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 2015  luglio 18 Sabato calendario

IL RIGORE A SENSO UNICO

Nelle discussioni sul debito di Atene è tornato a farsi strada il mito del rigore dei politici tedeschi. Inflessibili, irremovibili, severi. Si ritorna a parlare di spiriti guidati da una morale kantiana, con una legge interiore, rispetto alla quale non sono disposti a fare passi indietro. Rinunciano a tutto, ma non a un principio.
Ora, può anche essere che l’indole tedesca sia in parte diversa da quella di altri Paesi. Ma se si abbandonano le analisi sociologiche, e ci si limita a guardare i fatti, i governanti tedeschi non sembrano mossi soltanto dall’idea di bene e di giusto, anzi. Il vero principio guida è l’interesse particolare nazionale: a ben vedere, più Machiavelli che Kant. Se necessario, i tedeschi sono ben disposti a mettere da parte i principi. A patto che sia conveniente. In altre occasioni l’adesione alle regole è rimasta immutata, ma soltanto perché nel frattempo sono state cambiate le norme, a proprio vantaggio. A Berlino, insomma, i politici si comportano più o meno come negli altri Paesi. Ecco alcuni esempi nei quali il rigore è stato applicato con forza nei confronti degli altri, e invece messo in secondo piano nei confronti di se stessi.

1) Debito dei Paesi. Si ricorda spesso che in tedesco la parola «schuld» significa debito e colpa. Chi ha un debito ha una colpa e deve espiarla. Ogni centesimo prestato deve essere restituito.
Nessuna svalutazione è possibile. Questa è stata la linea adottata negli ultimi anni dalla Germania con la Grecia, anche a fronte della convinzione che ormai il debito di Atene sia insostenibile. È anche una questione di azzardo morale: se sgarra uno, potrebbero sgarrare anche altri. Perciò, meglio che non sgarri nessuno. Sia chiaro, non si vuole qui dire se sia una pretesa giusta o sbagliata. Il punto è che quando la Germania si è trovata dall’altra parte, dal lato dei debitori, non ha esitato ad accettare la riduzione dei rimborsi previsti, comportandosi in modi opposti a quelli oggi rivendicati (vedere articolo a pagina 11). L’economista Thomas Piketty ha ricordato in più occasioni il mancato pagamento dei debiti accumulati dalla Germania dopo la prima e la seconda guerra mondiale. Forse allora «schuld» non significava insieme «debito» e «colpa»? «La Germania è l’esempio principe di un Paese che nella sua storia non ha mai pagato i debiti pubblici», ha scritto in modo più esplicito Piketty. Senza quei tagli la Germania avrebbe faticato a ritornare una potenza economica in Europa e probabilmente si ritroverebbe ancora oggi con denaro da restituire.

2) Patto di Stabilità, Fiscal compact e vincoli di bilancio. Qual è il Paese che più di ogni altro è convinto che i patti debbano essere rispettati? La Germania, risponderebbero tutti senza esitazioni. Ma anche questo sarebbe un errore, dovuto alla memoria corta. Per capirlo non c’è bisogno di tornare agli anni Cinquanta e Sessanta. Basta ripensare ai primi anni del Duemila, quando la Germania era il malato d’Europa e in difficoltà con i limiti fissati dal Patto di Stabilità (oggi appare difficile crederlo, ma era proprio così). Nel 2003 la Commissione Ue ha chiesto a Berlino di ridurre il deficit eccessivo. L’anno successivo, quando la Germania era ancora fuori dai parametri, Bruxelles ha proposto al Consiglio Ue un’intimazione ufficiale, il passo che precede la sanzione. Come si è comportata allora la Germania? È ritornata all’interno dei vincoli con misure di austerità? Niente affatto. Ha scelto una strada più semplice: ha chiesto e ottenuto una sospensione delle regole (assieme alla Francia) e poi le ha cambiate del tutto, riformando nel 2005 il Patto di Stabilità. «È un’ottima giornata per la Germania, per l’Europa e per lo sviluppo economico», commentò il cancelliere Gerhard Schroeder dopo il via libera all’indebolimento del Patto il 21 marzo 2005. La Germania in quegli anni era il più accanito oppositore del rigore: con la flessibilità ottenuta, Berlino ha avuto il tempo e il denaro per rimettere in sesto l’economia. Quella lezione, a distanza di dieci anni, è stata totalmente dimenticata: sia dai Paesi del Nord che da quelli del Sud Europa.

3) Grexit e uscita dall’Eurozona. Ogni unione monetaria si fonda su un principio: qualsiasi cosa accada, nessun Paese deve poter uscire. Gli squilibri devono essere risolti all’interno dell’area. Altrimenti l’unione monetaria si rivela un disastro: ha tutti i punti di debolezza delle singole monete, ma senza avere i punti di forza di una moneta comune. In poche parole, diventa soltanto un danno per le economie degli Stati. Perciò, neppure nei momenti più difficili della crisi del debito sovrano, le autorità politiche ed economiche dell’Eurozona hanno considerato l’ipotesi dell’uscita di un Paese dall’Eurozona. La cautela di anni è stata spazzata via in un sol colpo da Wolfgang Schaeuble, che ha proposto, nell’incredulità generale, addirittura un’uscita temporanea (cinque anni) della Grecia. È caduto un tabù e le conseguenze sono pericolose: d’ora in poi un’analoga proposta potrà essere fatta anche per altri Paesi che si ritrovassero nella stessa situazione della Grecia. Per Schaeuble, Atene ha bisogno di un taglio del debito, ma non è disposto a concederlo dentro l’euro: di conseguenza chiede che Atene affronti il problema da sola, uscendo dalla valuta comune. Per la Germania ci sarebbero innegabili vantaggi di breve termine, come un nuovo ribasso dei Bund per il flight-to-quality. Rigore su tutte le regole quindi, eccetto su quella più importante: d’ora in poi tutti potranno considerare l’euro come un club con porte girevoli. Giustamente la Germania chiede fiducia agli altri Paesi. Ma come si potrà aver fiducia delle intenzioni della Germania nella prossima crisi finanziaria? «Abbiamo imparato che far parte della zona euro significa che se sgarri i creditori possono annientare la tua economia», ha scritto Paul Krugman nei giorni scorsi.

4) Debito delle banche e dei privati. Quando la crisi della Grecia è esplosa nel 2010, i titoli ellenici erano in buona parte detenuti da banche tedesche e francesi. Già allora molti erano convinti dell’insostenibilità del debito, che avrebbe richiesto una svalutazione da parte dei creditori. Tuttavia vigeva allora il principio che nessun Paese dell’Eurozona poteva dichiarare default verso privati. Perciò è stato varato il primo piano di aiuti nel maggio 2010. Di fatto il debito delle banche tedesche e francesi è passato alle istituzioni e ai Paesi europei. Soltanto in seguito, dopo una passeggiata sul lungomare di Deauville nell’ottobre 2010, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy hanno aperto le porte al coinvolgimento dei privati nelle perdite in caso di crisi sovrane: ma questo è avvenuto soltanto dopo che i rischi maggiori per le banche nazionali erano stati superati, grazie al piano di aiuti. Peraltro le dichiarazioni di Deauville hanno avuto un altro effetto che non è certo dispiaciuto a Berlino: la volatilità è subito aumentata nei mercati obbligazionari nei Paesi della periferia (Irlanda e Portogallo dopo poche settimane hanno perso l’accesso al mercato e in seguito la crisi è arrivata a Spagna e Italia), mentre i tassi dei Bund tedeschi sono precipitati, facendo risparmiare alle casse tedesche miliardi di euro. Secondo i dati Macropolis, il settore bancario tedesco ha ridotto l’esposizione verso la Grecia dell’80% tra la metà del 2010 e la metà del 2012, quando poi si è dovuto svalutare il debito dei privati (il taglio si è rivelato insufficiente per la Grecia, proprio perché ormai il debito non era più nelle mani dei privati, ma degli Stati, del Fmi e della Bce). Insomma, il rigore c’è stato, ma non nei confronti delle banche tedesche, che prima della crisi avevano investito in grandi quantità in Grecia, attirate dai maggiori rendimenti. Ora il fardello del debito è sulle spalle di Paesi, tra cui l’Italia, le cui banche hanno sempre avuto una bassa esposizione alla Grecia. Una politica davvero rigorista avrebbe fatto pagare il conto anche agli istituti tedeschi: del resto i creditori sono colpevoli come i debitori per i troppi prestiti erogati.

5) Surplus. Un concetto diventato a tutti chiaro è che un rapporto deficit/pil troppo elevato può creare problemi agli Stati. Non c’è ancora simile consapevolezza nell’opinione pubblica che il surplus delle esportazioni rispetto alle importazioni è altrettanto dannoso in un’unione monetaria. Se ci fosse il marco, la moneta tedesca si rivaluterebbe, correggendo così lo squilibrio con gli altri Paesi. Ma con l’euro questo non avviene. Il problema è che le esportazioni tedesche restano di gran lunga superiori alle importazioni: la Germania vende più di quanto acquista, e questo è un grave problema per gli altri Stati dell’area. I tedeschi si difendono dicendo che non possono peggiorare la competitività e ridurre le esportazioni. Il problema, però, è dal lato delle importazioni: le politiche tedesche sono poco orientate ai consumi interni. Se questi ultimi aumentassero, i benefici si sentirebbero anche negli altri Paesi (basti pensare alle imprese italiane che vendono in Germania). Anche in questo ambito il rigore tedesco è applicato in modo contraddittorio. Innanzitutto, le regole sul surplus sono state disegnate in modo più blando rispetto a quelle sui deficit, andando contro le indicazioni degli economisti. Inoltre, la Germania è sfuggita ai richiami della Commissione Ue, che impongono una riduzione del surplus sotto il 6% del pil. Da anni, ormai, la Germania viaggia attorno al 7%, creando rilevanti problemi agli altri Paesi, che sono costretti a recuperare competitività con tagli dei salari e dei prezzi, con effetto deflazionistico sull’economia. E questo aspetto ci porta a un altro problema.

6) Inflazione e Bce. La Bce è un’istituzione indipendente, ma inevitabilmente risente delle visioni dei diversi Paesi, rappresentati dai banchieri centrali nazionali. L’azionista di maggioranza è la Bundesbank. Si potrebbero fare molti esempi di come questa abbia influenzato (anche solo rallentando) le politiche Bce. Per esempio, Weidmann si è opposto fino all’ultimo alla creazione di uno scudo contro i timori del mercato per una spaccatura dell’Eurozona. Si è arrivati al «whatever it takes» e al piano Omt solo nell’estate 2012, quando ormai era chiara da molti mesi la necessità di una protezione. Alla decisione si è arrivati solo dopo le maggiori garanzie di bilancio degli Stati e solo quando gli effetti della crisi iniziavano a lambire anche la Germania.

Qualcosa di simile è accaduto nel principale campo d’azione della Bce: l’inflazione. Come noto, il mandato dell’Eurotower è univoco: l’unico obiettivo è tenere la crescita dei prezzi sotto ma vicino al 2%. Ebbene, da gennaio 2013 l’inflazione non ha fatto che restare sotto il 2%; da ottobre 2013 è scesa sotto l’1%; da fine 2014 è diventata addirittura negativa. Questi sono i dati medi dell’Eurozona: i valori per molti Paesi (come l’Italia) erano peggiori, nonostante le misure Bce. Era ormai evidente da tempo che sarebbe servito un Quantitative easing come quello varato anni prima dalla Fed per evitare la deflazione (l’obiettivo del 2% era ed è tuttora lontano). Anche il Qe è stato lanciato quando il problema ha toccato direttamente la Germania: l’inflazione tedesca era sotto l’1% e viaggiava verso lo 0%. Quindi soltanto a inizio 2015 la Bce ha potuto avviare il Qe, quando ormai la Germania era rimasta isolata. Weidmann ha continuato a votare no fino all’ultimo (come già accaduto per l’Omt), optando quindi per un approccio per nulla «rigoroso» del mandato Bce.

7) Unione bancaria e aiuti di Stato. La Germania ha condizionato fin dall’inizio il disegno dell’Unione bancaria, evitando che il raggio d’azione dei regolatori si potesse estendere nelle zone più oscure del sistema tedesco. Ma anche in seguito l’impostazione della vigilanza è stata a forte trazione tedesca. Lo si è visto nell’asset quality review e negli stress test: massimo rigore nelle esposizioni creditizie (43 miliardi di svalutazioni nell’Aqr), nessun rigore su derivati e titoli illiquidi (4,6 miliardi di svalutazioni). Inoltre gli esami sono stati condizionati dalla forte disomogeneità nelle ponderazioni del rischio, che avvantaggiano le banche d’investimento. Poi, per valutare i risultati dell’esame e non solo, vanno considerati gli aiuti di Stato. Le banche italiane hanno ricevuto 4 miliardi di aiuti pubblici (già rimborsati, con guadagno per lo Stato) contro i 250 miliardi in Germania. Le regole Ue sugli aiuti di Stato sono diventate più severe nel 2013, in seguito alle ricapitalizzazioni tedesche: oggi proprio Berlino chiede un’applicazione rigorosa delle norme, ma solo dopo essere stato il Paese che più ne ha beneficiato.

Quale Europa? In questi anni la Germania non ha esitato ad aumentare e diminuire il livello del rigore, come il volume di una radio, a seconda della convenienza. Non c’è nulla di illegittimo in questo. Tutti i Paesi in Europa badano innanzitutto al proprio interesse, e la Germania è il Paese che è riuscito a sfruttare questo meccanismo meglio di ogni altro. Gli altri Paesi dovrebbero insistere più spesso a chiedere l’applicazione delle regole, come la Germania fa con loro. La gestione della crisi greca ha tuttavia sollevato forti perplessità sul futuro dell’Eurozona. La Germania respinge per motivi storici l’idea di leadership: ma senza una guida europeista, che sappia guardare al bene di tutti e non solo al proprio, sarà difficile proseguire nell’Unione monetaria senza incappare in nuove crisi.