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 2015  luglio 16 Giovedì calendario

L’OSCAR ALLA SIGNORA DELLA CHIMICA


[Lucia Banci]

Lucia Banci andrà in Corea ad agosto a ritirare l’oscar per la Chimica. In Corea del Sud dove il Pil è molto alto e non a caso. «In Cina e in Corea si investe sulla scienza e il risultato è una crescita del Paese» dice la premiata, classe 1954, professore ordinario di Chimica a Firenze. Lucia Banci e Roberta Sessoli sono le prime scienziate italiane insignite del premio prestigioso. «L’ho saputo il primo maggio, per posta elettronica, stavo lavorando e ho scaricato le mail, è un riconoscimento bellissimo». A fine giugno è arrivato a cascata il Fiorino d’Oro della città di Firenze. Il premio conferito dallo IUPAC (che sta per International Union of Pure and Applied Chemistry) viene assimilato alla statuetta d’oro che siamo abituati a vedere nelle mani delle star del cinema. A differenza di quello cinematografico però, che ha una notevole eco mediatica, l’oscar per la Chimica non viene dato per un ruolo o, una regia precisa, ma per l’attività globale nel campo della ricerca, nonché per essere diventati un punto di riferimento all’interno della comunità e per avere escogitato nuove metodiche. Insomma è un oscar alla carriera che viene dato alle donne che si distinguono nella Chimica nel mezzo del cammin di nostra vita. Occorre dunque spiegare la cornice entro cui si muove il lavoro di Lucia Banci. Lo facciamo insieme a lei facendo una premessa: nel mondo della scienza in genere non c’è il genio isolato che illuminato non si sa bene da cosa un bel giorno scopre l’elisir di lunga vita. «Facciamo un esempio, trenta anni fa chi si ammalava di cancro, tranne poche eccezioni, aveva dinanzi a se’ una vita breve. Oggi in tanti casi si guarisce. Qualcuno ha scoperto la cura definitiva? No. Ma diversi gruppi in tutto il mondo hanno messo appunto protocolli e conseguito risultati. L’avanzamento delle conoscenze avviene grazie ai risultati precedenti. Da soli nella scienza non si va da nessuna parte. Uno scienziato isolato può essere intelligente quanto gli pare ma non può fare nulla, insieme agli altri può dare un contributo significativo» chiarisce la docente.
Il lavoro di Lucia Banci legato alle scienze della vita, che si avvale dei sistemi matematici, ha a che fare con i metalli presenti nel nostro organismo. «Prendiamo il ferro, tutti sappiamo che l’emoglobina lo contiene. Nel nostro corpo ce ne sono altri, ad esempio il rame, lo zinco, il cobalto. Tali metalli devono esserci entro una certa misura: né poco, né molto. Ma non basta. Questi metalli che chiamiamo ioni metalli sono importanti per far funzionare le proteine. Il 30 per cento delle proteine ha bisogno degli ioni metalli per fare quello che deve fare. Io ho cercato di capire come sono legate le proteine e gli ioni. Quando questi legami sono alterati il corpo si ammala oppure non si nasce. Dire “ho tanto ferro” “ho poco ferro” non vuol dire nulla. Ciò che è importante è l’interazione con la proteina. Ci sono malattie causate da un eccesso di rame i cui effetti si cominciano a vedere a 30 o 40 anni, ad esempio la malattia di Wilson». Si tratta di una malattia che si manifesta con disturbi al fegato a causa dell’accumulo di rame e che a volte può essere curata con un trapianto. Ancora: «Quando il feto è nel corpo della madre non ha bisogno di respirare, inizia a respirare quando nasce, quando si passa dalla circolazione sanguigna alla respirazione autonoma. Se qualcosa va storto nel legame tra i metalli e le proteine il neonato non respira. Nel nostro organismo ci sono dei processi ben precisi che non devono essere alterati. Noi siamo molto complicati. Spesso mi stupisco e dico: come facciamo a funzionare?».

Lucia Banci dirige il CERM (Centro di Ricerca di Risonanze Magnetiche) e utilizza la risonanza magnetica nucleare per carpire i misteri delle cellule. «Una delle cose che sto sviluppando è utilizzare la risonanza magnetica su campioni di cellule viventi, in questo modo posso studiare una proteina umana e vedere il singolo atomo e ottenere informazioni importantissime. Ogni molecola di materia vivente ha migliaia di atomi, se ne colgo i segnali posso individuare la struttura della molecola. Questo metodo lo abbiamo applicato a malattie neurologiche che presentano aggregazioni di proteine, ad esempio il Parkinson. E abbiamo studiato le proteine legate alla Sla (malattia degenerativa che compromette pesantemente la qualità del la vita e la sopravvivenza, ndr)». Non è tutto, tra i passi avanti che Lucia Banci sta facendo compiere alla ricerca ci sono le innovazioni nel campo dei vaccini. L’obiettivo di tale impegno è trovare vaccini universali contro tutti i ceppi esistenti di un dato patogeno. «Prima il vaccino veniva fatto prendendo un virus o un batterio “indebolito” e introducendolo nell’organismo, in questo modo l’organismo produceva gli anticorpi buoni a fronteggiate il contagio di virus o batterio attivo. Rino Rappuoli, responsabile mondiale del gruppo farmaceutico “Novartis vaccines”, ha cercato di capire quali sono le proteine che si trovano sulla superficie del batterio e di andare a vedere quali fossero quelle capaci di far produrre gli anticorpi nell’organismo, potento così sviluppare vaccini efficaci. Mia figlia ha preso la pertosse, mio figlio, 4 anni di meno, ha potuto fare il vaccino nel frattempo sviluppato con questo nuovo metodo che non comporta rischi e non si è ammalato».
È qui che Lucia Banci stringe un rapporto con le industrie. «Io ho affrontato il problema della meningite B, che ha ceppi diversi in Italia o negli Usa o in Australia. A seconda dei vari ceppi, c’era un vaccino, ma mancava quello universale. Abbiamo avviato una collaborazione con Rappuoli, tra industria e ricerca, tra Novartis e CERM, e insieme abbiamo fatto molte pubblicazioni: abbiamo caratterizzato la proteina, studiato la interazione con gli anticorpi, capito che una proteina legava gli anticorpi, e siamo riusciti a individuare il modo per fare il vaccino universale». Tale collaborazione ha aperto grandi prospettive, lasciando sperare nella scoperta di vaccini per malattie per le quali non esiste ancora una precisa strategia, dalla malaria all’Hiv. I risultati del sodalizio tra Novartis e CERM sono stati pubblicati tra l’altro nel 2011 nella rivista internazionale Science Translational Medicine rimbalzando nelle pagine scientifiche dei nostri quotidiani.
Di fronte a tali esiti la domanda è d’obbligo: una scienziata ha più difficoltà di uno scienziato? Il sessismo c’è anche tra i cervelloni o si ferma sulla soglia del mondo della ricerca? «Dipende dagli ambienti, ce ne sono di più pesanti, dove le discriminazioni sono dirette, ce ne sono altri dove sono sottili». Un esempio? «Pretendere la disponibilità completa dei tempi, se non la dai frana il rapporto di fiducia». Gli ostacoli non sono solo esterni. «Un problema delle donne nella ricerca è la sicurezza in se stesse, quella che con dicitura inglese si definisce self confidence. Per essere innovativi occorre intraprendere una sfida con il mondo lavorando troppo spesso in condizioni drammatiche, almeno in Italia. È necessario dunque essere molto motivati».
E qual è stata la motivazione di Lucia Banci? «Mi è sempre piaciuto fare ricerca, non mi piace fare le cose ripetitive, in vacanza non amo stare sempre nello stesso posto. Sono un tipo così, cambiare e innovare per me è tutto». In Italia gli ostacoli non sono pochi. «La battaglia è con il resto del mondo, con i cinesi ad esempio, o con i coreani. La strategia di questi paesi è mirata, per loro è chiaro che la ricerca aiuta il progresso e il benessere sociale. I cinesi investono in campo biotecnologico, sono i maggiori produttori di brevetti, hanno superato gli Stati Uniti, costruiscono centri di ricerca, investono sul personale, i loro centri hanno lasciato stupefatti professori di Oxford e di Zurigo. Hanno fatto rientrare cinesi già diventati docenti in Usa, mettendo a disposizione staff e laboratori di altissimo livello. Insomma per loro chi lavora deve essere facilitato. Risultato: i paesi che investono in ricerca sono quelli con il pil più alto”. In Italia? «Noi combattiamo sempre con la burocrazia. Il nostro problema non è la fuga dei cervelli, ma la mancanza di attrattiva. Se chiamiamo un ricercatore dall’estero e gli diamo anche un posto di ordinario ma poi non gli mettiamo a disposizione centri di ricerca e personale, il docente non viene. Scarta l’Italia e va altrove, in Inghilterra, in Brasile, in Cina».
La speranza allora è nei nostri giovani. Ma la scienza piace? «In Italia la scienza è vista come una cosa da addetti ai lavori. La ricerca invece è fondamentale per qualunque tipo di applicazione, per la medicina prima di tutto. Ai ragazzi le scienze non piacciono anche perché sono insegnate poco e male. Pensiamo alla avversione per la matematica. Come in tutto ci vogliono insegnanti che trasmettano passione, ma anche programmi che sviluppino i collegamenti tra chimica, biologia, fisica, matematica. E poi occorre dare agli studenti la possibilità di frequentare già da giovanissimi i laboratori». Tra scienza e giovani deve scattare una attrazione fatale. «Mio figlio ha visitato un dipartimento di robotica a Siena. È tornato entusiasta. Ai ragazzi devi fare brillare gli occhi».