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 2015  luglio 18 Sabato calendario

Notizie tratte da: Jas Gawronski, A cena dal Papa e altre storie, Aragno editore 2015, pp. 175, 15 euro

Notizie tratte da: Jas Gawronski, A cena dal Papa e altre storie, Aragno editore 2015, pp. 175, 15 euro.

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Kennedy Quando morì John Kennedy Jas Gawronski si trovava in un albergo di La Crosse, nel Wisconsin, con una troupe della Rai per girare un documentario sul Mississippi. «La notizia arrivò mentre mangiavamo al ristorante. Una cameriera uscì di corsa dalla cucina gridando: “Hanno sparato a Kennedy”. Alla televisione, che tutti si misero subito a guardare, a un certo punto il giornalista Walter Cronkite, della Cbs, si tolse gli occhiali e disse: “Il presidente Kennedy è morto”. Molti si misero a piangere.

Carnera «Lo incontrai nella sua casa di Los Angeles quando il suo fisico mostrava già i segni della malattia che lo avrebbe portato alla morte. Aveva una strana, per
lui insolita, fretta di parlare e mi raccontò l’infanzia,
poverissima, nel Friuli, quindi la ricerca di un
lavoro in Francia prima come falegname poi come
fenomeno da circo, infine l’America e la grande
boxe, gli incontri con il lituano Sharkey e Max
Schmeling, che lo umiliò sul ring ma, divenuto soldato
tedesco, lo salvò dalla deportazione».

Léger Il cardinale Léger, «pervaso dall’idea di
una Chiesa missionaria e povera, fatta per servire.
Arcivescovo di Montreal, aveva deciso di abbandonare
diocesi e porpora per recarsi missionario in
Africa a curare i lebbrosi. Con il suo gesto aveva
smosso molte coscienze lasciando sconcertati persino
alcuni settori del mondo cattolico. Eppure lui
me ne parlò come di una cosa naturale. Gli chiesi
come mai si percepiva in giro tanta meraviglia per
la sua decisione. Rispose: “Credo vi siano dei gesti
semplicissimi che tendono dritti all’essenziale; così,
tutto d’un colpo, raggiungono il Vangelo”».

Khomeyni L’Ayatollah Khomeyni, leader spirituale
degli iraniani che si opponevano allo scià Reza
Pahlavi. «Arrivò a Parigi, dove allora ero corrispondente
della Rai, nel novembre del 1978, per sfuggire
a quel regime, e fui tra i primi giornalisti a raggiungerlo
a Neauphle-le-Chateau, un piccolo e ridente paesino alla periferia della capitale dove aveva stabilito il suo quartier generale. [...]Delle tre volte che andai a incontrarlo, conservo il ricordo di lunghe attese. Parlava con una voce più simile a un sussurro, e persino i suoi assistenti-traduttori avevano difficoltà a raccogliere il senso delle sue parole. Accovacciato, a tratti sopito, parlava sempre con la testa chinata in basso e la barba arruffata che si strofinava sul suo petto, nascondendo gli occhi infossati e tenebrosi, ed erano brevi gli istanti in cui si poteva cogliere il suo sguardo affilato. Nell’intervista disse cose prevedibili: attaccò lo scià per avere, tra l’altro, “comprato a peso d’oro una parte della stampa occidentale”, tratteggiando le caratteristiche salienti del regime che poi riuscì a imporre al suo Paese: “Una repubblica islamica, basata su leggi islamiche, che sono progressiste e democratiche”».

Thatcher Margaret Thatcher nutriva una forte attrazione per Ronald Reagan «come politico e come uomo; arrivò a cambiarsi d’abito cinque volte nel corso della stessa giornata durante un vertice con il presidente degli Stati Uniti».

Zivkov Todor Zivkov, che per trentacinque anni ha guidato con mano autoritaria la Bulgaria, rendendola il satellite più appiattito sulle posizioni dell’Unione Sovietica. «Lo intervistai a Sofia nel febbraio del 1997, un anno prima della morte. La sua origine contadina
trapelava dalle mani grassocce, anche se ben curate,
che agitava di continuo, nonché dalle guance pesanti e dalla risata schietta e rumorosa che scuoteva il corpo massiccio. Quando gli chiesi se era vero che fosse coinvolto, come si diceva allora, nella pista bulgara dell’attentato al Papa di Ali Agca, negò decisamente. Ma poi, per essere più convincente, aggiunse, con una delle sue risate da contadino plebeo ma non volgare: “Se davvero fossimo stati noi, pensa che avremmo potuto fallire il bersaglio?”».

Transnistria Igor Smirnov, «presidente di un Paese
che malgrado abbia una sua costituzione, un
esercito di settemilacinquecento uomini, una
moneta, praticamente non esiste; difatti non è riconosciuto da nessuno e appare solo sulle carte
geografiche stampate ad hoc. È la Transnistria,
settecentomila abitanti tutti filorussi, Paese estratto
dopo una guerra di secessione dalla Moldavia
latina, al cui centro è incastonato non solo per
affermare gli ideali slavi sostenuti da Mosca, ma
anche per legittimare traffici di ogni genere: contrabbando di petrolio, sigarette, alcol, armi e lavaggio di denaro sporco. Il tutto condito da una
nostalgica riesumazione dell’ortodossia sovietica
con la polizia segreta che si chiama ancora KGB,
una statua di Lenin che troneggia di fronte al palazzo
presidenziale, una stella sovietica in cima al
Parlamento e una falce e martello sul tetto della
stazione ferroviaria: una specie di museo all’aperto
dell’influenza sovietica. Smirnov, ex ufficiale
dell’Armata Rossa, ha proclamato l’indipendenza
della Transnistria dalla Moldavia nel 1991 aprendo
una guerra di secessione che è stata domata solo con l’intervento della Russia un anno dopo. La Russia mantiene tuttora in loco un contingente di
millecinquecento soldati ma, da allora, la Moldavia
non ha più alcun controllo sul territorio».

Enkabjar Natserengiin Enkabjar, primo ministro della Mongolia, «solitaria democrazia in un’area oscura, unico Paese comunista extraeuropeo a essersi sbarazzato del regime sovietico a furor di popolo. Mi ha ricevuto nel suo ufficio al centro di Ulan Bator, capitale certo non bella di un Paese che è il meno densamente popolato del mondo,
con tre milioni di abitanti su un territorio grande
quasi come la nostra Europa. Guardando questo piccolo uomo tondo a capo di una nazione che l’altr’anno è cresciuta economicamente a un ritmo più veloce di qualsiasi altro Paese, non ho potuto evitare di pensare di trovarmi di fronte all’ultimo erede di quel Gengis Khan che ha fatto tremare il mondo fondando l’impero più vasto della storia. Parlava con un filo di voce Enkabjar, mentre denunciava la corruzione che avrebbe voluto combattere aumentando gli stipendi di doganieri e di giudici. Amava essere chiamato il “Tony Blair delle steppe”. Quando l’interprete sbagliò una parola durante il colloquio, ebbe un gesto di stizza molto poco “british” e non esitò ad allontanarlo mettendosi a parlare un ottimo inglese con accento oxfordiano. Il traduttore serviva solo a ostentare, all’orientale, il potere o forse anche a guadagnare tempo per le risposte».

Reza Pahlawi La missione che Gawronski ha svolto per il Parlamento europeo al confine tra Iran e Iraq, per monitorare le condizioni dei profughi curdi che scappavano dalle atrocità di Saddam Hussein. «A Teheran salimmo su un Falcon che era appartenuto
allo scià e il pilota mi raccontò come Reza Pahlawi
faceva venire ragazze da Parigi, le copriva di gioielli
preziosi, che poi su sue istruzioni, i doganieri alla
loro partenza confiscavano e gli restituivano».

Musharraf Il presidente del Pakistan Pervez Musharraf.
«Quando mi ha ricevuto nel suo palazzo ministeriale
a Islamabad vestito come il suo doppio e discusso incarico: pantaloni borghesi quale presidente
della Repubblica, e giubbotto militare mimetico
come capo dell’esercito».

Indonesia L’Indonesia, diciassettemila isole, distanti
anche cinquemila chilometri l’una dall’altra, come
Madrid da New York. «Arrivai in una di queste isole,
Bali, forse la più bella e la più famosa, per monitorare
per conto del Parlamento europeo le elezioni,
per la prima volta democratiche e storiche, che portarono al potere Susilo Bambang Yudhoyono. Dopo
le nefandezze del satrapo Suharto, Sby, così lo chiamavano, ha saputo incarnare il desiderio di massa
di uscire dalla corruzione che divorava il Paese intero:
la politica, la vita quotidiana, la società arretrata.
Vidi centinaia di suoi sostenitori rasati a zero, come
si fa secondo un’antica tradizione javanese quando
un desiderio viene esaudito».

Priebke Erich Priebke. «Andai a trovarlo a Regina
Coeli, stava nel braccio 8, quello dei detenuti
più sorvegliati, cella 1. Tre agenti non lo perdevano
mai di vista. Attraverso lo spioncino lo vidi
sdraiato sul letto, sembrava dormire, ma al primo
leggero battito sulla porta si alzò di scatto, con
un’energia giovanile. Quando entrai apparve un
po’ imbarazzato dalla sua tenuta: una canottiera
a mezze maniche all’americana e dei mutandoni
lunghi a righe bianche e rosse che sembravano
un costume da bagno. “È sicuro, Priebke, di non
avere nulla di cui pentirsi?” gli chiesi. Ci pensò
un po’ prima di rispondere. E poi: “Certo, quei
due o tre che ho fucilato… mi peseranno sempre
sull’anima”, ma poi, quasi pentito di quello
che aveva detto, malgrado le mie insistenze non
ha più voluto dire a chi o cosa alludeva».

Wojtyla 1 L’intervista di Jas Gawronski a Giovanni Paolo II fu pubblicata in contemporanea dalla Stampa e da un centinaio fra i più importanti giornali da Hong Kong alla California. «Il giorno seguente fu ripresa e commentata anche dai quotidiani che non avevano stabilito un accordo con il giornale di Torino. Due giornali francesi, Le Monde e Le Figaro, evidentemente sorpresi dallo “scoop”, misero in dubbio con pesante ironia l’autenticità dell’intervista (“Gawronski avrebbe intervistato… Se sono vere le parole del Pontefice…”), per poi pubblicare una stentata rettifica quando, con mia enorme soddisfazione, lo stesso Osservatore Romano, organo ufficiale della Santa Sede, pubblicò il testo integrale nelle due pagine centrali».

Wojtyla 2 Santità, quale ritiene sia stato il suo ruolo nel crollo del comunismo?
«Trattandosi di me, non posso che essere riservato!
Io penso che un ruolo determinante sia stato
quello del cristianesimo come tale, del suo contenuto,
del suo messaggio religioso e morale. Io non
ho fatto altro che ricordare, ripetere, insistere non
solo sul principio della libertà religiosa, ma anche
di tutte le altre libertà legate alla persona umana».

Wojtyla 3 Perché il comunismo ha avuto tanto successo nella storia? Come spiega che costituisca ancora una forza con cui bisogna fare i conti in alcuni Paesi occidentali, mentre in altri è ritornato al potere attraverso libere elezioni, come in Lituania e in Polonia?
«Il comunismo ha avuto successo in questo secolo
come reazione a un certo tipo di capitalismo
eccessivo, selvaggio, che tutti conosciamo bene.
Basta prendere in mano le encicliche sociali, e soprattutto la prima, la Rerum Novarum, nella quale
Leone XIII descrive la situazione degli operai a
quei tempi. La descrive come la descriveva Marx.
La realtà sociale era quella, non c’erano dubbi, e
derivava dal sistema, dai principi del capitalismo
ultraliberale. È nata quindi una reazione a quella
realtà, una reazione che è andata crescendo acquistando molti consensi fra la gente, e non solo nella classe operaia. Molti intellettuali – anche in Polonia – si sono abbandonati alla collaborazione con le autorità comuniste. Poi, a un certo punto, si sono accorti che la realtà era diversa da quella che pensavano».

Wojtyla 4 Lei si è battuto con energia e passione contro il comunismo. Ora nei Paesi che se ne sono liberati regna il degrado morale, si diffonde la droga, la prostituzione. Nell’ex Jugoslavia si è svolta una guerra che umilia il concetto di civiltà. Le capita mai di domandarsi se valeva veramente la pena sconfiggere il comunismo?
«Certo, era legittimo combattere un sistema totalitario
che si definiva socialista o comunista. Ma è anche
vero quello che dice Leone XIII; cioè che “semi
di verità” ci sono pure nel programma socialista. È
ovvio che questi semi non devono andare distrutti,
non devono perdersi. I fautori del capitalismo a oltranza, in qualsiasi forma, tendono a misconoscere
anche le cose buone e giuste realizzate dal comunismo:
la preoccupazione per i poveri, gli anziani, i pensionati. Sotto i governi comunisti la gente si è abituata a vivere con l’aiuto e la protezione dello Stato. E quando è stato detto alla gente: tutto questo è finito, ora dovete sistemarvi da soli, pensare a voi stessi, ecco, si sono trovati senza esperienza, senza possibilità di combattere in proprio, disabituati alla responsabilità, inerti. Al tempo stesso ci sono state anche delle persone furbe, intraprendenti che hanno subito dimostrato iniziativa economica, hanno saputo approfittare dell’iniziale sbandamento per arricchirsi, non sempre in maniera lecita e onesta. Gran parte di queste persone – per le ragioni che ho detto – sono membri dell’ex nomenclatura, ovvero comunisti. Questa è la tragedia di Paesi come la Polonia dove la gente, lei lo sa, li ha incontrati, tollera spesso il paradosso che i comunisti che sono al governo dicano “noi non siamo più comunisti,
siamo qualcosa di diverso”, ma in realtà sono uguali
a prima. E questi comunisti si sono appropriati di
gran parte delle ricchezze del Paese e hanno costruito
una tale forza economica che sono sopravvissuti
facilmente anche quando non erano al governo ma
all’opposizione, e ora vincono le elezioni perché
hanno potuto organizzare e pagare tutto…»

Wojtyla 5 Santo Padre, glielo chiedo con grande umiltà, ma quando io la sento parlare così, ecco, non posso evitare di pensare che lei sia più contrario al capitalismo che al comunismo. È questa l’impressione che lei vuole dare?
«Ripeto ciò che le ho detto finora, e che da sempre
ho trovato riassunto nei versi del poeta polacco
Adam Mickiewicz: “Non punire una spada cieca,
ma piuttosto la mano”, cioè bisogna risalire alla
causa dei fenomeni che stiamo vivendo. E secondo
me, all’origine di numerosi gravi problemi sociali
e umani che attualmente tormentano l’Europa e il
mondo si trovano le manifestazioni degenerate del
capitalismo».

Wojtyla 6 «Non vorrei generalizzare, ma per quanto riguarda l’atteggiamento della stampa nei miei confronti, quello della Polonia è il peggiore di tutto l’Occidente. Ma io cerco di convivere con tutto questo, e torno, come negli Stati Uniti. I giornalisti in aereo mi dicevano: “Ma perché lei va in America? Là il 90 per cento dei cattolici non è d’accordo con lei”. E io rispondevo: “Ci vado appunto per questo”. Poi hanno visto come si è svolta la visita e non hanno detto più nulla. Ci sono diverse strategie e bisogna sapersi destreggiare fra queste diverse strategie. Non possiamo perdere coraggio. Certo, viaggiando si affrontano dei rischi, ma già una volta hanno cercato di uccidere il Papa, e non è stato nel corso di un viaggio, ma proprio qui, a San Pietro!» (Giovanni Paolo II a Jas Gawronski, interviste originali pubblicate su La Stampa 1993 e 2005)

Fidel Castro 1 Fidel Castro del Papa diceva: «Quando critica il capitalismo sono d’accordo con lui, quando critica il comunismo non sono d’accordo con lui».

Fidel Castro 2 La Cina, rimasta socialista politicamente, in campo economico cerca di non esserlo più. Cuba invece appare ancora tutta saldamente socialista. Ma fino a che punto vi sarà possibile restare socialisti quando tutto attorno cambia?
Io credo che la Cina sia un Paese socialista, e che
lo sia anche il Vietnam. Cinesi e vietnamiti hanno
ragione nell’insistere di avere introdotto tutte le riforme
necessarie a stimolare lo sviluppo del Paese lungo la strada del socialismo. Non esistono regimi o sistemi chimicamente puri. A Cuba abbiamo molte forme di proprietà privata, abbiamo decine di migliaia di proprietari terrieri, che possiedono, in alcuni casi, fino a quarantacinque ettari; in Europa sarebbero considerati dei latifondisti. Quasi tutti i cubani sono proprietari della casa in cui abitano, siamo inoltre più che aperti agli investimenti stranieri. Ma tutto questo non toglie a Cuba il suo carattere socialista. Resta comunque certo che non
commetteremo mai l’errore di distruggere il Paese
soltanto per fare una cosa nuova. Non commetteremo
in sostanza l’errore di sprofondare il Paese
nell’anarchia per risolvere i problemi che abbiamo.
Questa sarebbe l’unica maniera per non risolverli
mai.

Fidel Castro 3 Prima parlava di attentati: quanti ne ha subiti nella sua vita?
Se ci fosse una disciplina olimpionica in questo
campo, avrei certamente conquistato la medaglia
d’oro. Al Senato di Washington hanno riconosciuto
l’esistenza di molti piani per farmi fuori. Negli
Stati Uniti non solo preparavano progetti d’attentato,
patrocinati dalla Cia, ma organizzavano tutta
una sofisticata guerra psicologica, aiutando diversi
nemici della rivoluzione e sostenendo sempre la
realizzazione di imboscate con cui eliminarmi fisicamente. Ho subito centinaia di attentati, alcuni
organizzati direttamente dalla Cia, altri ispirati
dalla Cia, coordinati oppure pagati dalla Cia.
Nonostante tutto sono ancora vivo. Qualche volta
sono stati molto vicini all’eliminarmi, più di una
volta. Ma io non ci ho mai pensato molto, anzi, mi
sono quasi sempre divertito a constatare i loro reiterati
fallimenti.

Fidel Castro 4 Comandante, per concludere, mi tolga una curiosità. Perché porta sempre quella uniforme da guerrigliero? Oramai i tempi eroici della Sierra Maestra sono finiti.
È il mio vestito direi oramai fisiologico, l’ho portato
tutta la vita, è comodo, è semplice, costa poco
e non va fuori moda. Ne ho anche un altro, di gala,
con la cravatta. Ma ora permetta a me di rivolgerle una domanda. Lei, al Papa, glielo ha chiesto perché
porta sempre quel vestito bianco? (Articoli originali su
«La Repubblica», 30 novembre 1986; «La Stampa», 21 dicembre 1993)

Corea del Nord 1 «Il Mausoleo di Pyongyang, contenente la salma del “Grande Leader” Kim Il-sung: un palazzo di marmo tipo quello che Ceausescu si fece costruire a Bucarest (senza riuscire a vederlo finito). Tutto il giorno, e ogni giorno, centinaia di persone in fila, schierate militarmente, sfilano, entrano, sostano ed escono dall’enorme dimora funebre di granito. Silenziose, attonite, avanzano per lunghi corridoi marmorei, su tappeti mobili, poi su tappeti tremanti che
ripuliscono le suole delle scarpe. Entrano anche in
un tunnel ventoso per farsi soffiare via la polvere
dai vestiti, e si sottopongono a controlli elettronici
istituiti per scoraggiare attentati. Poi ancora in
fila, questa volta uno per uno, attorno alla salma.
La faccia della mummia appare illuminata sotto la
teca trasparente. Riempiono l’ambiente in penombra
una musica strappalacrime e una luce rosa soffusa.
La folla sfila in silenzio prima davanti ai piedi
della salma, tutti si inchinano e le girano attorno.
Poi, ti accorgi che diverse donne piangono e sembrano,
più che prefiche, vedove afflitte dal dolore.
Appaiono sincere e danno l’impressione di aver
creduto in quell’uomo e in quella religione che
egli, ancora vivo, aveva imposto al Paese».

Corea del Nord 2 «Qui, nel palazzo della salma, vengono ricevute le delegazioni straniere. Qui, gli ambasciatori presentano le loro credenziali a un funzionario “facente funzioni di presidente”, con ciò si sottende che il presidente vero rimane sempre lui, il defunto Kim Il-sung, per sempre. Non a caso han deciso di non nominargli un successore. Non si può ammettere
che qualcuno prenda il suo posto, nemmeno dopo
che è morto. “Perché insiste a parlare di culto del la personalità?”, mi ha domandato Chai Jin Su, del
Partito del Lavoro, il partito comunista al potere,
quando gli ho chiesto di spiegarmi questa ossessione.
“Non si possono obbligare tante, troppe persone
ad amare un leader. Evidentemente qui non c’è
culto, ma semplicemente amore”».

Corea del Nord 3 Di notte, la scarsità di energia elettrica fa piombare la città in un buio totale: un buio perforato solo dai fanali di qualche macchina, mentre rimangono accesi i potenti e dispendiosi fari che illuminano i monumenti e i manifesti del regime.

Corea del Nord 4 A Pyongyang negozi e ristoranti sono grandi e vuoti, le case dignitosamente pulite. Non si percepisce né fame né malnutrizione e come in quasi tutte le dittature, non c’è traccia di mendicanti. Tuttavia si calcola che circa tre milioni di persone, su una popolazione di ventiquattro milioni, siano morte negli
ultimi quattro anni di fame provocata in parte da
inondazioni, e in gran parte soprattutto da un sistema
economico rigidamente controllato dallo
Stato.

Corea del Nord 5 «Ho posto il problema dell’opposizione al presidente del Parlamento nordcoreano, Choe Tae-bok, ricordandogli che anche nei regimi comunisti più
ortodossi c’era sempre un partitino di pseudo opposizione, per salvare le apparenze. “Da noi opposizione non c’è!”, mi ha risposto con un sorriso
divertito, quasi trovasse simpaticamente originale
la mia domanda».

Corea del Nord 6 A Hungham, la città più grande della Corea del Nord dopo la capitale Pyongyang, amputare
è normale se la rottura di un braccio o di una gamba è complicata da curare. D’altra parte, l’ospedale provinciale dovrebbe servire tre milioni di persone, ma ha una vecchia e unica ambulanza, non ha riscaldamento e solo da poco, coi soldi dell’Europa, ha sostituito le finestre in legno marcio con infissi in plastica. Finalmente, «non è più come essere fuori a meno venti», mi dice un medico.

Corea del Nord 7 Hungham è ancora più povera di
Pyongyang, anche se non vi trovi i mendicanti di
Roma o di Torino: qui, come in ogni dittatura, l’accattonaggio svanisce. Poche macchine, molti
carrelli e biciclette cariche di sacchi, vecchie bici,
vecchie gomme. Ai bordi della strada quei miseri
mezzi spesso si fermano e, allora, si possono vedere
uomini denutriti che, con la carta vetrata, aggiustano
camere d’aria bucate. Tutti trasportano sempre qualcosa. La città appare esasperatamente pulita. Decine di persone scopano, con ramazze di vimini, le strade e tagliano a mano l’erba delle aiuole. Quando
brevemente e raramente si riposano, si mettono accovacciati in una posizione un po’ scimmiesca, per
noi scomoda, che essi comunque prediligono.

Corea del Nord 8 A volte si vedono vecchie carrette con sacchi di mais. Quando un sacco cade, ne esce una manciata di chicchi. Chi l’aveva sulle spalle li raccoglie fino all’ultimo.

Corea del Nord 9 La produzione nazionale di cereali è di tre milioni di tonnellate, ma per la sussistenza della popolazione ne servirebbero almeno quattro milioni.

Corea del Nord 10 L’apparato militare nordcoreano, con oltre un milione di soldati, è fra i più grandi del mondo e gode di assoluta priorità. Per garantirne la compattezza, l’altezza minima per essere arruolati è stata abbassata a un metro e venticinque centimetri.

Corea del Nord 11 Nelle campagne donne e uomini lavorano scalzi nel fango delle risaie. Non si vede mai qualcuno riposare. Quando piove a dirotto nei campi spuntano strani mucchi coperti da un velo di plastica bianca. Appena spiovuto, quei mucchi cominciano a ondeggiare e ne escono uno o due contadini che riprendono a lavorare. «Anche le strade di campagna sono tenute pulite da decine di addetti. Su un’autostrada ho visto uomini con gilet arancioni, scaglionati ogni cento
metri, intenti a strappare l’erba dalle fessure nell’asfalto della corsia di emergenza».

Corea del Nord 12 Il reddito pro capite di un nordcoreano è il 5 per cento di un suo “fratello” del Sud. Cinquanta anni fa era il contrario. «Cominciano forse a dubitare che il sistema possa essere sbagliato? Ri Jong Hyok, presidente dell’associazione Amici dell’Europa Occidentale, non ha dubbi: “Il nostro sistema l’ha scelto la gente, noi lo adattiamo di continuo al mutare
delle situazioni, come dimostrano le riforme dei
prezzi e dei salari degli ultimi due anni”. In effetti, qualche miglioramento si nota. La gente osa guardare lo straniero in faccia, talvolta gli rivolgono addirittura un sorriso. Ci sono più auto e finalmente le belle poliziotte in colbacco, con divisa bianca e blu, che volteggiavano come ballerine per dirigere un traffico inesistente, hanno qualcosa da fare. Si sente, addirittura, qualche colpo di clacson che pretende precedenza e ordine. Ci sono anche banchetti per le strade che testimoniano
l’avvento di una timida iniziativa privata, nuovi ristoranti e negozi abbastanza decorosi. Si nota l’unica pubblicità di un’automobile sudcoreana sulla strada che porta all’aeroporto».

Corea del Nord 13 Vanno tutti a piedi o quasi. Per prendere un autobus cadente, quasi sempre rotto, si devono fare code lunghissime.

Corea del Nord 14 «Qui, sono ricchezza anche i due cani scuoiati che ho visto vendere all’equivalente di 10 euro al supermarket Tongil (che significa riunificazione, fra le due Coree). Al supermercato, che è il massimo
della distribuzione modernizzata, tutto costa dieci volte più delle razioni di Stato. Ne sono nati anche altri. Hanno clienti, mentre i vecchi negozi di Stato espongono solo scaffali vuoti».

Corea del Nord 15 La propaganda non si ferma. Per «avvertirne l’impatto basta salire a Pechino sull’aereo delle linee nordcoreane Air Koryo, che due volte la
settimana collega la capitale cinese con Pyongyang.
A bordo, i giornali parlano solo dei meravigliosi risultati
ottenuti grazie alle intuizioni del “Caro Leader”.
L’hostess intercala gli annunci sulle uscite di
sicurezza con messaggi come questo: “L’acqua che
bevete a bordo è speciale per la salute e la longevità.
Pur essendo molto occupato, il Caro Leader, benevole
padre del popolo, ha studiato nel dettaglio
i problemi della distribuzione dell’acqua per farla
giungere a tutti i cittadini. Bevendola proverete il
senso dell’amore infinito che il Grande Leader nutre
per la nostra gente”. Al momento di trasvolare
il confine tra Cina e Nord Corea, un inno viene innalzato
a Kim Jong-il: la leggenda vuole sia venuto
al mondo lì, in una capanna sulle pendici del Pektu,
il monte sacro della rivoluzione (mentre tutti sanno
che è nato banalmente a Mosca)».

Corea del Nord 16 Difficile per un nordcoreano immaginare che possa esistere un altro mondo rispetto a quello costruito dalla dinastia dei Kim: se compra una
radio, la troverà bloccata su un’unica stazione nazionale,
senza il dispositivo per cambiare frequenza. Anche in tv c’è un solo canale, due durante il fine settimana. Trasmettono all’infinito immagini del leader che inaugura fabbriche, visita postazioni militari, incoraggia gli agricoltori. Quando arriva il momento di distrarsi, si vedono immensi cori militari. Cantano inni marziali, accompagnati da un’orchestra, anch’essa di militari, i quali maneggiano con mani callose delicatissimi violini. Alle dieci e mezzo di sera fine delle trasmissioni: bandiera, inno nazionale, poi tutti a dormire.

Corea del Nord 17 «Quando riparto, all’aeroporto i poliziotti mi restituiscono il telefonino che mi avevano confiscato all’arrivo. Misura di cui non si capisce proprio l’utilità: l’apparecchio non avrebbe infatti funzionato, visto che nella Corea del Nord la copertura di campo è
riservata alle “élite” del regime. (Articoli originali sulla Corea del Nord in «La Stampa», 17 marzo 2000, 26 marzo 2000, 17 aprile 2001 e 20 luglio 2005)

Kazakistan 1 «Una notte interminabile durata quarant’anni in cui nella zona di Semipalatinsk si moriva per esperimento, si moriva come cavie ignare. Stalin
desiderava sapere cosa potesse succedere agli uo mini esposti a radiazioni nucleari. Voleva studiarli
mentre morivano fra i dolori più atroci. Una tragedia
e un crimine tenuti sotto silenzio, facendo
impallidire drammi nucleari come Hiroshima o
Chernobyl. Durante quei quarant’anni, in una regione
grande quanto la Francia, ma con soli due milioni
di abitanti, Stalin aveva deciso di creare il più
grande sito di sperimentazione nucleare del mondo.
Vi detonarono più di 456 esplosioni nucleari,
prima nell’atmosfera, e poi, dopo il trattato del
1963 che le proibiva, sottoterra, equivalenti a più
di cinquemila bombe di Hiroshima. Alla guida
del progetto Stalin aveva nominato il famigerato
capo del Kgb Laurenti Beria. Il 29 agosto 1949
Beria assistette, da postazione sicura, alla prima
esplosione di una bomba nucleare al plutonio. Nessuno si preoccupò, nessuno volle sapere nulla
dell’inquinamento, portatore di un carico di
morte superiore a quanto era stato programmato:
durante la notte, un vento inatteso trasportò
letali scorie radioattive addirittura cinquecento
chilometri più lontano del previsto.
I residenti delle zone sotto esperimento venivano
allontanati prima della detonazione e poi riportati
alle loro case pochi giorni dopo, a vivere nelle
radiazioni, proprio per controllare come reagiva
il loro organismo. Morivano? In quanti morivano?
Dopo quanto morivano? Era fondamentale saperlo,
e saperlo con la massima precisione: nel villaggio di
Kainar vennero lasciati nell’esplosione una quarantina
di uomini giovani e forti. Morirono tutti. Così
la potenza della nuova arma era confermata».

Kazakistan 2 «Una commissione d’inchiesta del governo kazako riuscì ad accertare che un milione e seicentomila persone erano state contaminate, sessantasettemila in modo molto grave, provocando la morte di quarantamila. Altri continuano a morire. Stalin diceva e giustificava: “La morte di un uomo è una tragedia, quella di migliaia è un dato statistico”. Le denunce kazake sulle deformazioni genetiche e sui tumori venivano considerate come provocazioni dai governanti di Mosca, i quali cercavano di
far credere che tutto dipendeva da conseguenze
ereditarie dovute alla povertà della dieta kazaka,
e dall’abitudine di bere tè troppo caldo. Alla fine,
non riuscendo a convincere nessuno, proibirono
ai medici kazaki di attribuire alle radiazioni la
causa di qualsiasi malattia. Ma ancora oggi la denuncia
di quelle radiazioni sembra imbarazzare
le autorità. Fatto è che la Russia di Putin non ha
mai reso pubblici i dati su quello che per decenni
è stato uno dei segreti più gelosamente custoditi
dal Cremlino».

Kazakistan 3 «Tutto si è consumato nelle segrete carte dei trentamila scienziati della città di Kurchatov (nome di uno dei padri dell’atomica sovietica) costruita apposta per il progetto. Da lì guidavano gli esperimenti
nucleari sulla zona di Semipalatinsk. Quel
paese forse scelto perché era già un posto desolato,
un piccolo centro per il commercio delle pelli
sperduto ai confini dell’impero russo. Dostoevskij,
venne esiliato lì in una casa povera e fatiscente,
oggi trasformata in museo, posto ideale per scrivere
un dramma come I fratelli Karamazov».

Kazakistan 4 Semipalatinsk la si può di nuovo visitare. Prima invece era stata fatta scomparire dal mondo. Ora ci vanno anche i turisti, mentre i pastori pascolano tranquillamente le greggi in quelle erbe che potrebbero
portare in tavola il contagio radioattivo.

Kazakistan 5 Semipalatinsk ha cambiato nome, oggi si chiama Semey, ma l’impianto di tipo sovietico è rimasto
tale e quale, con gli ampi viali gremiti dalle
palazzine decorate dei funzionari e scienziati
moscoviti addetti all’atomo letale. Sullo spiazzo
antistante l’ospedale, lungo il fiume Irtysh che
traversa la città, hanno composto un curioso cimitero
museale con busti di Marx, Lenin, Bulganin,
Voroshilov. Anche l’ospedale oncologico riporta a
un certo funereo gusto sovietico: la macchina per
radioterapia sembra una sedia elettrica, c’è una
unica apparecchiatura per raggi X del ’69, mentre
una truppa di cinquanta dottori e trecento infermieri
e assistenti non riesce a far fronte, con soli
duecentottanta letti, a un lazzaretto di ventimila
malati l’anno. Vivono il martirio dell’atomo, usato
per la gloria del “socialismo”. Intanto, nel palazzo
a fianco sopravvivono quelli per cui il martirio
è già finito: sono i piccoli cadaveri mostruosi di
bambini con un occhio o due teste conservati sotto
formalina ed esposti nel museo.

Kazakistan 6 Anche il ventre della terra è stato martoriato dall’atomica dei soviet, nella zona delle montagne Degelen, dove c’era il più grande sito di sperimentazione nucleare sotterranea del mondo:
186 gallerie scavate nella roccia. E vi ritroviamo
non solo la terra nuclearizzata, ma anche l’acqua:
il Lago Balapan, il cosiddetto Lago Atomico, creato
nel 1965 da un’esplosione di 130 kilotoni.

Kazakistan 7 La radioattività è ancora superiore al normale ma, per qualche minuto, la si può sopportare:
si può andare al lago a piedi, dopo aver calzato
ghette di plastica che poi dovremo buttare via “per
non riportare in città polvere contaminata”.

Kazakistan 8 Almaty (capitale del Kazakistan). «Il messaggio non avrebbe potuto essere più evidente, anche senza quel foglio di carta puntato con un cacciavite sulla testa del cane, trovato morto e decapitato, sotto a una finestra della sede del suo giornale: “Non ci sarà un’altra volta” recitava il messaggio a lettere maiuscole. L’avvertimento era ancora più minaccioso di quello che Irina Petrushova aveva ricevuto qualche giorno prima: una corona funebre con il suo nome stampato su un nastro rosa. La sua colpa? Quella di dirigere Respublika, un settimanale
d’opposizione che aveva lanciato una campagna
contro la corruzione del regime di Nursultan Nazarbayev, dittatore del Kazakistan, raccontando dei
miliardi di dollari, depositati da compagnie petrolifere
americane su un suo conto in Svizzera. L’illecito
era stato confermato dal Dipartimento di Giustizia
americano e dalla magistratura elvetica che
aveva richiesto e ottenuto il congelamento di quei
conti. Il dittatore rispose sostenendo con arroganza
che quei soldi non erano stati nascosti, ma messi
da parte “per il bene della nazione”. Quella stessa sera, tornando nella sua casa di Almaty, la geometrica ex capitale distesa sotto l’imponente catena Tien Shan che separa l’Asia centrale dalla Cina, Irina trovò la testa del cane nel cortile del suo giornale. Poche settimane dopo
la sede del quotidiano venne distrutta da un
incendio doloso, e Respublika non uscì più. La
Petrushova, rifugiatasi in Russia, continuò a farla
uscire via internet».

Kazakistan 9 Nursultan Nazarbayev, dittatore del Kazakistan, è considerato l’ottavo uomo più
ricco del mondo.

Kazakistan 10 La figlia di Nazarbayev, Dariga,
è direttore di Tv e Radio statali e insieme al
marito è proprietaria di quasi tutti gli altri mezzi
di comunicazione elettronica e di alcuni giornali.
L’accesso a internet è controllato dalla compagnia
statale di telecomunicazioni. La divisione
dei poteri, garanzia delle democrazie occidentali,
qui viene risolta piuttosto sbrigativamente: governatori,
giudici, capi delle amministrazioni locali
sono nominati dal presidente. Non c’è più una
Corte Costituzionale: il presidente l’ha soppressa
perché gli avrebbe impedito di riscrivere la Costituzione
e prolungare all’infinito i privilegi che il Parlamento gli ha riconosciuto.

Kazakistan 11 Il Paese ha quindici milioni di abitanti. (Articolo originale su «La Stampa», 2 febbraio e 4 febbraio 2003).

Bhutan 1 In Bhutan non c’è più il Pil, cioè il Prodotto Interno Lordo, «il freddo e severo strumento che misura le nostre economie, e continua a segnalarci che siamo sempre meno ricchi di una volta. C’è invece il Fil: la
Felicità Interna Lorda. Avete capito? Sì, avete capito
bene! Il Fil misura la crescita spirituale perché,
come sostengono gli economisti del luogo, solo da
quella può nascere anche il benessere materiale.
Ecco cosa mi dice Jigme Thinley, primo ministro
del Bhutan, uno che, per fisico e accento, non
si troverebbe a disagio nella Camera dei Lords a
Londra. “Lo sviluppo deve avere un obiettivo, non
può essere fine a se stesso, l’uomo va rimesso al
centro della nostra attenzione”, spiega Thinley.
E assicura: “L’autunno scorso ero all’Assemblea
dell’Onu e tutti parlavano della crisi economica.
Io nel mio discorso, illustrando il Fil, ho detto che
tutti questi problemi finanziari, ecologici, alimentari,
dipendono da noi, ce li siamo difatti creati noi
con la nostra continua ricerca della crescita, con il consumo senza etica, il desiderio di possedere cose
di cui non abbiamo bisogno. Molti leader mondiali
si sono detti d’accordo con me”».

Bhutan 2 In tutto il Bhutan non c’e un semaforo.
Hanno provato a installarne uno all’incrocio
principale della capitale Thimphu, ma la gente si
è ribellata: troppo brutto e anche inutile. Dopo
qualche settimana l’hanno tolto. Non troverete
neppure un tabaccaio. È vietato vendere sigarette
anche se è permesso fumare. Il riso c’è ed è abbondante,
ma non è bianco, è rosso come le utopie
ugualitarie dell’umanità. Non c’è un binario,
un treno, e nemmeno un McDonald’s. È il Paese
che ha la più stravagante ed esotica produzione di
francobolli: al profumo di rosa, a tre dimensioni,
in bassorilievo, di metallo, di seta, di plastica. Fino
a quarant’anni fa, la vendita ai collezionisti di queste
singolari emissioni costituiva la maggior fonte
di entrata per le casse del Paese.

Bhutan 3 Il primo quotidiano è apparso quattro mesi fa,
in una nazione che, ultima al mondo, ha legalizzato
televisione e internet meno di dieci anni fa,
bandendo subito dopo i programmi violenti, come
quelli di botte e lotta libera. Il motivo: pericolose
e nocive influenze sulla gioventù.

Bhutan 4 I visitatori stranieri, che fino a trent’anni fa non erano ammessi, oggi devono pagare 250 euro al
giorno: il Paese più caro al mondo. Il ministro delle
Finanze Lyonpo Wangdi Norbu spiega: «Vogliamo
scoraggiare i campeggiatori e tutti quei turisti
che inquinerebbero il nostro ambiente». Li scoraggia
anche l’aeroporto, riconosciuto come il più pericoloso
del mondo. Nessuna compagnia straniera
si sogna di atterrarci. Solo la Daikur, la compagnia
aerea nazionale, ha due airbus che decollano da
Calcutta e osano sfidare il labirinto di valli, sfiorando
i monti e atterrando in acrobazia fra “esse” e
raddrizzamenti in quell’unica striscia di terreno
piatto che è l’aeroporto di Paro.

Bhutan 5 I bhutanesi sono uniformati al costume tradizionale imposto dal re negli uffici, nei templi, nelle scuole e in tutte le cerimonie ufficiali. Per gli uomini è il
“gho”, che ricorda per il taglio fino alle ginocchia
e per la stoffa i kilt scozzesi, per le donne è la “kira”,
che arriva fino ai piedi. Gli strati più alti della
società portano anche uno scialle il cui colore distingue
il rango di appartenenza.

Bhutan I bhutanesi sono settecentomila.

Bhutan 6 il Bhutan è un Paese povero. Infatti, al di là degli aiuti internazionali, per sussistere il Paese della Felicità Interna Lorda deve dipendere essenzialmente dall’India, primo acquirente della sua principale risorsa, l’energia elettrica (43 per cento dell’export), ottenuta grazie alle abbondanti acque dell’Himalaya.

Bhutan 7 Il nuovo re, Jigme Khesar Namgyel Wangchuck, incoronato nel novembre 2008. Ventotto anni, educato a Oxford, fisico da attore di Hollywood, egli è il più giovane sovrano del mondo. (Articolo originale su «La Stampa», 25 marzo 2009)

Agnelli 1 «Agnelli era attratto dalla spregiudicatezza
e dall’arroganza di Cesare Romiti e lo trovava
anche spiritoso. Mi raccontò di una riunione
preparatoria in vista di una trattativa che si doveva
svolgere in Sud America. Francesco Paolo Mattioli
illustra il caso ai dirigenti Fiat e spiega: “Ci sono
tre modi per affrontare questo negoziato. Il primo
è ammettere la verità…”. Subito Romiti lo interrompe:
“Mattioli, non diciamo sciocchezze”».

Agnelli 2 La sua casa in collina a Torino era anche il luogo in cui trascorreva più tempo con i suoi cani, che
tanto amava. Quando uno di essi si ferì in un incidente,
andò due o tre volte in Svizzera a trovarlo in ospedale. A tavola sovente i cani stavano attorno agli ospiti e lui li nutriva con la stessa posata con cui mangiava.

Agnelli 3 Guidava bene, veloce e spericolato, ma al volante si comportava come un tipico italiano, scaricando sempre sull’altro la colpa anche quando era palesemente sua. Spesso ho visto automobilisti adirati scagliarsi contro di lui verbalmente perché aveva tagliato loro la strada o altro, per poi placarsi in un ampio sorriso dopo averlo riconosciuto.

Agnelli 4 A Torino aveva pochissimi amici, e quei pochi
erano legati a lui da vincoli di lavoro o di parentela.
Detestava mangiare da solo e più ancora essere
solo nei momenti di divertimento o di vacanza.

Agnelli 5 Con la scrittura un rapporto di disagio e imbarazzo totale, «faceva fatica a scrivere credo perché dai tempi di scuola non aveva più usato la mano per farlo (tanto meno sapeva cosa fosse un computer) e la sua calligrafia, che ho visto rarissime volte, era strana e non facilmente comprensibile. Anche se leggeva o scorreva molti libri, non usava mai una matita per sottolineare, come fanno i lettori più attenti, i passi più importanti da ricordare. Insomma, aveva un’allergia a tenere in mano qualsiasi cosa che servisse a scrivere, a lasciare una traccia».

Agnelli 6 «Credo che sia uno dei pochissimi protagonisti della sua generazione che non abbia lasciato nulla di scritto, o a mano o a macchina, non una pagina di diario, non un discorso, non un appunto personale, non una lettera a qualche amico o a qualche donna amata».

Agnelli 7 «Se avessi potuto scegliere non avrei certo investito a Torino, in Italia, e certo non nell’auto» (Gianni Agnelli)

Agnelli 8 «Certo era tentato dal vendere o esportare la Fiat, ma non l’avrebbe mai fatto per il rispetto che nutriva verso il suo Paese e anche per l’attenzione che dedicava alla propria immagine che sarebbe uscita drammaticamente incrinata da un’operazione del genere».

Agnelli 9 «Non mi disse mai come avrebbe voluto che
fosse il suo funerale, però sulla cerimonia in sé
amava scherzare, definendola la preferita dai mondani,
perché l’unica a cui potevano partecipare
anche senza essere invitati: non si può non fare entrare
qualcuno in chiesa».