contattato per telefono dall’agenzia Reuters, ha detto di non poter rispondere a domande sulle circostanze del rapimento, né se esso sia stato rivendicato o se sia giunta una richiesta di riscatto da parte dei sequestratori. In seguito alla chiusura dell’ambasciata d’Italia in Libia il 15 febbraio, la Farnesina aveva segnalato la situazione di estrema difficoltà del Paese invitando tutti i connazionali a lasciare la Libia.
Le ipotesi
Fonti locali, citate dall’agenzia Afrigate, sostengono che gli italiani siano stati rapiti nei pressi Zuaia, città sotto il controllo delle milizie islamiste che appoggiano il governo di Tripoli, a Nord-ovest del Paese nordafricano, «mentre stavano rientrando dalla Tunisia» ed erano diretti a Mellitah. Secondo l’emittente al Jazeera gli italiani sarebbero stati sequestrati da uomini vicini al cosiddetto «Jeish al Qabail» (L’esercito delle Tribù), le milizie tribali della zona ostili a quelle di «Alba della Libia» (Fajr) di Tripoli. Il rapimento è infatti avvenuto in una zona che fino a poco tempo fa era teatro di scontri e che solo di recente si è calmata dopo la tregua sottoscritta dalle milizie tribali e da quelle di Alba della Libia.
Gentiloni: «Lavoriamo con intelligence»
E dunque il caos e il vuoto di potere nel Paese - dove da mesi si contrappongono due governi rivali, il Congresso nazionale di Tripoli e il governo di Tobruk, riconosciuto dalla comunità internazionale - tornano a investire prepotentemente l’Italia. Per il ministro degli esteri Paolo Gentiloni è al momento difficile fare ipotesi sugli autori del rapimento. Il ministro, a margine di una riunione a Bruxelles, ha precisato che l’Unità di crisi della Farnesina si è immediatamente attivata: «Stiamo lavorando con l’intelligence. È una zona in cui ci sono anche dei precedenti. Al momento ci dobbiamo attenere alle informazioni che abbiamo e concentrarci sul lavoro per ottenerne altre sul terreno». La zona di Mellitah è segnalata, sia dai servizi italiani che da quelli libici, come una delle più esposte alla minaccia dell’Isis, che in un video di propaganda mostrò le immagini del gasdotto Eni sormontato da una bandiera dello Stato islamico. Secondo Gentiloni, però, è infondato affermare che il rapimento sia una rappresaglia contro l’Italia. Ha però ammesso la pericolosità della situazione nel paese: «Confermo che è pericoloso restare in Libia. Dire questo - continua il ministro - non diminuisce l’impegno dell’Italia a portare in salvo i nostri connazionali».
Contractor internazionale
La Bonatti Spa è un general contractor internazionale che ha sede a Parma. Offre, spiega il sito istituzionale della azienda, servizi di ingegneria, costruzione, gestione e manutenzione impianti per l’industria dell’energia. Ha sussidiarie o associate in Arabia Saudita, Egitto, Algeria, Kazakhstan, Austria, Messico Canada, Mozambico e Libia. Bonatti opera in 16 nazioni: Algeria, Austria, Canada, Egitto, Francia, Germania, Iraq, Italia, Kazakhstan, Messico, Mozambique, Romania, Arabis Saudita, Spagna, Turkmenistan e, appunto, Libia. Qui la Bonatti ha iniziato ad operare nel 1979 con un primo contratto per conto di Agip. Oltre che nei confronti di Eni l’azienda parmigiana è contractor anche delle principali compagnie petrolifere tedesche, francesi e spagnole ed opera ininterrottamente nel paese da 36 anni ad esclusione di una breve parentesi nel 2011 quando, durante la rivoluzione contro Gheddafi, venne evacuato dal paese tutto il personale non locale. Attualmente la Bonatti ha circa trecento dipendenti nell’area.
Greenstream, serpente del Mediterraneo
Mellitah è una località a 60 km da Tripoli, sede della stazione di compressione del gas libico, da dove si diparte «Greenstream», il più grande metanodotto sottomarino in esercizio nel Mediterraneo, sui cui fondali, per una lunghezza di 520 km, si posa fino a raggiungere una profondità che supera i 1.100 metri. Il gasdotto, realizzato nei primi anni del 2000, approda al terminale di Gela, in Sicilia, sulla spiaggia a est della raffineria che l’Eni ha chiuso per riconvertirla a centro di produzione di biocarburanti. Fornisce all’Europa 10 miliardi di metri cubi di gas all’anno: due miliardi per l’Italia e il resto per gli altri paesi, in prevalenza la Francia. Greenstream appartiene a una società mista composta da Eni e dall’agenzia petrolifera libica National Oil Corporation (Noc) ed è uno dei due metanodotti che collegano l’Italia al Nordafrica (l’altro è il gasdotto con l’Algeria). Dopo la caduta di Gheddafi, gruppi armati, tribù e bande si contendono il controllo delle fonti energetiche. Dall’inizio del conflitto libico, per due volte l’Eni ha deciso di fermare il gasdotto e fare rientrare il proprio personale in Italia.
Governo di unità nazionale: i colloqui
E proprio lunedì, nel tentativo di trovare una soluzione diplomatica alla crisi libica, i ministri degli Esteri Ue discuteranno gli sviluppi sulla formazione di un governo di unità nazionale in Libia, nel corso della consueta riunione mensile in programma a Bruxelles. Arrivando alla riunione, l’Alto Rappresentante Ue per la politica estera, Federica Mogherini, ha detto che l’Ue «continua a sostenere la formazione di un governo di unità nazionale nella speranza che possa accadere presto, e in particolare che la fazione di Tripoli vi si unisca presto». Alla riunione partecipa l’inviato speciale Onu per la Libia, Bernardino Leon. Sul tavolo c’è anche la valutazione della necessità di sanzioni contro le fazioni libiche che ostacolano il processo di pace.
MAURIZIO .
LA STAMPA
Il rapimento dei quattro tecnici italiani a Mellitah evidenzia come una delle maggiori zone di instabilità nel Maghreb sia l’area di confine fra la Tripolitania libica e la Tunisia del Sud.
Le indagini svolte dalla polizia di Tunisi dopo gli attacchi al museo Bardo e al resort di Sousse hanno portato ad identificare proprio il Sud del Paese come la regione dove la presenza dei jihadisti è più consistente, grazie ai legami con le cellule libiche. Retate di arresti e blitz dei militari hanno portato a scoprire a Tataouine un deposito di 20 mila proiettili destinato a gruppi terroristi, sempre di origine libica.
Flussi di gas e petrolio e minacce jihadiste (di M.Molinari)
La porosità del confine desertico con la Libia consente a jihadisti e bande di criminali comuni di operare nell’area a cavallo dei due Paesi con grande libertà. Fino al punto che Badrea Gaaloul, presidente dell’”International Center for Strategic, Security and Military Studies” di Tunisi arriva a definire «un obiettivo possibile per Isis dichiarare uno Stato Islamico che da Sirte, nella Libia centrale, raggiunge la Tunisia del Sud» perché «è questo il punto più debole della sicurezza nel nostro Paese».
A un’ora di auto da Tataouine c’è Ramada, la cittadina di 4600 anime da 400 km a Sud di Sousse da dove è stato registrato un massiccio flusso di volontari verso Isis, molti dei quali hanno raggiunto la Libia.
Mellitah si trova a metà strada fra Tripoli, in mano alle milizie islamiche rivali di Isis, e il Sud della Tunisia roccaforte dei jihadisti e non si può escludere che i rapitori appartengano proprio ai gruppi criminali che hanno trasformato quest’area in una roccaforte.
MOLINARI IL 1 MARZO
Petrolio, gas, satelliti e il tesoro di Gheddafi: a legare Libia e Italia sono interessi economici per miliardi di euro che continuano a esistere nonostante il pesante impatto della guerra civile iniziata nel 2011. Quando Gheddafi e Berlusconi siglarono nel 2008 il «Trattato di Amicizia» importavamo dalla Libia 1,6 milioni di barili al giorno e l’Eni progettò investimenti per 25 miliardi di dollari immaginando un’espansione. Nel 2014 la produzione di greggio dell’Eni è stata di 240 mila barili e, secondo quanto affermato dall’amministratore delegato Claudio Descalzi, ora tocca i 300 mila barili.
Le strutture aperte
Ciò significa che l’importanza della Libia per il nostro fabbisogno energetico è diminuita ma resta significativa. Questo lo si deve anche all’andamento degli scontri bellici in Libia fra le diverse fazioni perché se è vero che in Cirenaica hanno portato alla chiusura - da circa 18 mesi - del campo di Abu Attifel, in Tripolitania restano aperti gli impianti petroliferi di Bouri come anche le piattaforme sui giacimenti offshore di Wafa (gas e petrolio) ed Elephant (petrolio). Soprattutto ciò che conta è la perdurante attività dei giacimenti offshore di Bahr Essalam che attraverso la piattaforma di Sabratha forniscono gas al centro di trattamento di Mellitah che lo convoglia nel gasdotto Greenstream che raggiunge la Sicilia.
Al lavoro blindati
I flussi di gas dalla Libia all’Italia restano regolari e ciò spiega la perdurante importanza strategica di questo import. Ciò che è cambiato negli ultimi mesi è l’assetto del personale dell’Eni sul territorio perché, come ha spiegato Descalzi in una conversazione con analisti energetici, gli espatriati italiani sono oramai presenti solo sulle piattaforme offshore mentre gli impianti a terra vengono gestiti da personale locale e restano protetti da rigide misure di sicurezza nel timore di subire attacchi come avvenuto ad alcuni impianti francesi in coincidenza con la decapitazione dei 21 copti egiziani da parte di Isis. Energia a parte, l’Italia ha altri importanti investimenti in Libia fra cui spicca l’accordo da 250 milioni di euro siglato dal 2009 da Finmeccanica per progetti aerospaziali che hanno portato nel 2013 a realizzare un impianto per la sorveglianza satellitare delle coste. Sarebbe dovuto entrare in funzione nel 2014, la guerra civile lo ha impedito e resta l’interrogativo sulla sorte di una struttura molto avanzata.
«Il tesoro dell’ex raiss»
Ultimo, ma non per importanza, il «tesoro di Gheddafi» ovvero i circa due miliardi di euro di investimenti che fece in Italia e sono al momento congelati. Si tratta non solo di ville in Sardegna e Pantelleria, una flotta di auto di lusso ed appartamenti mozzafiato a Roma e Milano, ma anche di azioni di Finmeccanica, Eni, Unicredit, Ubae, Fiat, Abc International Bank, Banca dell’Emilia Romagna e Juventus che restano in bilico: l’Italia li sequestrò nel 2011 su disposizione del Tpi dell’Aja, ma in giugno la Corte Costituzionale ha stabilito la restituzione al legittimo governo libico, che però al momento continua a non esistere a causa del caos militare.
Lo striscione a Wafa
Nel pomeriggio è apparsa su Facebook, pubblicato dai colleghi dei lavoratori rapiti, una fotografia dello striscione che chiede la libertà per i quattro italiani. «Freedom for Gino, Salvo, Filippo e Fausto»: è il messaggio apparso nel compound di Wafa, il centro della Libia dove opera la Bonatti.
TRE LE IPOTESI:
1) L’Isis. In quest’area è crescente la presenza di miliziani del Califfato islamista.
2) Le milizie. Nei giorni scorsi in Marocco è stato infatti firmato un accordo per la pacificazione nazionale senza gli islamisti di Tripoli. Il sequestro potrebbe essere un messaggio delle milizie contrarie all’accordo. È questa la tesi di Al Jazeera che, citando fonti militari di Tripoli, sostiene che i sequestratori sarebbero elementi vicini al cosiddetto «Jeish al Qabail» (L’esercito delle Tribù), le milizie tribali della zona ostili a quelle di «Alba della Libia».
3) Criminali “comuni”. Un’altra ipotesi è che si tratti di un sequestro a fine estorsivo. Nella stessa zona era stato rapito e poi rilasciato il tecnico italiano Marco Vallisa.