Filippo Ceccarelli, la Repubblica 19/7/2015, 19 luglio 2015
TRA IL CAVALIERE E WALT DISNEY
L’ultimo, prima di Matteo Renzi, a rivendicare una “rivoluzione copernicana” fu Achille Occhetto nella seconda metà degli anni 80 — ed è dubbio che gli abbia portato fortuna. “Il tempo è galantuomo”, espressione pure usata ieri dal segretario-premier, lo diceva spesso Andreotti.
Anche se in maniera meno risoluta, più che altro augurandoselo. La ”operazione verità”, d’altra parte, e il “cantiere delle riforme” sono due tipici ritrovati della Seconda Repubblica, secondo la benemerita banca dati dell’Ansa patrimonio lessicale di chiunque, da Baccini a Chiti, da Napoli (junior) a Capezzone, si sia più o meno vanamente esercitato nel proporsi come portatore di buone intenzioni e spirito riformatore.
Sempre a proposito del “renzese” proviene dal miglior Craxi, come dire dal più ribaldo, quel “lo rifarei una, dieci, cento volte” (riguardo al patto Nazareno) e quell’altro modo di qualificare una certa cosa glorificandola in anticipo secondo la formula: “Che non ha paragoni nella storia repubblicana”.
Ora, a sentire ciò che i leader proclamano delle cose che intendono fare, quasi mai esistono precedenti; il che pare francamente eccessivo, per non dire che molto spesso i governanti sparano cannonate di frottole; o forse è nel loro mestiere, ma tant’è.
La storia della riduzione delle tasse, ad esempio, tanto più fermamente annunciata quanto più vaga nei suoi presupposti ed effetti tecnici, è fino a prova contraria purissimo e perseverante berlusconismo. Utile a rianimare la mosceria dei sondaggi, ma anche a rafforzare il più ragionevole scetticismo. Solo l’accorciarsi della memoria impedisce infatti di ricordare non solo quante volte l’ex Cavaliere promise di abbassare le imposte, ma anche le acrobazie messe poi in opera per dare la colpa a chi non glielo faceva fare, dagli alleati al ministro Tremonti, fino alla troika.
In compenso per due volte Renzi ha fatto riferimento al “disfattismo”, la seconda leopardianamente affibbiandogli l’aggettivo “cosmico”. Qui la faccenda semantica si fa delicata trattandosi di un termine usato in periodo di guerra, Lenin incoraggiava i disfattisti; altri, fautori di un entusiasmo di Stato, li imprigionavano. Non sembra quest’ultimo il caso del leader Pd che nel suo discorso ha integrato e alleggerito il disfattismo con una definizione — “ la tribù dei musi lunghi” — che si colloca fra Walt Disney e un certo umorismo oratoriale, variante scout.
Dietro di lui, sul palco, c’era la scritta “Bella l’Italia!”, antidoto pure legittimo al ritornello auto-denigratorio, ma forse pure ispirato a un recente libro, Il bello dell’Italia (Albeggi) in cui il presidente della Stampa Estera, l’olandese Maarten van Aaldaren, ha chiesto a 25 corrispondenti di illustrare ciò che vale del nostro paese.
Eppure, mai come ieri si è capito che per Renzi “far ripartire la fiducia” è sempre più dannatamente difficile. I progressi ci sono anche, vedi i “crudi numeri” della ripartenza economica, nessuno può negarli, ma qualcosa li ottenebra, e il kairos (liceo classico) non arriva. In questo senso è dalle ultime elezioni che il renzismo prova a riflettere sulla propria crisi comunicativa. Ma certo, rispetto al principio di realtà, l’enfasi sparsa anche ieri (sarebbe iniziato “il più grande cammino riformatore della storia d’Europa”) suona sospetta, così come non aiuta l’ambigua disinvoltura da storytelling (per cui la Buona scuola “non l’abbiamo raccontata bene”).
Per il resto la retorica renziana tende per forza a ripetersi: “la palude”, “il derby ideologico”, “i nostri figli”, “la via del coraggio e del futuro”. L’immancabile “sogno”, eredità proto-berlusconiana fatta propria da quanti in vent’anni si sono regolarmente promossi in grado di allietare gli italiani con la loro benefica presenza, si è arricchita ieri di un comparativo: occorre “sognare più forte”, secondo una linea linguistica che da Marilyn Monroe giunge fino a Ligabue.
Infine, le slide, entrate ormai definitivamente nel paesaggio del Pd. Quindi l’Italia fotogenica vista dallo spazio, bambini che studiano sotto il lampione o guardano il mare crudele dei barconi e tre foto di Salvini in abito e magliette di scena. Mancava purtroppo quella di lui nudo con la cravatta verde. Lo si è mostrato in compenso, e discutibilmente, che abbracciava Sylvie Lubamba, che oggi è prigione per impicci con le carte di credito, e a cui ad aprile scorso Papa Francesco ha lavato i piedi.