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 2015  luglio 19 Domenica calendario

VIVA L’HI TECH ABBASSO LA SILICON

Se sente profumo di melassa, evgeny morozov mette mano alla pistola. Dopo esserne stato ospite, ha sbertucciato le conferenze Ted («Libri diventano talk, talk diventano libri, fino a quando ogni traccia di profondità o sfumatura spariscono in un vuoto virtuale»). Di Steve Jobs, morto da poco, diede una memorabile definizione: «Vegetariano sanguinario, buddista combattivo». Dei «critici della tecnologia», una comunità di cui sino a qualche anno fa si è sentito parte, oggi scrive che sono stati sconfitti dal pensiero unico che vede nella Silicon Valley il nuovo Eden («Al meglio sono riusciti a farne una carriera, al peggio sono utili idioti»). Dopo essere stato visiting scholar a Stanford questo trentunenne nato in Bielorussia, cresciuto in Bulgaria e attualmente fidanzato con un’italiana, sta facendo un Phd in storia della scienza a Harvard. Tra i suoi bersagli recenti il “soluzionismo”, ovvero l’idea puerile che a ogni problema corrisponda una app in grado di per risolverlo. Piaccia o meno, è una delle voci meno allineate nel dibattito su internet imbarazzantemente affollato da cheerleader più che da analisti. Per questo l’abbiamo invitato alla Repubblica delle Idee a dialogare su dubbi e prospettive.
La chiamano “tecnoscettico”: è una definizione nella quale si riconosce?
«Non direi. Sono un grande entusiasta delle tecnologie, ma oggi ne esiste un solo grande fornitore, la Silicon Valley, ovvero un gruppo di aziende private americane alle quali si delegano sempre più servizi pubblici. È questo che critico, non certo le tecnologie in sé. Stranamente, mentre ci piace parlar male di Big Pharma, Big Oil, Big Food e tutti gli altri conglomerati industriali, quasi nessuno lo fa di Silicon Valley, ovvero il detentore collettivo dei Big Data».
Sono stati bravi a vendersi come un capitalismo diverso, dal volto umano. Non a caso lo slogan di Google è “Don’t Be Evil”, non essere malvagio. Potevamo capirlo prima che forse era solo marketing?
«Avvisaglie ce ne sono state. Tuttavia, man mano che il welfare veniva smantellato, si è cominciato a cercare altrove risorse. Dove? Dove c’erano i soldi. Ovvero da aziende private come Apple che costruiva smartphone in grado di monitorare (ed eventualmente incoraggiare) l’attività fisica di ognuno di noi. Per un europeo questo presunto empowerment del cittadino deve sembrare terrificante. Così come la prospettiva che Uber e le auto senza pilota di Google diventino i trasporti del futuro. La tecnofobia non c’entra niente, c’è solo da guardare alle cose in modo critico».
Ripercorriamo i suoi libri. In “L’ingenuità della rete” (Codice) criticava l’eccesso di trionfalismo sulla portata politica del web. Quanto è importante nel favorire rivoluzioni?
«Dalle Primavere arabe a Podemos un’infrastruttura tecnologica è un buon punto di inizio. Anche Facebook e altri social network privati possono essere utili, ma sarebbe meglio avere comunicazioni sicure, criptate, senza interessi commerciali. Anche perché dopo un paio d’ore su Facebook o Twitter, con tutti i loro link, sei sopraffatto, distratto, insomma non nel mood giusto per cambiare il mondo».
In “Internet non salverà il mondo” (Mondadori) invece si occupa parecchio di Google. Nessuno ci conosce meglio di chi possiede le parole che cerchi, legge le tue email, i tuoi documenti e così via. Che impressione le fa?
«Google non è più nel mercato delle ricerche, quanto in quello delle predizioni. È il soggetto che, grazie alla spaventosa quantità di dati che analizza, è in grado di prevedere al meglio dove andrà il mondo. E a lui che si rivolge un’assicurazione o una banca per capire quante probabilità di incendio o fallimento ha un loro cliente. In qualunque business, ormai, chi ha i dati vince».
Eppure, se azzardi queste obiezioni, la risposta standard è che stanno ottimizzando il mondo precedente. La loro parola d’ordine è “disrupt”, “disgregare”. Come le suona?
«È un termine che ha molta presa in America perché lì è già tutto privatizzato. Start up private smantellano altre imprese private. Da voi è diverso, si tratterebbe di un cambio di paradigma».
Mi vengono in mente i Moocs, i corsi universitari gratuiti su web. Quello è senz’altro un altro paradigma. Migliore o peggiore?
«L’unico motivo per andare all’università, almeno negli Stati Uniti, è trovare un lavoro, non gustarsi Dante. Quelle competenze forse si possono acquisire anche premendo tasti davanti a un computer. Per questo loro si scandalizzano meno».
Ma gli utenti ci guadagnano o ci perdono?
«Se pensiamo a Uber, altro campione dell’outsourcing di servizi quasi pubblici, direi che il passeggero forse può anche risparmiare qualcosa, ma non è affatto protetto. Se nevica, per dire, Uber può decidere di fargli pagare cinque volte tanto. Oppure può escludere i passeggeri cui puzza il fiato o quelli che mangiano tramezzini puzzolenti. Airbnb potrebbe fare la stessa cosa. A quel punto uno, che prima era solo cliente, deve preoccuparsi della propria reputazione. C’è di più: se il mio vicino mangia male o non fa moto, perché dovrebbe pagare la stessa polizza che pago io? Se questo modello individualistico ha la meglio, il modello sociale si disgregherà. Nel welfare tradizionale potevamo permetterci il lusso dell’anonimato, una difesa che non abbiamo ancora imparato ad apprezzare abbastanza».
Sempre sulla sharing economy, in Italia hanno dichiarato illegale Uber Pop, dove i privati possono trasformarsi in autisti. I tassisti non hanno spesso fatto del loro meglio per risultare simpatici, ma è anche vero che hanno visto svanire da un giorno all’altro l’investimento per la licenza. Chi ha ragione?
«Il boom recente della sharing economy ha a che fare con la crisi. Per compensare redditi stagnanti o in calo molte persone hanno pensato di arrotondare, affittando una stanza o l’auto inutilizzata. Il problema vero è che la sinistra non ha saputo fornire un’alternativa a questo espediente. Lamentarsi non serve, perché se continua così Uber se lo mangia il modello sociale! Un po’ di Uber, inteso come maggiore competitività, poteva fare bene. Purtroppo non vedo autorità in grado di fissare dei paletti».
Da Coursera, dove due prof star fanno lezione a centomila studenti, a Facebook che offre une connessione sponsorizzata nel terzo mondo. Sarà il mercato a offrire tutti i servizi?
«Dipende se glielo lasceremo fare. Non deve sorprendere che Silicon Valley applichi a tutto, compresa l’istruzione universitaria, criteri di ottimizzazione tayloristica. Quando invece Facebook lancia internet.org per far navigare i poveri africani o brasiliani attraverso una partnership con operatori locali, dimentica di dire che sarà una navigazione gratis giusto su Facebook e pochi altri siti. Il resto sarà a pagamento. L’ennesima sostituzione, interessata, di servizi che avrebbero dovuto essere pubblici».
Nel frattempo Zuckerberg diventa sempre più ricco, anche più dei vecchi magnati del secolo scorso, e tutti gli altri sempre più poveri.
Vie d’uscita da questa disuguaglianza sempre più estrema?
«Hal Varian, chief economist di Google, sostiene al contrario che i poveri avranno ciò che i ricchi hanno già, tipo una app-assistente virtuale che ricorderà loro cosa dovranno fare tra cinque minuti, come veri maggiordomi. Quanto a me, credo che un buon punto di partenza sarebbe tassare sul serio queste aziende, cosa che al momento non si fa. E pretendere la restituzione dei nostri dati. Perché anche quando crediamo che un servizio sia gratis, oltre alla privacy cediamo tali e tante informazioni su di noi che nel loro complesso valgono assai di più di quel che abbiamo risparmiato. È arrivato il momento di rendersene conto e, considerata la vostra diversa sensibilità, forse smettere di fare favori alle aziende americane ».