Marino Niola, la Repubblica 19/7/2015, 19 luglio 2015
L’arte di avere le mani in pasta– Pizza fritta e calzone, panzerotto e sfincione, pala e focaccia, tegamino e scaccia
L’arte di avere le mani in pasta– Pizza fritta e calzone, panzerotto e sfincione, pala e focaccia, tegamino e scaccia. Fanno rima, proprio come gli italiani. Assonanti e nello stesso tempo differenti. Soprattutto quando decidono di mettere le mani in pasta. Che apparentemente è la stessa ovunque, acqua, farina, sale e qualche volta lievito. Ma in realtà a fare la differenza tra una regione e l’altra, tra un paese e l’altro, qualche volta addirittura tra una famiglia e l’altra è proprio la mano. Il gesto di amalgamare l’impasto, schiacciarlo, accarezzarlo, pizzicarlo, vezzeggiarlo, farlo crescere come una creatura è la cifra invisibile, ma anche inimitabile, che rende certi cibi unici e irriproducibili. Anassagora diceva che l’uomo pensa perché ha le mani. Arti che articolano il mondo. Ecco perché anche in un semplice panzerotto resta impressa l’impronta digitale della persona che lo ha fatto. Mettendoci mani testa e cuore. E per la stessa ragione la semplicità della pizza e delle sue sorelle è solo apparente. Essenziali, non elementari. Sono il basic istinct del sapore. In realtà queste non-pizze, sono degli straordinari contenitori edibili. Degne discendenti delle mense di cui parla Virgilio nell’Eneide. Schiacciate cotte al forno che servivano all’occorrenza anche da piatti. Un po’ come la pita greca e mediorientale, o come il nan indiano. La loro fortuna deriva anche dalla loro duttilità, che ne fa degli hardware gastronomici compatibili con qualsiasi software. Ci si può mettere sopra di tutto perché la forza sta nell’intelligenza delle mani. È il caso della pizza fritta partenopea, un aereo nembo di pasta dorata, ripieno di una bianca nuvoletta di ricotta con un cirro di pepe. Che fa pensare al gesto consumato di Sophia Loren che ne “L’oro di Napoli” lancia imperiosa dischi nell’olio bollente, come saette d’amore. E più a Sud, dove la Sicilia guarda verso Oriente, si entra nel regno delle madri catanesi e ragusane, che impastano scacciate e scacce, sottili come pergamene e ripiene come cornucopie. E se l’Italia è la terra promessa di questi street food, la focaccia ligure è la sua manna. Caduta dal cielo per essere modellata dai fornai della Superba. I genovesi la mangiano anche la mattina, al posto del croissant, col caffè amaro e bollente. Un’apoteosi! In realtà nella regione dove si consuma pan per focaccia, le varianti sono moltissime. Ma poche raggiungono le vette della focaccia di Recco. Due sfoglie sottili come ostie, rigorosamente senza lievito, farcite di latticino freschissimo. Una variante moderna dell’antica schiacciata di semola con la giuncata. Pare che i Crociati la mangiassero prima di imbarcarsi per Gerusalemme. Perché gli restasse nell’anima quel gusto dolceamaro. Inconfondibile. Come il ricordo di una creuza de ma’.