Giovanni Orsina, La Stampa 19/7/2015, 19 luglio 2015
UNA LEZIONE DI DEMOCRAZIA PER GLI EUROPEI
La vicenda greca ci ha impartito una lezione straordinaria sull’Europa e la democrazia. Una lezione che faremmo bene a tenere a mente nei prossimi mesi e anni.
Fa un po’ sorridere chi scopre oggi, come fosse una gran novità, che l’integrazione europea e la democrazia nazionale non sono poi troppo compatibili.
Fa sorridere perché, fra i suoi tanti scopi, l’integrazione europea ha avuto fin dall’inizio anche quello di limitare la sovranità democratica: ossia di impedire che i popoli europei, come negli Anni Trenta, prima facessero democraticamente a pezzi la democrazia, e poi cominciassero a farsi a pezzi l’un l’altro. E fa sorridere ancora di più in Italia, visto che le nostre classi politiche (democraticamente elette) hanno cercato con ansia il «vincolo europeo» proprio perché costringeva il Paese a quella disciplina economica e finanziaria alla quale loro, da sole, non riuscivano ad assoggettarlo.
Dopo la seconda guerra mondiale, del resto, questa strategia di «limitazione protettiva» della democrazia non è stata perseguita soltanto con l’integrazione del Vecchio Continente, ma anche attraverso le istituzioni internazionali e con strumenti «domestici» come le corti costituzionali. La strategia ha funzionato fin troppo bene: nel corso dei decenni questi meccanismi sono cresciuti e si sono sviluppati, e la reale capacità del cittadino europeo di decidere del proprio destino si è venuta sempre più riducendo. Provate ad esempio a confrontare un elettore italiano del 1946 e uno del 2013. Il primo aveva davanti un Paese ancora tutto «in potenza», e poteva contribuire a decidere se esso dovesse essere monarchico o repubblicano, scegliere l’Occidente o (con tutte le difficoltà del caso) l’Oriente, partecipare o non partecipare alla Nato e alle comunità europee, liberalizzare o non liberalizzare gli scambi commerciali. Il secondo tutte queste scelte le ha trovate già fatte – e ciascuna scelta cristallizzata in vincoli sostanzialmente irreversibili. Anno dopo anno, ha preso così forma una sorta di «imbuto della democrazia», largo all’inizio e poi via via sempre più stretto, in fondo al quale gli europei hanno democraticamente scelto di incastrarsi.
Ha avuto effetti negativi, questo «imbuto»? Per tanti versi, assolutamente no: non è affatto impossibile sostenere che esso abbia svolto un ruolo cruciale nel garantirci settant’anni di pace, libertà e benessere. Era impensabile, però, che esso non suscitasse una reazione. Molte reazioni, anzi, differenti l’una dall’altra, di destra e di sinistra: Syriza, la Lega, Podemos, il Movimento 5 stelle, il Front National – per non citare che le più note agli italiani. Tutte sostenute da elettori convinti di aver perduto il controllo del proprio futuro, e desiderosi di recuperarlo. E tanto più spaventati perché persuasi (non ingiustificatamente) che né i tecnici né i politici siano più in grado di guidare i processi europei e internazionali, fattisi sempre più complessi e imprevedibili.
Il tentativo disperato che la Grecia ha compiuto per divincolarsi dal fondo dell’«imbuto» appare dunque più che comprensibile. Comprensibile, ma non per questo meno catastrofico: il fallimento negoziale di Alexis Tsipras, per il quale purtroppo il suo Paese pagherà un prezzo assai salato, ha mostrato che quell’«imbuto» è terribilmente concreto, e le sue pareti quanto mai rigide. Questa realtà Tsipras – per descrivere la cui formazione politica s’è parlato non a caso di «cultura studentesca», ossia movimentista, utopistica, irresponsabile – ha a lungo cercato di non vederla. E quella s’è presa la sua rivincita, ponendolo di fronte a un aut aut brutale: o la rivoluzione la fai davvero, non per gioco occupando un liceo ma sulla pelle del tuo popolo, ed esci dall’euro; oppure rispetti le regole del sistema, senza bluff né scorciatoie. Dalla sera alla mattina, così, lo studente è dovuto diventare adulto.
Chissà se gli elettori europei e italiani, così frustrati e spaventati, e così disabituati a fare i conti col principio di realtà, hanno colto il senso della lezione. Che non avrebbe potuto essere più chiaro: chi non ha il coraggio di uscire del tutto dall’«imbuto» deve accettare spazi di movimento assai ridotti e sottostare a vincoli assai stretti. Non c’è più una «terza via». Da domani, i partiti che proporranno agli elettori «restiamo nell’euro, ma in un euro diverso» dovranno rispondere alla domanda: «già, e la Grecia allora?».
Un’ultima notazione. È evidente che, se queste sono le premesse, l’unica soluzione possibile è quella di democratizzare l’«imbuto» – fuor di metafora, l’Europa. Chi oggi proponga questa soluzione, però, rischia di passare per utopista a tal punto che persino lo Tsipras prima maniera sembrerà un cinico realista.