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 2015  luglio 19 Domenica calendario

Toscanini «oggettivo»– Li nominiamo, ne esaminiamo in fretta la collocazione storica e culturale

Toscanini «oggettivo»– Li nominiamo, ne esaminiamo in fretta la collocazione storica e culturale. L’apparenza ci direbbe che una distanza i colmabile separa i due uomini. Da un lato, il direttore d’orchestra divenuto (soprattutto e infine quasi soltanto per gli americani) simbolo e vivente antonomasia di “musicista”: Arturo Toscanini, figlio di un sarto che aveva vissuto un forte esperienza risorgimentale e garibaldina, nacque a Parma lunedì 25 marzo 1867, e morì nella sua villa di Riverdale, sobborgo di New York, mercoledì 16 gennaio 1957. Dall’altro, il biografo e musicografo, figlio di un ebreo fabbricante di pelletterie, che riuscì a godere più prestigio presso gli entusiastici amatori di musica che non di fama diffusa presso il pubblico: Paul Stefan (“nom de plume” di Paul Stefan Grünfeld), nacque a Brnó in Moravia martedì 25 novembre 1879, e morì a New York venerdì 12 novembre 1943. Che cosa avrebbero potuto avere in comune, i due? Dire «Paul Stefan biografo» richiamerebbe alla memoria, in prima sede, il saggio biografico sull’eredità artistica di Gustav Mahler, edito a Monaco di Baviera, ancora vivente il compositore boemo, nel 1908-1910. Dire «biografi di Arturo Toscanini» fa pensare ad autori italiani, come Gustavo Marchesi o Gasparo Nello Vetro, oppure a musicografi americani come Joseph Horowitz. Agì, invece, un elemento mediatore che avvicinò l’interesse del biografo moravo, e fu, probabilmente, l’attenzione che Stefan, grazie anche alla collaborazione con l’appassionato verdiano Franz Werfel riservò a Giuseppe Verdi, a sua volta amato da due uomini bizzarramente nemici, Mahler e Toscanini. Mediazioni su mediazioni. Il saggio di Stefan su Toscanini fu edito a Vienna nel 1935. Una traduzione italiana apparve presso Bocca a Milano nel 1937. Erano anni felici per Toscanini. Non ci si fraintenda: non parliamo di vita privata. Alludiamo alla fortuna critica, e a un diffuso giudizio che sovente sfiorava un’agiografia d’ispirazione para-filosofica. Si usava immettere la rispettabile figura del direttore parmense in un circuito d’idee di marca austro-tedesca che non gli era congeniale. Com’è noto, Toscanini, oltre a proporsi come interprete autentico e “definitivo” di Verdi, amava alcuni sommi compositori di area nordica, germanica, francese, slava: per esempio, Beethoven in primis, Franck, il Cherubini “parigino”, Smetana, Dvo?ák .Ma è difficile ammettere che egli penetrasse davvero la simbologia cara ai romantici tedeschi, o la sinistra magia che i sinfonisti slavi trascinano con sé come la coda di una cometa. È nota la micidiale benevolenza con cui Adorno, negli anni 1955-1965, trattò Toscanini in un suo saggio mellifluo in principio e poi sempre più demolitorio, come sfogliando un carciofo: ma sì, certo, l’impeccabile Toscanini credeva veramente che nella Moldava di Smetana rivivesse il suono scrosciante dell’acqua. Perciò ha un effetto curioso leggere l’introduzione di Stefan Zweig, sottilissimo intelletto critico, al saggio di Stefan. «Ogni tentativo di sottrarre la figura di Arturo Toscanini all’elemento cangiante dell’interpretazione musicale per fissarla nella più durevole materia della parola (già questa è una prospettiva errata – n.d.r.) deve per forza di cose andare oltre la semplice biografia di un direttore d’orchestra … In Toscanini vediamo, infatti, uno degli uomini più schietti dei nostri tempi servire la verità immanente dell’opera d’arte». E poco più oltre, Zweig, commentando gli “attimi fugaci di rapimento” talvolta concessi ai direttori d’orchestra particolarmente passionali, si lascia sfuggire che, di Toscanini, un «fratello apollineo nel regno della musica è individuabile, ed è Bruno Walter». A leggere tale giudizio dell’intelligentissimo Zweig, c’è da irrigidirsi, soprattutto per l’accostamento dei due direttori. Ma le curiosità di natura agiografica sovrabbonda o quando nelle pagine del libro prende la parola Paul Stefan. Da Wagner, scrive il biografo, derivano due tipi di direttori, di ieri e di oggi: quello “oggettivo” (Hans Richter, Hermann Levi) e quello “soggettivo” (Hans von Bülow). Ma è un’applicazione schematica, e sarebbe approssimativo (ricordiamolo, Stefan vive gli anni Trenta come il suo tempo presente) considerare Furtwängler come “soggettivo”, contro un Toscanini “oggettivo”. Ma la realtà, aggiunge Stefan, è diversa, e sarebbe bene «non parlare di Toscanini come di un “interprete”, bensì come di un sostituto del compositore, il suo secondo e spesso il suo migliore io». L’immagine, palese citazione di «mein bess’res Ich”» dal testo rückertiano del Lied di Robert Schumann Widmung op. 25 n. 1, sarebbe molto bella, se la fattispecie fosse quella che oggi si rivela: un direttore di talento e di forti virtù nell’arte, quale Toscanini certamente fu, di assai minore virtù in certi rapporti umani che non si nominano, e non esattamente il più adatto a ispirare felicità agli orchestrali da lui concertati, esercitati e diretti. Detto ciò, il libro è una lettura incatenante, e non è strano, poiché Paul Stefan è stato uno fra i più icastici non musicisti che abbia tentato di penetrare nel mistero della musica “in farsi”. Gli perdoniamo la conclusione, ancora una volta, se non agiografica, quanto meno iperbolica: «L’intera vita di Arturo Toscanini è stata una lunga serie di manifestazioni dell’inconsueto, del mistero: per noi, che crediamo di sentire il dominio del demoniaco e di riconoscerlo in ciò che conferisce grandezza all’esperienza di tutti i giorni, non c’è niente di misterioso in Toscanini». Egli possiede «… il magico dono di ridare a tutti, anche ai comuni mortali (!!! – n.d.r.), il loro linguaggio originario, il linguaggio di quella musica che viene dall’armonia delle sfere. Toscanini istilla la fede nella transitorietà di ogni disordine presente e nella bontà del mistero che ci circonda». Infatti: questo è il problema!