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 2015  luglio 19 Domenica calendario

PERCHE’ LA LEZIONE RISCHIA DI NON SERVIRE

Forse, per capire che cosa il futuro può riservare all’Europa, dovremmo guardare di meno alle opinioni pubbliche greca e tedesca, e molto di più a quelle degli altri PIIGS, ossia Spagna, Portogallo, Italia e Irlanda.
Non è affatto chiaro, infatti, quale sia la lezione che i cittadini di questi paesi possono aver appreso dalla crisi greca. Mentre è invece chiarissimo, anche se poco se ne parla, che le possibili reazioni delle opinioni pubbliche dei paesi periferici sono una variabile chiave, se non “la” variabile chiave, di qualsiasi soluzione del rebus europeo. Vediamo perché.
L’epilogo della crisi greca è fatto di tre ingredienti, due chiaramente visibili e uno meno evidente. Il primo è l’arrivo di una montagna di soldi: 86 miliardi, quasi metà del Pil greco (è come se all’Italia venissero prestati 700 miliardi). Il secondo ingrediente è il commissariamento di fatto della Grecia da parte dell’odiata Troika.
Il terzo ingrediente, quello meno evidente, è l’inversione della congiuntura economica prodotto dalla gestione della crisi: alla fine del 2014 il Pil greco si avviava a crescere del 2%, dopo la follia collettiva di 6 mesi di trattative inconcludenti si contrarrà nella medesima misura (è come se in Italia il Pil avesse perso 50-60 miliardi di euro). Il combinato disposto Tsipras-Troika è riuscito nel capolavoro di commutare una ripresa probabile in una recessione certa.
Continua pagina 18
Continua da pagina 1 Di fronte a questi tre segnali le opinioni pubbliche degli altri Piigs possono reagire secondo due modalità opposte. La prima è di “scampato pericolo”: abbiamo fatto bene ad accettare i sacrifici chiesti dall’Europa, noi ora siamo in ripresa, non ci affideremo mai a demagoghi con Tsipras. La seconda è di “invidia vittimistica”: la Grecia non pagherà mai i suoi debiti, anche noi vogliamo uno sconto sostanzioso sui nostri.
Quale reazione prevarrà? Quali saranno le lezioni che le opinioni pubbliche degli altri Piigs trarranno dalla crisi greca?
Nessuno può saperlo, perché la pessima trattativa Tsipras-Troika è come una macchia del test Rorschach: ognuno ci vede quel che è portato a vedervi. Il punto, però, è che questa incognita è il non detto che blocca ogni soluzione del problema greco. Tutti pensano che il debito greco sia insostenibile, ma non tutti se la sentono di ammetterlo pubblicamente. E la ragione è molto semplice: ci sono due scommesse opposte sulle reazioni della opinioni pubbliche dei paesi periferici. Il Fondo monetario, la Banca centrale europea, gli Stati Uniti temono il ripresentarsi (per la quarta volta!) della crisi greca, e scommettono su una prevalenza di una reazione da “scampato pericolo”. La Germania, i “Paesi del Nord”, la Commissione Europea, pur capendo perfettamente che i soldi prestati alla Grecia non torneranno mai indietro, fingono di credere il contrario, perché temono che alleggerire il debito della Grecia scateni una reazione da “invidia vittimistica”, con la richiesta di un taglio generalizzato dei debiti pubblici europei. È questo ragionevole timore, e non certo la cattiveria o l’egoismo nazionale, che sta dietro l’intransigenza dei falchi alla Schäuble.
Chi ha ragione?
A me pare che abbiano torto gli uni e gli altri. Non tanto e non solo perché le reazioni delle opinioni pubbliche dei paesi periferici sono sconosciute (ma ancora per poco: fra qualche mese si voterà in Spagna e Portogallo) ma perché il caso greco è solo la punta di un iceberg, che coinvolge i paesi europei nella loro totalità. Il nucleo dell’iceberg è l’incapacità dei Paesi europei di affrontare il problema primario, da cui tutti gli altri discendono. E il problema primario è che, una volta che si è rinunciato alla flessibilità del cambio (decisione presa quasi vent’anni fa), o si trova il modo di far convergere, o non troppo divergere, le economie dei paesi che aderiscono all’Eurozona, o si deve mettere in piedi un meccanismo diverso dal cambio per gestire gli squilibri macroeconomici, a partire dai debiti/crediti privati e pubblici. L’Europa ha creduto, o finto di credere, che tale meccanismo potesse essere quello sperimentato in questi anni, fatto di rendimenti differenziati sui titoli di Stato e di regole ragionieristiche sui deficit e i debiti pubblici. Non ha funzionato, perché i mercati si accorgono delle differenze nei fondamentali di un Paese solo quando è troppo tardi, e perché le regole sono state sempre applicate in modo strabico, ossia solo contro certi Paesi e solo in determinati periodi. Ecco perché ci vuole un meccanismo nuovo.
Di meccanismi che possano funzionare, per quanto mi sforzi, ne riesco a immaginare solo due. Il primo è di togliere sovranità agli Stati nazionali, conferendo il comando della politica economica a un vero governo europeo: un meccanismo che piace agli europeisti doc, ma è inviso a quasi tutte le classi dirigenti del Vecchio Continente. Il secondo meccanismo è di riscrivere i trattati in modo che dall’euro si possa anche uscire, ma in modo ordinato. Lo so che questa eventualità suona sacrilega ai vati della moneta unica, ma si dovrebbe riflettere anche sulle conseguenze della sua assenza. Se una cosa la crisi greca ha insegnato a tutti, è che le autorità europee non vogliono lasciar uscire nemmeno uno dei suoi 19 inquilini dal condominio dell’Eurozona, e per questo obiettivo sono disposte a compiere “whatever it takes”. Il punto è che, se affermata esplicitamente, una posizione del genere sarebbe un incitamento all’azzardo morale, perché ogni paese si sentirebbe in grado di usare la minaccia di uscire dall’euro per ottenere quel che vuole (flessibilità sul deficit, fondi europei, taglio del debito pubblico). Era questa, del resto, l’idea-azzardo di Varoufakis, che aveva intuito che molto difficilmente le autorità europee avrebbero lasciato andare in bancarotta la Grecia. Ed è arduo dire se, per la Grecia e per tutti noi, sarebbe stata più catastrofica un’uscita provocata da una sfida all’ultimo sangue fra Schäuble e Varoufakis, o una permanenza sofferta, che si limita a spostare nel tempo il problema del debito, come quella che si è realizzata di fatto.
Ecco perché il rebus europeo potrebbe non avere alcuna soluzione. La strada di una vera politica economica europea richiederebbe delle classi dirigenti illuminate, che chiaramente non ci sono né nei paesi sregolati né in quelli assennati. Se vi fossero, i Paesi mediterranei non pretenderebbero gli eurobond senza offrire in cambio corpose rinunce di sovranità, e i Paesi del Nord li promuoverebbero anziché osteggiarli nella convinzione che i primi desiderano solo la botte piena (eurobond) e la moglie ubriaca (sovranità nazionale).
La strada di un euro reversibile, d’altro canto, si scontra contro il feticismo della moneta unica e, va detto, anche con l’obiettiva difficoltà di inventare un meccanismo di uscita non catastrofico (uscita di un Paese debole? Uscita del Paese più forte? Uscita temporanea? Un euro del Sud e un euro del Nord?).
Così la lezione greca rischia di passare, senza aver insegnato nulla a nessuno.

Luca Ricolfi