VARIE 19-20/7/2015, 20 luglio 2015
APPUNTI PER OGGI - LA PROMESSA DI RENZI SULLA RIDUZIONE DELLE TASSE E I RELATIVI CALCOLI
GIORNALI DEL 19/7
CORRIERE DELLA SERA
MARIO SENSINI
ROMA L’abolizione della tassa sulla prima casa nel 2016, poi l’abbattimento dell’Ires per le imprese nel 2017 e l’anno dopo, a fine legislatura, il taglio dell’Irpef. Matteo Renzi promette una riduzione delle tasse «senza precedenti»: 35 miliardi nel prossimo triennio, che si aggiungono ai 15 già tagliati con il bonus di 80 euro e gli sgravi Irap del 2014-15, per un totale di 50 miliardi in cinque anni.
Il piano del premier prevede uno sgravio di 5 miliardi l’anno prossimo, con l’eliminazione della Tasi sull’abitazione principale e dell’Imu su terreni agricoli e impianti industriali, di 15 nel 2017, con una sforbiciata alle tasse sulle imprese ed altri 15 l’anno dopo con l’abbattimento delle imposte sui redditi delle persone fisiche. Le risorse necessarie saranno recuperate con tagli alla spesa, forse anche posticipando di un anno il pareggio di bilancio fissato al 2017, ma senza infrangere il tetto del 3% del deficit. Il governo è convinto di avere più margini anche grazie ad un’accelerazione della crescita, che il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan ha definito ieri «più robusta».
Si comincia, dunque, dal prelievo sulla casa. Con la legge di Stabilità di ottobre la Iuc, l’imposta comunale basata sugli immobili e articolata in tre tributi distinti (Imu, Tasi e Tari), verrà riformata per l’ennesima volta e semplificata. Sarà un tributo unico, la «local tax», e non si applicherà alla prima casa di abitazione. Naturalmente i Comuni, che sono i titolari delle imposte sugli immobili, dovranno essere compensati con nuovi trasferimenti dallo Stato centrale.
Dopo l’Imu «piena» del 20 12, l’Imu «superscontata» del 2013 e la Tasi del 2014, dunque, chi ha una sola abitazione e vi risiede sarà graziato. Uno sgravio che vale circa 3,3 miliardi di euro. Almeno sulla carta, perché la local tax sarà accompagnata dalla riforma del catasto, che nel giro di qualche anno determinerà una profonda ridefinizione delle rendite catastali degli immobili, cioè dei valori sui quali si applicano le aliquote. Renzi non ne ha accennato, ma è scontato che l’esenzione della tassa sull’abitazione di residenza non riguarderà case di lusso, ville e castelli che già oggi, oltre alla Tasi, devono pagare anche l’Imu, l’imposta che si paga sugli immobili diversi dalla prima casa .
Con la manovra del 2016, invece, saranno cancellate l’Imu agricola e quella sui cosiddetti «imbullonati», cioè i macchinari industriali piantati a terra, come forni, presse e quant’altro, che fin qui hanno prodotto più polemiche che gettito.
L’Imu agricola, in particolare, è stata fonte di contestazioni infinite. Oggi si paga in funzione di due criteri, l’altezza sul livello del mare della «casa comunale», e la definizione Istat del territorio municipale. Non si paga se questo è «interamente» montano, e se la sede del comune è oltre 600 metri. Sono esenti solo coltivatori diretti e imprese agricole se il territorio è «parzialmente» montano o se il comune sta tra i 280 e i 600 metri di altezza, mentre fino a 280 metri l’Imu agricola, su terreni e fabbricati rurali, la pagano tutti. Un sistema complicatissimo per un gettito che è via via diminuito, fin quasi a divenire irrisorio. Nel 2011, il primo anno, l’incasso fu di 630 milioni di euro, poi sceso a 400 nel 2012, a 260 nel 2013 e ad appena 115 milioni di euro, dopo le ultime modifiche, nel 2014.
Parimenti assurdo è il caso dell’Imu sui macchinari industriali, di fatto equiparati agli immobili perché sono fissati a terra. Una cosa che secondo il presidente del Consiglio «non sta né in cielo, né in terra», ma che è prevista dalla Legge di Stabilità del 2014 (Governo Letta) e blindata da una sentenza di febbraio della sezione tributaria della Corte di Cassazione. In virtù di questa interpretazione, «tutte le componenti che contribuiscono in via ordinaria ad assicurare ad una unità immobiliare una specifica autonomia funzionale e reddituale stabile nel tempo, sono da considerare elementi influenti sulla quantificazione della relativa rendita catastale».
La sentenza ha spianato la strada alle pretese dell’Agenzia delle Entrate (l’Imu sui capannoni va allo Stato), che ha cominciato ad applicare i nuovi criteri alle grandi imprese di lavorazione pesante, come acciaierie e impianti petroliferi, per le quali la bolletta dell’Imu è esplosa. Un’azienda del gruppo Eni in Emilia-Romagna si è trovata a pagare un’Imu maggiorata, rispetto al 2013, addirittura del 900%.
Mario Sensini
ALBERTO BRAMBILLA
Chi guadagna da 55 a 100 mila euro l’anno paga in media 15 mila euro di Irpef, vale a dire 31 volte l’imposta versata dal 46,5% dei contribuenti fino a 15 mila euro di reddito. È questo solo uno dei risultati dell’esame dei modelli 730 e Unico degli italiani.
L’analisi delle dichiarazioni Irpef è poi fondamentale non solo per la tenuta dei conti pubblici, ma soprattutto per valutare la sostenibilità del sistema sociale (il cosiddetto welfare): sia per l’assistenza sanitaria, finanziata con l’addizionale Irpef, con l’Irap (per il 2013: 34,8 miliardi di cui 24,8 dal settore privato) e con la compartecipazione delle accise sulla benzina e sull’Iva; sia, in prospettiva, per il sistema pensionistico, perché se non si pagano tasse oggi, in generale non si versano neppure i contributi sufficienti, con pesanti ripercussioni sulla previdenza.
L’Irpef vale 168 miliardi
La somma dei redditi 2013 dichiarati per l’Irpef è di 803,3 miliardi, per un totale di 167,8 miliardi di imposte sulle persone fisiche versate nel 2014, addizionali incluse. Dai dati emerge che:
a) i lavoratori autonomi versano appena il 6,27% dell’Irpef totale
b) il 46,5% dei contribuenti (19,1 milioni), che hanno redditi fino a 15.000 euro l’anno, dichiarano solo il 16,20% del totale dei redditi, cioè 130 miliardi, per un importo medio di 6.851 euro (571 euro al mese, meno di un pensionato sociale con integrazione)
c) l’imposta media pagata è di 485 euro per contribuente, ma considerando il rapporto tra cittadini italiani (60.782.668) e contribuenti (40.989.567) ognuno di questi ultimi ha in carico 1,483 cittadini; quindi ai 19,1 milioni di dichiaranti fino a 15.000 euro corrispondono 28.295.197 cittadini e l’imposta media annua pagata è di 327 euro.
In base a questi dati, per garantire la sanità a questi primi 28,3 milioni di italiani occorre che altri cittadini (contribuenti più fortunati o più onesti) versino 41,3 miliardi (1.790 - 327 euro, poi moltiplicati per 28.295.197), oltre a pagarsi la propria sanità, dato che il servizio sanitario nazionale per il 2013 è costato circa 109 miliardi per una spesa pro capite di 1.790 euro.
I pensionati
Togliendo dal totale i pensionati, restano 11,9 milioni di lavoratori con redditi sotto i 15 mila euro l’anno; in particolare 3,8 milioni di dipendenti e 3,4 milioni di autonomi dichiarano redditi negativi (dove quindi le detrazioni superano i guadagni) o al massimo fino a 7.500 euro.
E’ ovvio che questi 7,2 milioni di persone — a cui si sommano altri 4,7 milioni che dichiarano in media 11.500 euro l’anno — non matureranno il minimo pensionistico e quindi in futuro dovremo pagare pensioni sociali, maggiorazioni o integrazioni al minimo a oltre 11 milioni di futuri pensionati «poveri».
Il divario Nord-Sud
Scomponendo poi i dati per contribuente (dipendenti, autonomi e pensionati) e per aree geografiche, si possono fare altre osservazioni:
1) gli autonomi (artigiani, commercianti, imprenditori e liberi professionisti) dichiaranti sono 5,6 milioni (con i lavoratori parasubordinati si superano i 7,5 milioni) ma quelli che versano sono solo 2,9 milioni; di questi oltre 1,1 milioni dichiara redditi fino a 7.500 euro (in media meno di 3 mila euro l’anno) e altri 625 mila in media di 11 mila euro l’anno; sulla base dell’Irpef pagata (80 euro l’anno per i primi e 590 euro per i secondi), a questi autonomi — cui corrispondo 2,5 milioni di cittadini — dovremo pagare oggi tutta o quasi la spesa sanitaria 2013 e in futuro anche la pensione
2) è evidente più che mai quanto l’introduzione del «contrasto d’interessi» sia indifferibile in un Paese come il nostro, perché ridurrebbe l’enorme evasione fiscale stimata tra 300 e 400 miliardi di redditi in «nero»
3) i pensionati dichiaranti sono circa 15 milioni, di cui 1,3 milioni lavorano ancora normalmente; questi ultimi con le tasse si pagano la propria pensione e quella di altri pensionati; i cosiddetti «pensionati d’oro», cioè quelli che prendono tra 55 e 100 mila euro lordi l’anno (in media 47 mila euro netti l’anno), sono solo il 2,5% del totale e dichiarano il 14,7% dell’Irpef totale; quelli sopra i 100 mila euro sono lo 0,79% del totale, circa 175.000, e pagano il 13% dell’Irpef totale. In pratica circa il 3,3% dei pensionati paga quasi il 28% di tutta l’Irpef
4) un contribuente con un reddito tra 55 e 100 mila euro paga 15 mila euro di tasse, cioè 31 volte l’imposta pagata dal 46,5% dei contribuenti fino a 15 mila euro di reddito; quelli tra 100 e 200 mila 65 volte, quelli tra 200 e 300 mila 129 volte e addirittura 336 volte quelli sopra i 300 mila euro. E’ come dire che un lavoratore con reddito di 100 mila euro paga in un anno quello che uno dei 19 milioni di dichiaranti paga invece in 40 anni di lavoro. Questo divario tra imposte è molto superiore al divario medio dei redditi
5) Infine, dal punto di vista geografico, al Nord l’imposta media pro capite è di 4.676 euro, al Centro 4.459 euro e al Sud di 2.900 euro; considerando tutti i cittadini, e non solo i contribuenti, le cifre si riducono rispettivamente a 3.406, 3.078 e 1.720 euro. L’intero Sud (20,9 milioni di abitanti) sulla base dell’imposta media non raggiunge neppure il costo della sanità; tutto il resto è a carico di altri contribuenti.
La competitività
Come si vede quando si parla di welfare (e ancora più di reddito minimo) sarebbe bene un’analisi di sostenibilità per non scaricarne i costi sulle giovani generazioni, pratica purtroppo in uso ancora oggi, o aumentare le tasse e i contributi «buttando» fuori mercato l’Italia in termini di competitività e quindi di occupazione e sviluppo.
Alberto Brambilla
Presidente Itinerari Previdenziali e direttore master Liuc
REPUBBLICA
ROBERTO PETRINI
ROBERTO PETRINI
ROMA. Qualcuno ha cominciato a chiamarlo il “Contratto dell’Expo”. Il rilancio del presidente del Consiglio Matteo Renzi che promette una mega riduzione di tasse triennale va dritto alla pancia degli italiani. Come fu per Silvio Berlusconi che nel 2001 a “Porta a porta” annunciò le famose due aliquote Irpef da 23% sotto i 100 mila euro e da 33 sopra: non si fecero mai ma portarono molti voti. Il problema delle tasse tuttavia c’è e Renzi si prepara alla guerra, e forse alla campagna elettorale, affrontando il cuore del malessere fiscale italiano. Dall’assemblea del Pd di Milano fa balenare una «rivoluzione copernicana»: dall’odiosa Tasi che grava sui proprietari di casa, alla urticante Irap che ancora pesa sugli imprenditori e, alla pesante Irpef che falcidia lavoro dipendente e pensioni. Secondo i primi calcoli il sogno di Renzi potrebbe costare fino a 45 miliardi in tre anni.
L’operazione naturalmente è appena abbozzata nelle sue linee generali. Ma la mossa politica non è affatto vaga, anzi fin troppo chiara e meditata. La pressione fiscale quest’anno, nonostante l’operazione 80 euro che ha agito sull’Irpef, ha raggiunto livelli molto alti: siamo al 43,5% e il prossimo anno arriveremo al 44,1. Poco sopportabile soprattutto la tassa sulla casa, che gli italiani hanno appena accantonato con la rata di giugno e che si ritroveranno di fronte a dicembre. Il costo medio della Tasi sulla prima casa (il nuovo nome di quella che fu l’Ici e poi l’Imu) è stato quest’anno di 180 euro a famiglia ma se andiamo a vedere la “top ten” dei Comuni dove si paga di più, realizzata dalla Uil servizio politiche territoriali, si scopre che a Torino ci sono punte di 403 euro, a Roma di 391 e a Firenze di 346. Il disagio monta: i proprietari accusano Tasi e Imu (sulle seconde case) di affossare il mercato immobiliare; il ritorno delle detrazioni, affidato alle scelte dei singoli sindaci, ha creato un caos di oltre 100 mila combinazioni tra Isee, numero dei figli, zone censuarie e rendite. Qualcuno che possa prendere in mano la bandiera di questo scontento può sempre esserci: per Renzi dunque meglio giocare d’anticipo (e del resto un segnale era già arrivato con lo stop alla riforma del catasto dei gioni scorsi). L’intera tassazione sulla casa tra Imu e Tasi pesa 23,8 miliardi, ma per abolire la Tasi sulla prima abitazione ne servono 3,8 e sarà necessario trovare risorse alternative per i Comuni già in forte crisi finanziaria. Più facile a dirsi che a farsi. Anche perché la legge di Stabilità 2016, che dovrebbe contenere l’operazione di riduzione delle tasse, è già un esercizio da equilibristi: la priorità è infatti quella di impedire che dal 1° gennaio del 2016 scatti l’aumento di due punti delle aliquote Iva e delle accise e siccome si tratta di 12,8 miliardi di gettito bisogna assolutamente trovarne 10 attraverso la spending review, ancora in corso e tutta da scrivere da qui all’autunno. Senza contare che le due batoste assestate dalla Corte costituzionale al governo Renzi con le due sentenze sulla indicizzazione delle pensioni e degli stipendi degli statali pesano sui conti pubblici di quest’anno e del prossimo per altri 4 miliardi.
L’impresa di cancellare con un colpo di spugna il disagio Tasi- Imu non si dovrebbe fermare alla prima abitazione: stando alle parole del presidente del Consiglio almeno altre due rogne verrebbero eliminate, l’Imu sui terreni agricoli montani non coltivati e i cosiddetti “imbullonati” cioè la doppia Imu che pagano gli imprenditori sul capanno- ne e sui macchinari fissati a terra, appunto con i bulloni.
Anche in questo caso ci sono costi: il tutto vale circa 1 un miliardo. Il secondo passaggio, nel 2017, riguarderebbe ancora le imprese. Già lo scorso anno è stata abolito dall’imponibile Irap il costo del lavoro per i dipendenti a tempo indeterminato, la tappa successiva potrebbe essere quella di ridurre l’imponibile anche sul tempo determinato. L’altra strada, annunciata anch’essa da Renzi, potrebbe essere la riduzione dell’Ires, oggi al 27,5. Comunque si agisca, Irap o Ires, il costo volteggerebbe intorno ai 4 miliardi.
Il missile a stadi di Renzi arriverebbe a destinazione nel 2018. Allora sarebbe prevista la rimodulazione delle aliquote Irpef: la più bassa è oggi al 23% per i redditi sotto i 15 mila euro.
Non è detto che si agirà su questa perché si rischia di avvantaggiare in proporzione anche i più alti: ma è bene sapere che un punto di questa aliquota costa 2,6 miliardi. Per un paio di punti ci vorrebbe il doppio: certo non si arriverebbe mai alla flat tax di Salvini che costa 100 miliardi, ma la partita aperta da Renzi prevederebbe comunque una caccia al tesoro da
far tremare i polsi.
LA STAMPA
PAOLO BARONI
Per favorire la crescita, questo giornale lo ha sempre sostenuto, la via maestra è quella di tagliare le tasse che gravano sul lavoro. In parte il governo ha già iniziato a farlo riducendo l’Irap. Ora Renzi però ha deciso di imboccare un’altra strada.
Una strada certamente molto popolare, annunciando di voler azzerare le tasse sulla prima casa. Anche questa è una via utile ad alleggerire il carico sulle famiglie, dare la scossa definitiva alla fiducia del Paese, sostenere i consumi e quindi la ripresa. In tre anni però occorrerà reperire risorse per ben 35 miliardi. Aumentando il deficit, ma senza sforare il tetto del 3%, e tagliando ancora di più la spesa. Ben sapendo che più si va avanti e più si riducono gli spazi di manovra visto che occorre ancora disinnescare 70 miliardi di aumenti di tasse previsti dalle vecchie clausole di salvaguardia. L’impresa è tutt’altro che facile.
Il primo passo della rivoluzione fiscale renziana, quello previsto per il 2016, è il più facile da compiere: vale all’incirca 5 miliardi di euro su un pacchetto da 35, che salgono a 50-60 in 5 anni conteggiando anche i tagli del 2014-2015 (i 10 miliardi del bonus da 80 euro ed i 5 destinati al taglio dell’Irap e del costo del lavoro).
Addio alla Tasi
Abolire le tasse sulla prima casa, non tanto l’Imu residua (che oggi pagano solo i 76 mila immobili di lusso accatastati A1, A8 e A9 e che vale appena 90 milioni di euro di gettito) quanto il suo succedaneo, ovvero la Tasi (la tassa comunale sui servizi indivisibili), costa all’incirca 3,5 miliardi. Ed in media farà risparmiare 200 euro a famiglia. Fare marcia indietro sull’ultimo aumento dell’Imu agricola, contestatissima da tutte le associazioni di categoria e per questo al centro di un lungo braccio di ferro nei mesi passati in Parlamento, invece, produce un «buco» di 260 milioni di euro su un gettito complessivo di 550. Mentre togliere l’Imu ai cosiddetti «imbullonati», ovvero quei macchinari che per funzionare devono essere fissati al suolo diventando agli occhi del Fisco beni immobili da tassare, al massimo può valere un miliardo di euro.
Non si sfora il 3%
Se il conto complessivo del primo anno non è eccessivo, più complicata è la traduzione pratica di un’operazione del genere (nel mirino ci sarebbero anche le 103 mila differenti modalità di esenzione dalla Tasi decise dai Comuni), come assicurare agli enti locali un gettito equivalente e, soprattutto, come compensare le minori entrate (evitando di introdurre altre tasse). Per ora, fanno testo le parole del premier che ieri ha confermato di voler tenere l’Italia sotto il tetto del 3% di deficit e di voler proseguire con la discesa del debito pubblico, anche se magari un poco più lentamente del previsto. L’ultimo Documento di economia e finanza prevedeva un deficit pari a zero nel 2018 e un debito ridotto al 123,4 del Pil.
Pensionati, bonus da 80 euro
Ora l’idea è quella di cercare di individuare nuovi risparmi di spesa e di sfruttare tutti i margini di flessibilità che verranno contrattati con Bruxelles. Operazione che, nelle attese di Palazzo Chigi, potrebbe assicurare «spazi molto ampi» di manovra. In realtà i problemi veri arriveranno più avanti. Nel 2017 quando il governo conta di aggredire di nuovo l’Irap e sforbiciare l’Ires per ridurre la pressione fiscale sulle imprese al conto si aggiungono altri 15 miliardi. E altri 15 dovranno essere reperiti nel 2018, quando il cronoprogramma renziano prevede di mettere mano alle aliquote Irpef, riducendole da 5 a 2, e di estendere il bonus da 80 euro alle pensioni minime.
Il rischio, a questo punto, è che il governo debba fare leva più sull’aumento del deficit (restando entro il 3% del Pil) che sui proventi della spending review. Perché già per il 2016 i due consiglieri di Palazzo Chigi incaricati di realizzare la revisione della spesa, Yoram Gutgeld e Roberto Perotti, devono individuare risparmi per 10 miliardi allo scopo di disinnescare una serie di clausole di salvaguardia che farebbero aumentare Iva e accise per circa 16 miliardi. Un conto che nel triennio è destinato a salire a circa 70 miliardi lasciando di fatto davvero poco spazio per altri interventi.
La scommessa
Renzi certamente scommette sul fatto che la crescita futura sarà più robusta del previsto (e quindi anche le entrate), ma soprattutto è convinto che si debba procedere sul sentiero delle riforme, che non solo dovrebbero contribuire a ridurre i costi, ma dovrebbero convincere Bruxelles che stiamo facendo sul serio e confermare nei fatti sia la nostra credibilità internazionale che, si spera, la sostenibilità dei nostri conti.
Twitter @paoloxbaroni
Per favorire la crescita, questo giornale lo ha sempre sostenuto, la via maestra è quella di tagliare le tasse che gravano sul lavoro. In parte il governo ha già iniziato a farlo riducendo l’Irap. Ora Renzi però ha deciso di imboccare un’altra strada.
Una strada certamente molto popolare, annunciando di voler azzerare le tasse sulla prima casa. Anche questa è una via utile ad alleggerire il carico sulle famiglie, dare la scossa definitiva alla fiducia del Paese, sostenere i consumi e quindi la ripresa. In tre anni però occorrerà reperire risorse per ben 35 miliardi. Aumentando il deficit, ma senza sforare il tetto del 3%, e tagliando ancora di più la spesa. Ben sapendo che più si va avanti e più si riducono gli spazi di manovra visto che occorre ancora disinnescare 70 miliardi di aumenti di tasse previsti dalle vecchie clausole di salvaguardia. L’impresa è tutt’altro che facile.
Il primo passo della rivoluzione fiscale renziana, quello previsto per il 2016, è il più facile da compiere: vale all’incirca 5 miliardi di euro su un pacchetto da 35, che salgono a 50-60 in 5 anni conteggiando anche i tagli del 2014-2015 (i 10 miliardi del bonus da 80 euro ed i 5 destinati al taglio dell’Irap e del costo del lavoro).
Addio alla Tasi
Abolire le tasse sulla prima casa, non tanto l’Imu residua (che oggi pagano solo i 76 mila immobili di lusso accatastati A1, A8 e A9 e che vale appena 90 milioni di euro di gettito) quanto il suo succedaneo, ovvero la Tasi (la tassa comunale sui servizi indivisibili), costa all’incirca 3,5 miliardi. Ed in media farà risparmiare 200 euro a famiglia. Fare marcia indietro sull’ultimo aumento dell’Imu agricola, contestatissima da tutte le associazioni di categoria e per questo al centro di un lungo braccio di ferro nei mesi passati in Parlamento, invece, produce un «buco» di 260 milioni di euro su un gettito complessivo di 550. Mentre togliere l’Imu ai cosiddetti «imbullonati», ovvero quei macchinari che per funzionare devono essere fissati al suolo diventando agli occhi del Fisco beni immobili da tassare, al massimo può valere un miliardo di euro.
Non si sfora il 3%
Se il conto complessivo del primo anno non è eccessivo, più complicata è la traduzione pratica di un’operazione del genere (nel mirino ci sarebbero anche le 103 mila differenti modalità di esenzione dalla Tasi decise dai Comuni), come assicurare agli enti locali un gettito equivalente e, soprattutto, come compensare le minori entrate (evitando di introdurre altre tasse). Per ora, fanno testo le parole del premier che ieri ha confermato di voler tenere l’Italia sotto il tetto del 3% di deficit e di voler proseguire con la discesa del debito pubblico, anche se magari un poco più lentamente del previsto. L’ultimo Documento di economia e finanza prevedeva un deficit pari a zero nel 2018 e un debito ridotto al 123,4 del Pil.
Pensionati, bonus da 80 euro
Ora l’idea è quella di cercare di individuare nuovi risparmi di spesa e di sfruttare tutti i margini di flessibilità che verranno contrattati con Bruxelles. Operazione che, nelle attese di Palazzo Chigi, potrebbe assicurare «spazi molto ampi» di manovra. In realtà i problemi veri arriveranno più avanti. Nel 2017 quando il governo conta di aggredire di nuovo l’Irap e sforbiciare l’Ires per ridurre la pressione fiscale sulle imprese al conto si aggiungono altri 15 miliardi. E altri 15 dovranno essere reperiti nel 2018, quando il cronoprogramma renziano prevede di mettere mano alle aliquote Irpef, riducendole da 5 a 2, e di estendere il bonus da 80 euro alle pensioni minime.
Il rischio, a questo punto, è che il governo debba fare leva più sull’aumento del deficit (restando entro il 3% del Pil) che sui proventi della spending review. Perché già per il 2016 i due consiglieri di Palazzo Chigi incaricati di realizzare la revisione della spesa, Yoram Gutgeld e Roberto Perotti, devono individuare risparmi per 10 miliardi allo scopo di disinnescare una serie di clausole di salvaguardia che farebbero aumentare Iva e accise per circa 16 miliardi. Un conto che nel triennio è destinato a salire a circa 70 miliardi lasciando di fatto davvero poco spazio per altri interventi.
La scommessa
Renzi certamente scommette sul fatto che la crescita futura sarà più robusta del previsto (e quindi anche le entrate), ma soprattutto è convinto che si debba procedere sul sentiero delle riforme, che non solo dovrebbero contribuire a ridurre i costi, ma dovrebbero convincere Bruxelles che stiamo facendo sul serio e confermare nei fatti sia la nostra credibilità internazionale che, si spera, la sostenibilità dei nostri conti.
Twitter @paoloxbaroni
Per favorire la crescita, questo giornale lo ha sempre sostenuto, la via maestra è quella di tagliare le tasse che gravano sul lavoro. In parte il governo ha già iniziato a farlo riducendo l’Irap. Ora Renzi però ha deciso di imboccare un’altra strada.
Una strada certamente molto popolare, annunciando di voler azzerare le tasse sulla prima casa. Anche questa è una via utile ad alleggerire il carico sulle famiglie, dare la scossa definitiva alla fiducia del Paese, sostenere i consumi e quindi la ripresa. In tre anni però occorrerà reperire risorse per ben 35 miliardi. Aumentando il deficit, ma senza sforare il tetto del 3%, e tagliando ancora di più la spesa. Ben sapendo che più si va avanti e più si riducono gli spazi di manovra visto che occorre ancora disinnescare 70 miliardi di aumenti di tasse previsti dalle vecchie clausole di salvaguardia. L’impresa è tutt’altro che facile.
Il primo passo della rivoluzione fiscale renziana, quello previsto per il 2016, è il più facile da compiere: vale all’incirca 5 miliardi di euro su un pacchetto da 35, che salgono a 50-60 in 5 anni conteggiando anche i tagli del 2014-2015 (i 10 miliardi del bonus da 80 euro ed i 5 destinati al taglio dell’Irap e del costo del lavoro).
Addio alla Tasi
Abolire le tasse sulla prima casa, non tanto l’Imu residua (che oggi pagano solo i 76 mila immobili di lusso accatastati A1, A8 e A9 e che vale appena 90 milioni di euro di gettito) quanto il suo succedaneo, ovvero la Tasi (la tassa comunale sui servizi indivisibili), costa all’incirca 3,5 miliardi. Ed in media farà risparmiare 200 euro a famiglia. Fare marcia indietro sull’ultimo aumento dell’Imu agricola, contestatissima da tutte le associazioni di categoria e per questo al centro di un lungo braccio di ferro nei mesi passati in Parlamento, invece, produce un «buco» di 260 milioni di euro su un gettito complessivo di 550. Mentre togliere l’Imu ai cosiddetti «imbullonati», ovvero quei macchinari che per funzionare devono essere fissati al suolo diventando agli occhi del Fisco beni immobili da tassare, al massimo può valere un miliardo di euro.
Non si sfora il 3%
Se il conto complessivo del primo anno non è eccessivo, più complicata è la traduzione pratica di un’operazione del genere (nel mirino ci sarebbero anche le 103 mila differenti modalità di esenzione dalla Tasi decise dai Comuni), come assicurare agli enti locali un gettito equivalente e, soprattutto, come compensare le minori entrate (evitando di introdurre altre tasse). Per ora, fanno testo le parole del premier che ieri ha confermato di voler tenere l’Italia sotto il tetto del 3% di deficit e di voler proseguire con la discesa del debito pubblico, anche se magari un poco più lentamente del previsto. L’ultimo Documento di economia e finanza prevedeva un deficit pari a zero nel 2018 e un debito ridotto al 123,4 del Pil.
Pensionati, bonus da 80 euro
Ora l’idea è quella di cercare di individuare nuovi risparmi di spesa e di sfruttare tutti i margini di flessibilità che verranno contrattati con Bruxelles. Operazione che, nelle attese di Palazzo Chigi, potrebbe assicurare «spazi molto ampi» di manovra. In realtà i problemi veri arriveranno più avanti. Nel 2017 quando il governo conta di aggredire di nuovo l’Irap e sforbiciare l’Ires per ridurre la pressione fiscale sulle imprese al conto si aggiungono altri 15 miliardi. E altri 15 dovranno essere reperiti nel 2018, quando il cronoprogramma renziano prevede di mettere mano alle aliquote Irpef, riducendole da 5 a 2, e di estendere il bonus da 80 euro alle pensioni minime.
Il rischio, a questo punto, è che il governo debba fare leva più sull’aumento del deficit (restando entro il 3% del Pil) che sui proventi della spending review. Perché già per il 2016 i due consiglieri di Palazzo Chigi incaricati di realizzare la revisione della spesa, Yoram Gutgeld e Roberto Perotti, devono individuare risparmi per 10 miliardi allo scopo di disinnescare una serie di clausole di salvaguardia che farebbero aumentare Iva e accise per circa 16 miliardi. Un conto che nel triennio è destinato a salire a circa 70 miliardi lasciando di fatto davvero poco spazio per altri interventi.
La scommessa
Renzi certamente scommette sul fatto che la crescita futura sarà più robusta del previsto (e quindi anche le entrate), ma soprattutto è convinto che si debba procedere sul sentiero delle riforme, che non solo dovrebbero contribuire a ridurre i costi, ma dovrebbero convincere Bruxelles che stiamo facendo sul serio e confermare nei fatti sia la nostra credibilità internazionale che, si spera, la sostenibilità dei nostri conti.
Twitter @paoloxbaroni
Per favorire la crescita, questo giornale lo ha sempre sostenuto, la via maestra è quella di tagliare le tasse che gravano sul lavoro. In parte il governo ha già iniziato a farlo riducendo l’Irap. Ora Renzi però ha deciso di imboccare un’altra strada.
Una strada certamente molto popolare, annunciando di voler azzerare le tasse sulla prima casa. Anche questa è una via utile ad alleggerire il carico sulle famiglie, dare la scossa definitiva alla fiducia del Paese, sostenere i consumi e quindi la ripresa. In tre anni però occorrerà reperire risorse per ben 35 miliardi. Aumentando il deficit, ma senza sforare il tetto del 3%, e tagliando ancora di più la spesa. Ben sapendo che più si va avanti e più si riducono gli spazi di manovra visto che occorre ancora disinnescare 70 miliardi di aumenti di tasse previsti dalle vecchie clausole di salvaguardia. L’impresa è tutt’altro che facile.
Il primo passo della rivoluzione fiscale renziana, quello previsto per il 2016, è il più facile da compiere: vale all’incirca 5 miliardi di euro su un pacchetto da 35, che salgono a 50-60 in 5 anni conteggiando anche i tagli del 2014-2015 (i 10 miliardi del bonus da 80 euro ed i 5 destinati al taglio dell’Irap e del costo del lavoro).
Addio alla Tasi
Abolire le tasse sulla prima casa, non tanto l’Imu residua (che oggi pagano solo i 76 mila immobili di lusso accatastati A1, A8 e A9 e che vale appena 90 milioni di euro di gettito) quanto il suo succedaneo, ovvero la Tasi (la tassa comunale sui servizi indivisibili), costa all’incirca 3,5 miliardi. Ed in media farà risparmiare 200 euro a famiglia. Fare marcia indietro sull’ultimo aumento dell’Imu agricola, contestatissima da tutte le associazioni di categoria e per questo al centro di un lungo braccio di ferro nei mesi passati in Parlamento, invece, produce un «buco» di 260 milioni di euro su un gettito complessivo di 550. Mentre togliere l’Imu ai cosiddetti «imbullonati», ovvero quei macchinari che per funzionare devono essere fissati al suolo diventando agli occhi del Fisco beni immobili da tassare, al massimo può valere un miliardo di euro.
Non si sfora il 3%
Se il conto complessivo del primo anno non è eccessivo, più complicata è la traduzione pratica di un’operazione del genere (nel mirino ci sarebbero anche le 103 mila differenti modalità di esenzione dalla Tasi decise dai Comuni), come assicurare agli enti locali un gettito equivalente e, soprattutto, come compensare le minori entrate (evitando di introdurre altre tasse). Per ora, fanno testo le parole del premier che ieri ha confermato di voler tenere l’Italia sotto il tetto del 3% di deficit e di voler proseguire con la discesa del debito pubblico, anche se magari un poco più lentamente del previsto. L’ultimo Documento di economia e finanza prevedeva un deficit pari a zero nel 2018 e un debito ridotto al 123,4 del Pil.
Pensionati, bonus da 80 euro
Ora l’idea è quella di cercare di individuare nuovi risparmi di spesa e di sfruttare tutti i margini di flessibilità che verranno contrattati con Bruxelles. Operazione che, nelle attese di Palazzo Chigi, potrebbe assicurare «spazi molto ampi» di manovra. In realtà i problemi veri arriveranno più avanti. Nel 2017 quando il governo conta di aggredire di nuovo l’Irap e sforbiciare l’Ires per ridurre la pressione fiscale sulle imprese al conto si aggiungono altri 15 miliardi. E altri 15 dovranno essere reperiti nel 2018, quando il cronoprogramma renziano prevede di mettere mano alle aliquote Irpef, riducendole da 5 a 2, e di estendere il bonus da 80 euro alle pensioni minime.
Il rischio, a questo punto, è che il governo debba fare leva più sull’aumento del deficit (restando entro il 3% del Pil) che sui proventi della spending review. Perché già per il 2016 i due consiglieri di Palazzo Chigi incaricati di realizzare la revisione della spesa, Yoram Gutgeld e Roberto Perotti, devono individuare risparmi per 10 miliardi allo scopo di disinnescare una serie di clausole di salvaguardia che farebbero aumentare Iva e accise per circa 16 miliardi. Un conto che nel triennio è destinato a salire a circa 70 miliardi lasciando di fatto davvero poco spazio per altri interventi.
La scommessa
Renzi certamente scommette sul fatto che la crescita futura sarà più robusta del previsto (e quindi anche le entrate), ma soprattutto è convinto che si debba procedere sul sentiero delle riforme, che non solo dovrebbero contribuire a ridurre i costi, ma dovrebbero convincere Bruxelles che stiamo facendo sul serio e confermare nei fatti sia la nostra credibilità internazionale che, si spera, la sostenibilità dei nostri conti.
Twitter @paoloxbaroni
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GIORNALI DEL 20 LUGLIO
CORRIERE DELLA SERA
INTERVISTA A GUTGELD
ENRICO MARRO
ROMA Perché il governo punta su un massiccio taglio delle tasse? Di solito questo è un cavallo di battaglia della destra, non della sinistra.
«Questo è un modo superato di vedere il mondo e l’economia — risponde Yoram Gutgeld, consigliere economico del presidente del Consiglio e commissario per la spending review —. La sinistra ha come valore la promozione del lavoro e tutto quello che stiamo facendo è orientato in questo senso. Abbiamo cominciato l’anno scorso tagliando le tasse per i lavoratori, col bonus da 80 euro al mese, e per le imprese, con la riduzione dell’Irap e la decontribuzione sulle assunzioni. Se non è una politica di sinistra quella che incentiva le imprese a investire e creare posti di lavoro, non saprei cos’è una politica di sinistra».
Per il 2016, però, Matteo Renzi, annuncia un taglio delle tasse concentrato sulla prima casa.
«Un taglio che va visto in un percorso di riduzione delle tasse che attraversa tutta la legislatura per complessivi 50 miliardi strutturali, senza tener conto cioè della decontribuzione per il 2015, che vedremo se e come confermare nel 2016. In questi 50 miliardi ce ne sono solo 3,5 che l’anno prossimo saranno dedicati a eliminare la Tasi sulla prima casa».
Perché avete deciso di toglierla?
«Per due motivi. Primo perché sappiamo che l’inasprimento del prelievo sulla casa nel 2011-12, anche se allora fu necessario, è stato tra i responsabili della recessione. Tanto è vero che circa metà della perdita di occupazione è avvenuta nel settore delle costruzioni. Secondo perché l’aumento delle tasse sulla casa ha prodotto confusione, ansia, paura tra le famiglie. E noi vogliamo rimuovere questi fattori anche psicologici che ostacolano la crescita. Ma dal 2017 il taglio del prelievo fiscale tornerà a concentrarsi sulle imprese».
Con quale obiettivo?
«Di rendere conveniente per le imprese italiane ed estere investire nel nostro Paese. Lo annunciamo in anticipo, come fece nel 2014 la Spagna, in modo che le aziende potessero programmare per tempo i loro investimenti. Noi diciamo fin d’ora che nel 2017 ci sarà una riduzione del prelievo tra Ires e Irap di circa 15 miliardi l’anno».
Nel triennio 2016-18, al taglio delle tasse che dovrebbe valere 35 miliardi si dovrebbero aggiungere 70 miliardi, che il governo dovrà trovare per evitare che scattino le clausole di salvaguardia, cioè l’aumento dell’Iva e delle accise. Come farete?
«Agiremo su tre fronti. Il primo è quello dei tagli alla spesa pubblica: 10 miliardi nel 2016, che aumenteranno negli anni successivi. Il secondo è la crescita dell’economia, che potrà essere più alta del previsto grazie anche alla riduzione delle tasse. Il terzo è il margine che esiste tra il deficit in rapporto al prodotto interno lordo ora previsto e quello che potrà diventare per favorire la ripresa pur senza oltrepassare il 3%».
Nel 2016 il deficit è previsto all’1,8% del Pil e nel 2017 allo 0,8%. Di quanto potrà salire?
«Non lo so. Dipende dalla trattativa che faremo con la commissione europea. Osservo che per il 2016 lo spazio tra l’1,8% e il 3% vale circa 20 miliardi mentre nel 2017 si sale a 30 miliardi. Questo per dire che il margine di manovra è ampio».
Ma Bruxelles al massimo ci concederà qualche decimo di punto, anche perché l’Italia continua ad avere il debito pubblico più alto d’Europa dopo la Grecia. Inoltre, il vostro piano comporta uno slittamento del pareggio strutturale di bilancio, già rinviato al 2017. Sarà difficile trovare anche le risorse per rifinanziare la decontribuzione, concedere la flessibilità in uscita sulle pensioni, introdurre un sussidio contro la povertà e rinnovare i contratti pubblici.
«Vedremo. Uno dei criteri nuovi di valutazione ottenuti con il semestre italiano di presidenza della Ue è la flessibilità delle regole di bilancio in relazione alle riforme. E noi stiamo facendo riforme ampie e profonde. Quanto al debito, dopo 7 anni, comincerà a ridursi e questo, insieme al rispetto del deficit non oltre il 3%, sono i paletti fondamentali per giudicare i conti pubblici. In questo quadro un eventuale nuovo rinvio del pareggio strutturale di bilancio può starci».
Nel 2018, dice Renzi, altri 15 miliardi di riduzione delle tasse andranno a vantaggio di Irpef e pensionati. Ci saranno solo tre aliquote, rispetto alle 5 attuali? Si ridurrà la progressività del sistema che adesso tartassa i redditi medio-alti?
«Ci stiamo lavorando. La riduzione sarà equa, oltre che molto significativa».
Per il 2016 resta confermato l’obiettivo di tagliare la spesa pubblica di 10 miliardi o servirà di più?
«L’obiettivo è 10 miliardi. Abbiamo quindici cantieri di lavoro dove sono coinvolte centinaia di persone. Ne cito due. La centralizzazione degli acquisti: una trentina di stazioni appaltanti anziché migliaia. Un altro è la sanità, dove stiamo lavorando per realizzare il patto della salute concordato l’anno scorso».
REPUBBLICA
INTERVISTA A BRUNETTA
TOMMASO CIRIACO
“Imita Berlusconi per disperazione il Pd bloccherà le riduzioni di spesa”
TOMMASO CIRIACO
ROMA . Presidente Renato Brunetta, chiuda un attimo gli occhi. “Via la tassa sulla prima casa”, “un patto con gli italiani”. Chi le ricorda?
«Mi ricorda Berlusconi. Con la piccola differenza che Renzi non è Berlusconi, checché ne dica il mio amico Verdini. Renzi le tasse le ha aumentate».
Sentendolo però le è corso un brivido, lo ammetta.
«No. Mi sono detto: questo è disperato».
In realtà potrebbe rubarvi molti elettori. Paura?
«Se uno dice le stesse cose che da sempre dici tu, non sei contento? Poi però gli chiedi: chi ti segue nel Pd? Senno è come la barzelletta del soldato che grida al capitano: “Ho duecento prigionieriii” “Portali quiii”. “Non posso, non mi lasciano venireee”».
Lui ha promesso una rivoluzione
copernicana.
«Benissimo, rilancia. E io — come a poker — dico “vedo”. E prima di tutto chiedo: promette di tagliare le tasse, ma come pensa intanto di coprire le clausole di salvaguardia? Perché se non trova 51 miliardi nel triennio 2016-2018, dovrà portare l’Iva al 25,5%. Ha detto che l’Iva non aumenterà. Ecco, vorrei capire cosa intende fare».
Abbassare le tasse, a partire dalla casa. Non ci crede?
«Benissimo! Dice anche che abbasserà la pressione fiscale. Sa come si fa? Un esempio: per abbassare la pressione fiscale di un punto all’anno per tre anni, serve un taglio di spesa di ugua- le ammontare, poco meno di 50 miliardi. Come? Riducendo i pubblici dipendenti — non aumentandoli, come sulla scuola — e tagliando il debito pubblico. Con chi le fa queste cose? Con il Pd?».
Ha detto che lo farà assieme alle riforme.
«A dire il vero nella prima fase le riforme costano. Pensi al Jobs act, con il suo buco di contributi ».
Perché qualcuno dovrebbe invece dare credito a Berlusconi? Ha molto promesso e poco realizzato.
«Perché noi proponiamo di attaccare il debito — scendendo sotto il 100% in cinque anni — e di introdurre la flat tax: un’unica aliquota al 20%. E poi ci vuole, udite udite... la riduzione delle tasse in Germania per avere più crescita nell’eurozona. È così che si cambia paradigma. Ma il Pd è d’accordo con Renzi? Il suo non è un progetto, è uno specchietto per le allodole».
E se fosse il trampolino verso un partito della nazione?
«E con chi lo fa questo partito? Con una campagna acquisti al Senato? La verità è che la rivoluzione copernicana sul fisco, come sugli assetti istituzionali, la fai in due modi: con una maggioranza schiacciante — figlia delle elezioni — o con una grande coalizione alla tedesca. Mica con il patto del Nazareno, che poi traballa, finisce, resuscita. I giochi di prestigio non funzionano ».
Sta lanciando una proposta a Renzi?
«No, lo dico dall’inizio. La Merkel l’ha fatto con l’Spd».
REPUBBLICA
ALBERTO D’ARGENIO
E’ nel corso di un riservatissimo vertice domenicale che Matteo Renzi, Pier Carlo Padoan e i tecnici della Ragioneria dello Stato hanno messo a punto il piano che da qui a fine anno cercherà di portare l’Italia a tagliare le tasse senza incappare nelle sanzioni europee. E nelle pieghe del bilancio Palazzo Chigi cerca anche i soldi per mettere in piedi un piano anti povertà per sostenere le fasce di popolazione più martoriate dalla crisi. Il punto fermo sul quale Renzi ha impostato il discorso con Padoan è che nel 2016 l’Italia manterrà il deficit al 2.7%. Dunque al di sotto del 3% previsto da Maastricht ma senza rispettare alla lettera gli altri dettami delle regole europee, a partire dal Fiscal Compact, secondo i quali Roma dovrebbe far scendere ulteriormente il suo indebitamento avvicinandosi al pareggio di bilancio.
La prima urgenza a Palazzo Chigi è trovare le risorse per far quadrare i conti. I consiglieri che per mesi hanno preparato l’offensiva anti tasse con Renzi spiegano che per realizzare il piano servono 10 miliardi da recuperare con la spending review di Yoram Gutgeld. «Siamo a buon punto», garantivano ieri gli uomini del premier.
Solo nel vertice tra Renzi e Padoan sono stati messi sul piatto 3-4 miliardi di risparmi che nel 2016 saranno imposti ai ministeri e dunque già in grado di coprire la sforbiciata della Tasi sulla prima casa. E poi con l’approvazione del ddl Madia si porteranno le municipalizzate dalle attuali 8 mila a mille (salteranno enti come l’Agenzia dei giovani e l’Ente per il microcredito). Con il taglio di 10 miliardi - questa l’impostazione di Palazzo Chigi - il deficit 2016 scenderebbe momentaneamente all’ 1,8% come concordato con l’Europa, evitando così l’attivazione delle clausole di salvaguardia (aumento Iva e accise). A questo punto, per risalire al 2,7% necessario ai tagli fiscali, la partita si sposterà a Bruxelles. In autunno Renzi e Padoan busseranno alle porte della Commissione europea per chiedere che il prossimo anno venga estesa la “clausola per le riforme strutturali” già concessa all’Italia per un valore pari allo 0,4% del rapporto deficit- Pil. Si potrebbe ottenere un altro 0,1% . Servirebbero poi altri 0,4 punti da strappare, ragionano al governo, cambiando le regole sulle riforme attraverso una profonda azione politica «che coinvolgerebbe anche Angela Merkel» oppure sommando la clausola degli investimenti, altro ingrediente della flessibilità lanciata da Juncker a gennaio, a quella sulle riforme. Anche qui servirebbe un’azione politica per ottenere una interpretazione benevola delle regole che al momento non prevedono espressamente, ma nemmeno lo vietano, di poter cumulare le due clausole. Renzi e Padoan sono ottimisti sul via libera europeo anche perché l’anno prossimo per la prima volta da anni il debito pubblico inizierà a scendere .Certo il rischio è alto perché se Bruxelles – che non è ancora stata sondata e dunque al momento resta scettica – dovesse bocciare la flessibilità e il governo scegliesse di andare avanti con il taglio delle tasse ormai annunciato, l’Europa avrà gioco facile a commissariare il Paese aprendo una procedura di infrazione su deficit- debito oppure sugli squilibri macroeconomici, togliendo margini di manovra a Renzi.
Se il premier invece otterrà il via libera, userà senza problemi i 15 miliardi liberati da Bruxelles per il suo piano di rilancio. Circa 5 miliardi per smantellare la Tasi prima casa e Imu terreni agricoli e macchinari. Il resto andrà in investimenti e nella misura anti povertà chiamata ad aiutare i disoccupati di lungo corso, magari con famiglie a carico, che Renzi avrebbe lanciato già nel 2015 se non avesse dovuto affrontare la sentenza della Consulta sulle pensioni.
CLAUSOLE DI SALVAGUARDIA
http://www.capiredavverolacrisi.com/definizione-della-settimana-clausola-di-salvaguardia/
5 dicembre 2014
COS’E’ E QUANDO NASCE LA “CLAUSOLA DI SALVAGUARDIA”. Innanzitutto va precisato che non è stato il Governo Renzi a inventare la “clausola di salvaguardia”. Essa nasce nel 2002, nell’ambito della riforma della contabilità pubblica, e appare subito come un segnale di scarsa affidabilità dello Stato italiano nella gestione delle risorse pubbliche, cioè dei soldi messi a sua disposizione dai contribuenti. Le leggi di spesa, infatti, si dividono in due tipologie: possono contenere “spese autorizzate” oppure “spese previste”. Il primo è per esempio il caso della costruzione di una ferrovia: per una spesa di questo tipo, il legislatore indica una cifra fissa o un tetto di spesa. Invece il secondo caso, quello delle spese previste, riguarda per esempio un’indennità concessa da una legge a tutti coloro che si trovano in una determinata condizione (diciamo un bonus mensile da 80 euro a tutti coloro che hanno i capelli rossi); poiché il numero delle persone con i capelli rossi può cambiare nel tempo, facendo così variare l’onere della previsione legislativa, ed esistendo oramai in Italia una nota tendenza all’espansione della spesa, ecco che dal 2002 il legislatore deve predisporre una sorta di rete di sicurezza, chiamata appunto “clausola di salvaguardia”. In concreto, l’erogazione del bonus mensile di 80 euro per tutti i cittadini con i capelli rossi potrebbe non bloccarsi mai, a differenza delle spese per costruire una ferrovia, perché nessuno può impedire a milioni di italiani di tingersi i capelli per ricevere il bonus; se la spesa eccede le stime, ecco che c’è una clausola di salvaguardia pronta a scattare, cioè una norma che indica come il Governo riuscirà in maniera rapida ed automatica a trovare ulteriori risorse per le sue casse.
QUANTO CI COSTANO LE INCERTEZZE DELLA MANOVRA DI RENZI. Il Governo Renzi ha pubblicizzato fin da subito, su tutte le televisioni e tutti i giornali, le riduzioni di tasse contenute nella sua manovra finanziaria (Irap, bonus di 80 euro per i redditi medio-bassi, bonus bebè). Con il passare del tempo, però, si cominciano a raccogliere notizie anche di inasprimenti fiscali che scatteranno già nelle prossime settimane, sempre in virtù della stessa Legge di Stabilità, e soprattutto della presenza di minacciose clausole di salvaguardia.
Ai commi 3 e 4 dell’articolo 45 della Legge di Stabilità – che, ricordiamolo, deve ancora essere approvata dal Parlamento – c’è scritto infatti che, in mancanza di nuove e future misure per ridurre la spesa pubblica o aumentare il gettito fiscale, il Governo ha già pronte tasse aggiuntive dal 1° gennaio 2016. Nello specifico, aumenterà innanzitutto l’Iva (Imposta sul valore aggiunto). Dal 2016 l’Iva sui beni essenziali, come carne e uova, passerà dal 10% al 12%, poi al 13% nel 2018; l’aliquota generale, quella applicata a vestiti, elettrodomestici e tutto il resto, passerà dal 22% al 24% nel 2016, al 25% nel 2017 e addirittura al 25,5% nel 2018. Poco importa che alla fine di questo percorso diventeremo il Paese con la più alta aliquota Iva ordinaria, superati soltanto dal 27% dell’Ungheria. Tutti questi aumenti infatti sono già scritti nero su bianco nella Legge di stabilità; per evitarli, in parte o totalmente, il governo dovrà identificare razionalizzazioni della spesa pubblica che finora non ha identificato, o aumentare altre tasse. Lo stesso vale per l’aumento delle accise su benzina e gasolio, per un ammontare di 988 milioni di euro, che ci sarà imposto dal 2015 se l’Unione europea non autorizzerà l’Italia all’introduzione del cosiddetto “split payment”, cioè un metodo specifico di riscossione dell’imposta che grava sulla cessione di beni e prestazioni di servizi effettuata nei confronti di enti pubblici.
PERCHE’ CI SON BEN POCHE RAGIONI PER ESSERE FIDUCIOSI. Qualcuno potrebbe obiettare: perché fasciarsi la testa prima di essersela rotta? In fondo il Governo Renzi potrebbe pur sempre rinsavire e tagliare molti sprechi pubblici così da eliminare la necessità di far scattare le clausole di salvaguardia. E’ quello che l’esecutivo ha fatto rinviando la clausola di salvaguardia da 3 miliardi ereditata per il 2014 dal governo Letta; già l’esecutivo precedente, infatti, aveva previsto un aumento di imposte in caso di mancati risparmi per l’anno in corso. Il problema, innanzitutto, è che Renzi ha rinviato la clausola da 3 miliardi di Letta senza tagliare la spesa pubblica, ma semplicemente spostando il problema all’anno prossimo, grazie a una clausola di salvaguardia ancora più gravosa.
Non a caso, anche se le clausole di salvaguardia, come abbiamo visto, esistono dal 2002, il Governo Renzi per la prima volta ne fa un uso davvero smodato: gli aumenti di tassazione, se andassero tutti a regime dal 2016, vorrebbero dire 12,1 miliardi di tasse in più nel 2016, 18,5 l’anno dopo e 20,5 l’anno dopo ancora.
Inoltre il contribuente italiano si ricorderà che il balletto sulle imposte indirette, a partire dall’Iva che è la più importante, si è sempre concluso a suo sfavore da quando è iniziata la crisi. Nell’agosto 2011, con una manovra dettata dall’emergenza finanziaria (qualcuno ricorda il famoso “spread”?), il governo di centro-destra guidato da Berlusconi alzò l’aliquota generale dal 20% al 21%. Annunciando pure che dall’anno dopo la stessa aliquota sarebbe passata al 22%. Il governo tecnocratico di Monti riuscì ad evitare l’aumento dell’imposta tagliando alcune spese, ma il governo di coalizione guidato da Letta, nell’ottobre 2013, lasciò che l’aliquota aumentasse dal 21% al 22%. Insomma, la tendenza è tutt’altro che rassicurante.
Infine, gli effetti di questo meccanismo sono negativi fin d’ora. Come ha spiegato la Confindustria commentando in Parlamento la Legge di stabilità del Governo, “è vero che le clausole di salvaguardia potranno essere cambiate in base alle condizioni economiche e politiche, italiane ed europee, che esisteranno tra un anno. Ma intanto aumentano l’incertezza sulle prospettive future e frenano così consumi e investimenti”. Come dire che noi contribuenti, aspettandoci il peggio da uno Stato che ci ha dimostrato quanto sa essere rapace con i nostri soldi, stiamo già correndo ai rifugi, deprimendo ancora di più l’economia reale.