Carlo Antonio Biscotto, il Fatto Quotidiano 19/7/2015, 19 luglio 2015
ADIOS PORTO RICO
Mentre in Europa andava in scena la tragedia greca e il braccio di ferro con il governo Tsipras, in Centro-America la storia con la sua beffarda ironia provvedeva a stringere il nodo scorsoio del debito intorno al fragile collo di un Paese che la vocazione al benessere la porta nella ragione sociale: Porto Rico.
Se la Grecia ha dovuto accettare un accordo durissimo sotto la pressione dell’intransigenza tedesca, per Porto Rico la situazione è resa ancor più complessa dal suo confuso status di territorio degli Stati Uniti che però non fa parte della nazione a stelle e strisce. «Se facesse parte degli Stati Uniti non ci sarebbero problemi – commenta Jeffrey Farrow, già consulente per Porto Rico del presidente Clinton – e non ci sarebbero problemi nemmeno se fosse una nazione completamente autonoma, in quanto non dovrebbe preoccuparsi delle norme degli Stati Uniti in materia di debito pubblico».
Ma Porto Rico non è né uno stato degli Usa né una nazione. È una sorta di protettorato americano con il diritto di eleggere i suoi governanti. Di fatto i 3.600.000 abitanti dell’isola vivono in una colonia completamente sottoposta al controllo del Congresso degli Stati Uniti. Qualche giorno fa il governatore di Porto Rico, Alejandro García Padilla ha dichiarato: «Il debito non è rimborsabile».
Pedro Pierluisi, rappresentante di Porto Rico al Congresso Usa senza diritto di voto, ha sottolineato in un intervento sul New York Times che Porto Rico non è uno Stato sovrano e che appartiene agli Stati Uniti. Secondo Pierluisi, gli elevati livelli di disoccupazione e povertà e il modesto reddito delle famiglie sono in parte da attribuire alle malaugurate scelte dei politici locali, ma il fattore principale della drammatica situazione economica va individuato nelle iniquità prodotte dalle leggi degli Stati Uniti. Pur essendo cittadini americani per diritto di nascita, i portoricani non hanno diritto di voto; pagano le imposte per Medicare, ma non usufruiscono degli stessi diritti dei cittadini americani e inoltre non beneficiano del credito di imposta di cui godono molti americani. L’eccessivo ricorso al credito è, in larga misura, la conseguenza di questa realtà profondamente iniqua.
Lo scorso febbraio Pierluisi ha presentato al Congresso un disegno di legge per estendere ai comuni e alle aziende a partecipazione statale di Porto Rico la possibilità di ottenere l’amministrazione controllata garantita dallo Stato centrale, come avvenuto di recente a Detroit. Il disegno di legge langue in una sotto-commissione della Camera dei Rappresentanti.
La crisi si sta risolvendo in un aspro scontro tra i creditori – tra cui hedge funds, grandi banche americane e piccoli investitori – e i dipendenti del pubblico impiego. Ovviamente ognuno fa il possibile per far pendere la bilancia dalla sua parte e il 14 luglio un rapporto del Centro de Periodismo ha reso noto che gli hedge funds, alcuni dei quali hanno svolto un ruolo nella crisi greca e, ancor prima, in quella argentina, stanno premendo sulle autorità portoricane per ridurre le loro perdite.
Il tema del debito di Porto Rico ha fatto capolino anche nella campagna presidenziale. Hillary Clinton, Bernie Sanders – per i Democratici – e Jeb Bush – per i Repubblicani – hanno preso posizione a favore di un intervento che consenta a Porto Rico di uscire dalla crisi.
«Non penso ad un bailout (un salvataggio con interventi speciali per un Paese che si trovi in uno stato di insolvenza, ndr) – ha detto Hillary Clinton – penso piuttosto ad una serie di aiuti mirati». E Sanders ha rincarato la dose: «Bisogna riconoscere che la situazione di Porto Rico ha a che fare con le politiche di austerity e con l’avidità delle istituzioni finanziarie».
Jeb Bush, unico tra i Repubblicani ad occuparsi della crisi economica del “cugino povero” degli Usa, ha dichiarato che Porto Rico merita il medesimo trattamento di cui godono gli stati dell’Unione.
McClintock, segretario di Stato di Porto Rico dal 2009 al 2013, ritiene che ormai l’isola sia agli sgoccioli e che il Congresso debba fare qualcosa e prendere provvedimenti in tempi brevi. Potrebbe ad esempio rinviare le scadenze delle somme dovute al governo federale e riformare le norme che disciplinano l’assistenza sanitaria. «Questo non sarebbe un bailout, ma semplicemente un atto moralmente dovuto», ha concluso McClintock.