Wendy Guerra, la Repubblica 19/7/2015, 19 luglio 2015
Sarà meglio mettersi d’accordo. Sarà meglio che in quelle enormi palazzine dove si ammassano quindici o venti famiglie alla fine si trovi un compromesso e si riesca a vendere la proprietà, in modo che ogni inquilino possa trovare un luogo decente dove andare ad abitare, che garantisca intimità e indipendenza, e che si riesca a salvare l’edificio restaurandolo
Sarà meglio mettersi d’accordo. Sarà meglio che in quelle enormi palazzine dove si ammassano quindici o venti famiglie alla fine si trovi un compromesso e si riesca a vendere la proprietà, in modo che ogni inquilino possa trovare un luogo decente dove andare ad abitare, che garantisca intimità e indipendenza, e che si riesca a salvare l’edificio restaurandolo. I cartelli “Vendesi” sono dappertutto. Qui chiamiamo solares quegli alveari pieni di barbacoas (soppalchi realizzati per ricavare più spazi abitativi in ambienti dai soffitti alti, ndt) dove l’asfissia e il cattivo odore delle fosse biologiche ti aggrediscono fin dall’enorme portone di ingresso. Ho vissuto in uno di questi posti per dodici anni; i tuoi lamenti si fondevano con la musica del vicino, a tutte le ore dovevi tenere accesa la luce elettrica, il labirinto di case non riceveva ventilazione; era un inferno sopravvivere in quel miscuglio di marginalità e promiscuità quotidiana. Finalmente è arrivata la legge che permette la compravendita: in uno spazio incredibilmente ridotto, di pochissimi metri, nascono e muoiono quattro generazioni di cubani che hanno bisogno di una via d’uscita da questo dramma. Ma chi vende? E perché? Se si calcola un prezzo generale per questi bellissimi ma fatiscenti palazzi coloniali in decadenza, quasi tutti si trovano fra L’Avana Vecchia e il Vedado, ogni condomino ( jefe de núcleo , il capofamiglia, ndt) potrà ottenere fra i quattro e i seimila Cuc ( pesos cubani convertibili, ndt ) per il suo piccolo spazio, cifra con la quale potrà acquistare un appartamento piccolo ma indipendente dove poter iniziare una vita dignitosa. In molti casi il processo di riadattamento di queste persone abituate a una vita collettiva in posti dove bisogna assuefarsi alla convivenza intima e discreta di un palazzo più moderno fatto di singoli appartamenti è alquanto complesso. Alcuni vendono la loro parte per potere coprire le spese del viaggio: pensano di andarsene definitivamente da Cuba. E chi compra? E perché? Gente che viene da altri Paesi e magari vuole mettere su un ristorante, una galleria d’arte, un locale notturno. Oppure emigranti che dall’estero spediscono denaro sufficiente per rientrare in possesso di proprietà che in un’altra epoca avevano fatto parte del proprio patrimonio familiare. Tenete conto che uno di questi palazzi può costare dai centocinquantamila ai quattrocentomila dollari. Il problema è che i condòmini non sempre si mettono d’accordo. Il processo di convincimento è lungo e degno di una commedia cubana degli intrecci. Il cambiamento si fonda sul fatto che ora è possibile vendere e comprare immobili che per quasi sessant’anni sono rimasti intoccabili o inamovibili perfino per i loro proprietari. Fino all’anno scorso lo Stato non ti consentiva di decidere alcunché sul destino della tua abitazione. Chi ha detto di no a Google? Nessuno ha chiesto al popolo cubano cosa rispondere all’offerta di Google. Voleva regalarci l’installazione gratuita di internet. Siamo troppo vicini agli Stati Uniti per pensare che in piena fase di innamoramento americano non avremmo ricevuto un’offerta del genere. Quello che ci hanno detto, fin da quando internet è comparsa sulla scena, è che Cuba è un Paese povero, così povero che non può permettersi il lusso di installare la Rete. Ma questo punto mi domando: chi ha risposto a Google a nome nostro? È stato il secondo segretario del Partito comunista, José Ramón Machado Ventura. Beh, vorrei dire che non mi sento affatto vicina a questa risposta, se non altro perché non sono stata debitamente consultata. Nessuno di quelli che conosco è stato consultato. Il secondo segretario ha detto che ci rifiutiamo di farci installare gratuitamente le antenne wi-fi in tutta Cuba. «Tutti sanno perché internet, a Cuba, è poco sviluppata: perché ha un costo elevato. Ora c’è qualcuno che vuole darcela gratis, ma non lo fa perché vuole che il popolo cubano comunichi, lo fa con l’intento di penetrare fra noi e svolgere un lavoro ideologico per portare a termine una nuova conquista. Noi dobbiamo avere internet, ma a modo nostro, nella consapevolezza che è intenzione del capitalismo usarla come un’altra via per distruggere la Rivoluzione». La parola “imperialismo” ricompare quando l’apertura ci sta un po’ troppo larga. Ma perché non domandarlo al popolo, che è adulto e sa discernere, e sa pensare con la propria testa. Perché tanta paura? Cosa temono? Google o la possibilità di avere una finestra sul mondo? Per favore, smettetela di rispondere a nome del popolo, anche il popolo è uno. Il corpo, il nostro più grande spazio di libertà Quando, negli anni Settanta, subimmo la Parametración , ovvero il giorno in cui gli omosessuali qui a Cuba iniziarono a essere perseguitati ingiustamente, espulsi dalle scuole o dai centri lavorativi, quando furono costrette ad abbandonare il Paese migliaia di persone messe all’indice e incolpate per le loro preferenze sessuali, quando intromettersi nelle suddette preferenze cominciò a separare famiglie, amici, collaboratori, fu allora che avvenne la grande rottura fra l’individuo e lo Stato. Più di noi, sono stati i nostri genitori a soffrire per questa epurazione. Vittime di una selezione disumana che non aveva nulla a che vedere con le premesse della società giusta che aspiravano a costruire, molti cittadini cubani finirono reclusi forzosamente in centri come la Umap (Unità militari di aiuto alla produzione), per essere “rieducati”. A partire da quel momento la nostra generazione decise, quasi senza rendersene conto, di liberare la nostra fisicità, e nei collegi come nelle mobilitazioni, sulle spiagge come nei campeggi, decretammo che eravamo liberi e che non avremmo mai lasciato che la nostra sessualità venisse governata da una ideologia. Da quel momento percepimmo il corpo come l’unico spazio di libertà intoccabile per i cubani. Sarà per questo che possediamo una libertà fisica che confina con il libero arbitrio. La parola oppure l’immagine Siamo in piena estate, la Bienal de Arte è già finita da qualche settimana ma la città è ancora decorata con sculture e installazioni. I simboli coronano le strade, e forti o duri che siano, lì stanno. Molti cubani tornano qui per le vacanze, e quelli che tornano per restare, grazie alla legge sul reimpatrio, quelli che esigono il loro diritto a essere parte di un Paese che è di tutti, quelli che già sono abituati a parlare con libertà da decenni, anche loro tornano. Mettono sul tappeto argomenti che non tutti siamo in grado di affrontare, per lo sforzo di stare in silenzio esercitato in tutti questi anni. Gli artisti che presentano le loro opere sulla spianata del Malecón di solito dicono (non senza fatica) la loro verità sotto il piedistallo dell’opera, di fronte alla meravigliosa luce di Cuba. Lo fanno anche quelli che hanno uno spazio nelle gallerie d’arte, nelle esposizioni alternative e negli interventi pubblici. È per questo che mi domando: perché dà tanto fastidio la parola? Forse l’immagine è un modo meno diretto di intervenire sui problemi? Forse l’immagine è una scenografia che illustra il problema e il suo epilogo senza allargare la ferita? Perché la maggioranza dei miei libri viene censurata? Perché ci sono, ci sono stati e ci saranno tanti autori censurati? La parola è un urto verbale e fa male. Queste vacanze estive finiranno. Se ne andranno quelli che sono venuti a insegnare la loro verità, e qui rimango io, parlando da sola di una realtà che da fuori sembra una festa e da dentro è ormai una scenografia che illustra il campo di battaglia dove sono muti gli spari e pericolose le parole. Aggiornate il vostro vocabolario La piazza che sorge nel Vedado, quella che si trova di fronte alla vecchia “Sezione di interessi degli Stati Uniti”, la piazza che noi cubani abbiamo soprannominato el Protestódromo , la piazza delle lunghe marce di fronte al Malecón, sotto i violenti acquazzoni mattutini, forse cambierà nome: non la chiameremo più Tribuna Anti- imperialista , conserverà il nome di José Martí e le bandiere che sventolano lì prenderanno un altro significato. A partire da domani, 20 di luglio, tutti i cartelli che recitano “ Yankees Go Home ” saranno sostituiti da cartelli con sopra scritto “ Welcome Home ”. Noi che dall’età di tredici anni abbiamo imparato a sparare contro lo yankee oppressore che da un momento all’altro sarebbe venuto ad attaccarci, dovremo imparare a ossequiarlo in questo nuovo Paese che cambia in modo sottile davanti ai nostri occhi: gli affitteremo le nostre case, le nostre stanze, faremo colazione insieme nella sala da pranzo di famiglia, perché gli alberghi non ce la faranno ad accogliere tutti questi ospiti; sicuramente nasceranno nuovi matrimoni misti, fra cubani e americani, e la guerra fredda sarà riscaldata dal nostro modo così tropicale di dimenticare in fretta il dolore o il risentimento. La televisione cubana sta già trasformando il suo linguaggio: ora chiama il gruppo di persone che prende parte ufficialmente al processo negoziale “compañeros de la delegación norteamericana ”. Dal nostro vocabolario è sparito il gruppo di offese solenni destinate ai vicini del Nord, è stato bandito dalle allocuzioni ufficiali quell’appellativo, disegnato anche sui cartelloni, di Señores imperialistas . Questa mattina mi sono alzata pensando a cosa ne sarà di quella frase del Che Guevara: «All’imperialismo americano non si può cedere neppure un’unghia». Domani, questo venti del mese di luglio, il mio Paese si risveglia sottotitolato in inglese. (Traduzione di Fabio Galimberti)