Vittorio Zucconi, la Repubblica 19/7/2015, 19 luglio 2015
Obama,un weekend da papà il difficile mestiere del dad-in-chief– E tra le guerre e i trattati, le zuffe politiche e i terroristi, i viaggi di Stato e le minacce di morte quotidiane, la Prima Famiglia americana scopre di avere anche un padre, un “Father in Chief” che dietro le mura del proprio ruolo deve anche ricordarsi di essere, appunto, soltanto un padre
Obama,un weekend da papà il difficile mestiere del dad-in-chief– E tra le guerre e i trattati, le zuffe politiche e i terroristi, i viaggi di Stato e le minacce di morte quotidiane, la Prima Famiglia americana scopre di avere anche un padre, un “Father in Chief” che dietro le mura del proprio ruolo deve anche ricordarsi di essere, appunto, soltanto un padre. Come ha scoperto Barack Obama che lasciato per un weekend l’Iran, l’Is, i repubblicani, le interviste, l’euro, la Borsa, l’economia e la moglie, per fare quello che in sette anni non aveva mai fatto: un intero finesettimana da solo con le figlie Malia e Sasha, un po’ da padre divorziato. Poiché Obama è soltanto un padre, ma anche “Il Papà Supremo”, ha caricato sull’Air Force One le due ragazze — Malia che a 18 anni sta per volare via dal nido famigliare e Sasha, ancora sotto il tetto domestico a 14 anni ma abbastanza sfrontata da definire il padre “un po’ noioso” — e la ha portate a New York per una cena all’italiana da “ Carbone” al Greenwich Village e uno show a Broadway. E nessuno, neppure i repubblicani pronti a strepitare per i viaggi a carico del contribuente, hanno osato protestare per l’uso del Boeing 747 presidenziale divenuto minivan di famiglia, perché il tardivo recupero del ruolo di paterfamilias agita molte code di paglia nel mondo di un potere maschile che brucia nell’ambizione i doveri paterni. Il dilemma fra la paternità moderna, dunque coinvolta nella vita famigliare, e i doveri insaziabili della responsabilità di governo non è mai del tutto risolto. Non è, quella dei rapporti tra padri e figli nella storia della Presidenza americana, una favola sempre felice, in attesa di sapere come andrà, in un lontanissimo futuro, la relazione fra le mamme presidenti e i loro eventuali giovani rampolli, come non sarebbe comunque Chelsea Clinton, ormai una signora adulta a 35 anni, anche se la mamma vincesse la poltrona che fu del papà. Senza arrivare alla tragedia di Abraham Lincoln, che alla disperazione del massacro bellico dovette aggiungere la morte per malattia del figlio undicenne William che sprofondò la moglie in una depressione clinica devastante, essere insieme padri, capi di stato, simboli, pontefici laici e sovrani di una nazione è qualcosa più della fatica quotidiana di essere padri alle prese con scuola, compiti, capricci, tensioni familiari o divorzi. Delle “First Family”, delle Prime Famiglie e dunque dei “First Father” il pubblico cominciò a interessarsi quando sul palcoscenico esplosero i Kennedy che per primi, e come mai nessuno prima di loro, esibirono la vita domestica come un manifesto elettorale. Dopo l’anziano generale Eisenhower, che aveva figli ormai adulti, Jack e Jackie portarono alla Casa Bianca non soltanto figli, ma bambini come Caroline e John John destinati a conquistare e poi a strappare il cuore del mondo. Delle qualità paterna di Jfk poco sappiamo e molto dubitiamo, oltre le foto dei piccoli che frugano tra i simboli e le scrivanie del potere e del dolore di fronte alla perdita del neonato Patrick, nato immaturo e non sopravvissuto, e i comportamenti amorosi del Presidente fanno dubitare della sua sincera devozione familiare. Sull’affetto, e sulla totale dedizione delle figlie già grandi, Julie e Tricia, poté invece contare Richard Nixon. Non lo tradirono e non lo abbandonarono mai, anche nelle ore più cupe della sua discesa verso le dimissioni. Per un uomo patologicamente anaffettivo come Tricky Dicky, terrorizzato dalla dimostrazione di sentimenti ed emozioni, le immagini del matrimonio di Julie con un nipote di Eisenhower ci regalano un rarissimo sguardo nella felicità e nella umanità di un Nixon raggiante durante la cerimonia. Fu con Jimmy Carter, il pio piantatore di noccioline arrivato dalla Georgia, che i turbamenti dell’adolescenza ribelle post-sessantottina irruppero alla Casa Bianca. Amy Carter aveva dodici anni, quando il papà assunse il governo degli Usa e prese residenza nella villona candida e subito tormentò il padre con i suoi rifiuti degli orpelli e dei cerimoniali. Pretese e ottenne di farsi costruire una “Treehouse”, una casetta rifugio su un albero nel giardino della Casa Bianca. Il padre, dotato di un notevole talento da carpentiere dilettate, dovette collaborare a costruire per farla contenta, insieme con il Genio Militare, rispettosamente preoccupato della solidità di quella baracchetta tra i rami, dove Amy trascorreva più tempo che nella residenza. Ma nessun “First Father” dovette mai, per propria responsabilità, affrontare una figlia di diciannove anni che nel 1998 scoprì, insieme con tutto il mondo, le avventure del padre con una stagista di pochi mesi più grande. Divenne lei, ragazza, lo scudo dietro il quale il padre, e la madre, si rifugiarono per mantenere l’apparenza di una famiglia infelice, ma unita. Fu un quadro illustrato nelle fotografie dei tre, Bill, Hllary e Chelsea che camminavano tenendosi per mano, ma con Chelsea sempre in mezzo, come una zona demilitarizzata fra due nazioni in armi. Ma Chelsea adorava quel suo fascinoso e scapestrato papà che da bambina l’aveva conquistata facendole costruire una mini scrivania nel suo studio di governatore dell’Arkansas per giocare alla piccola governatrice come altre bambine giocano “ a casa”. Felici, contente e lontane vissero le gemelle Bush, le figlie di George W, Jenna e Barbara, che nella distanza fra Washington e il Texas potevano permettersi una vita propria e relativamente protetta dai riflettori. Non del tutto privata, come sbuffò Jenna, la più vivace delle due, quando confessò a un intervistatore quanto fosse frustrante andare al cinema con un ragazzo carino, avendo sempre alle spalle e ai fianchi agenti del servizio segreto, situazione che inibiva la spontaneità e le effusioni dell’esitante boyfriend. E ancora due ragazze, Malia e Sasha, accompagnarono gli Obama alla Casa Bianca, segnalando una curiosa prevalenza di femmine nelle prime famiglia dove, tra i Nixon, i Carter, i Bush, i Clinton e ora gli Obama non ci sono figli maschi. Ne aveva Reagan, ma erano tutti ormai adulti. Fra i presidenti dell’età contemporanea, da quando la vita famigliare è divenuta parte del messaggio e dunque dell’informazione, nessuno ha avvertito come Barack la responsabilità di essere, prima che “padre” pro-tempore di una nazione, il padre a vita dei propri figli. È stato lui a intervenire e scegliere, contro il parere dei consiglieri politici che temevano le reazioni dell’elettorato democratico, un liceo privato per le ragazze, dicendo che dell’effetto politico gli importava meno che della sicurezza e della qualità dell’istruzione. Il weekend a New York, da padre già nostalgico di una famiglia che si sta sciogliendo nel volo dei piccoli dal nido, è, nell’universo personale l’equivalente di quelle grandi pulizie finali che Obama sta compiendo, nel crepuscolo della presidenza. Con qualche puntina polemica e politica, emersa quando ha rifiutato di scendere al Waldorf Astoria, oggi di proprietà cinese, il Presidente sta cercando di essere ricordato come colui che fece la pace con l’Iran, con Cuba, forse con la Russia e con la propria famiglia. È il morso della nostalgia preventiva, meno disastroso della guerre preventive: «Non riesco a pensare a quella sedia a cena che tra poco resterà vuota, quando Malia partirà per il college in agosto», ha detto riflessivo e triste. Negoziare con l’Iran è più facile che trattare da padre con la realtà di una casa che si svuota.