Alain Elkann, La Stampa 19/7/2015, 19 luglio 2015
Luigi Ontani, perché quest’estate ha allestito la sua mostra a Grizzana Morandi, un paesino nell’Appennino toscoemiliano? «Perché sono nato a Vergato, nella valle del Reno, e solo il fiume mi separa dalla casa di Morandi»
Luigi Ontani, perché quest’estate ha allestito la sua mostra a Grizzana Morandi, un paesino nell’Appennino toscoemiliano? «Perché sono nato a Vergato, nella valle del Reno, e solo il fiume mi separa dalla casa di Morandi». Quindi un ritorno alle origini? «No, un’andata e ritorno. Ho cercato di prendere radici dalle avanguardie storiche: futuristi, surrealisti e dada, avvicinandomi all’arte come dilettante. In effetti ho fatto il contrario di Morandi, il più sublime dei pittori del pennello nel ‘900». Da una parte si visita la mostra e dall’altra la casa e lo studio di Morandi? «Si, da diversi anni mi sono autoinvitato a esporre nella casa-studio di Morandi e mi piace essere suo ospite, mimetizzarmi nel contesto domestico, umile e semplice, della sua casa. Del resto mi mimetizzai anche a Capodimonte, un luogo invece maestoso, mettendo le mie opere nella sala napoleonica delle cineserie». Ma cosa c’entra con lei Morandi? «Per me è un mito, da sempre: è uno dei più grandi pittori della storia, la sua pittura è una sintesi sublime. Per non competere ho creato “Nature extramorte” con la bottega Gatti di Faenza. Ho creato l’opposto del mio mondo di fantasticare, perché ci sono fantasticherie domestiche come il barattolo dell’Ovomaltina o le bottiglie o il mazzolino di fiori o il barattolo di borotalco. Ho agito come fossero archetipi e prototipi. Le ho guardate facendole diventare dei capricci» Quindi questa è una mostra «Ontani d’après Morandi»? «Io ho sempre fatto dei “d’après”, ma le mie “pose” sono basate su un movimento più manierato alla memoria e non citazioni pedisseque». A pochi chilometri dalla mostra ha anche la sua casa «Villino Roma Om Amor». «Sì, era il villino fuori le mura del castello della Rocchetta Mattei per gli ospiti che desideravano solitudine. L’ho immaginato come un tempio, realizzando cose che non si mettono nelle mostre: i mosaici, le veneziane, i lampadari di Murano, le vetrate con i piombi, tutto ciò che nell’arte contemporanea non si può realizzare e quindi ho fatto il mecenate di me stesso». Il suo vero studio è invece a Roma? «E’ lo studio che fu l’autentico studio di Canova a Roma. Ho giocato con la storia e la memoria del Canova». La casa di Morandi e lo studio di Canova non sono un peso per un artista? «Per me no, perché la cultura e l’arte, per me, sono una conquista. Io tendo ad esprimere leggerezza e frivolezza e le mie ceramiche hanno una loro seduzione. Quello che mi accomuna a Canova e Morandi è l’oblio. Sono artisti che tendono ad uscire dal tempo». Come definirebbe il suo lavoro? «E’ un’avventura tra arte e vita, spesso con un pizzico di ironia e frivolezza espressa gioiosamente». E’ un unicum? «Mi piace l’artista quando ha contenuti anche letterari. Mi piacevano da sempre artisti come Savinio, Klossowski, Alberto Martini, perché hanno una dimensione visionaria». Le piace l’aspetto ludico dell’arte, come se fosse un grande gioco? «Giocare è un modo di dilatare l’infinito». Si sente vicino a Watteau? «A Parigi, negli Anni 70, nella galleria di Sonnabend feci un omaggio all’”Indifferent” di Watteau e nello stesso periodo feci un omaggio a Fra Galgario, molto ispirato dall’Oriente nel Settecento e fantasioso». Essere un’artista italiano è difficile? «Pur essendo un grande viaggiatore e avendo trascorso molti anni tra New York e l’Oriente ho scelto di tornare in questo “ex bel paese” perché gli artisti italiani in Italia sono più liberi. Perché nessuno si accorge di loro. Viviamo del miraggio dell’arte del passato». Alcuni artisti italiani vanno in America o in altri Paesi per cercare di esistere? «Lo so bene. Ho abitato fin troppo tempo a New York. L’ho amata. Ma erano parentesi avventurose, inviti, ma non mi sono mai considerato residente. Ho abitato a New York tutte le fasi delle sue trasformazioni: ho vissuto oltre Canal Street, poi a Soho, a Plince Street e lì ho conosciuto Julian Schadel che mi accolse subito e tra noi c’è una simpatia. E poi ho abitato a Tribecca. Non esisteva ancora come luogo mitico e il mio mecenate era Paolo Serra di Cassano che mi dava uno studio. E poi andai al Gramercy Park Hotel e poi al Chelsea e così via». I suoi amici a New York chi sono? «Inizialmente gli artisti e i musicisti delle performances fine Anni 60 come Charlemagne Palestine o Simon Sorti. Allo stesso tempo quelli del Minimal come Richard Serra o Karl Andreandre, ma chi mi ricevette dopo la mia mostra da Sonnabend fu Rauchenberg e poi vi furono altri amici come Diego Cortez o Rene Richard. In fondo, le persone più irrequiete». Le piacciono persone irrequiete, giovani? «Giovani no, l’età non la considero. Pur essendo vegetariano e pacifista dalla nascita, lo ripeto in continuazione, mi piacciono persino i cannibali». Le sembra che l’arte oggi sia viva come lo è il mercato dell’arte? «No, l’arte ha un’altra vitalità. Il mercato è solo un valore aggiunto che va dal concreto al gioco d’azzardo ed è un sinonimo del gioco newyorchese». E a Roma? «A Roma non esiste il mercato, non voglio essere consumato dal mercato. Non posso condurre la mia avventura con distacco. Ho fatto la mostra sull’Appennino per dispetto ad un mondo globale. Però devo dire sempre: Viva l’arte».