Emanuele Trevi, Sette 17/7/2015, 17 luglio 2015
OGGI ALLA LETTERATURA HANNO RUBATO IL SENSO DEL TEMPO
Michael Krüger è l’autorevole rappresentante di un’élite di ottimi editori europei, e come se non bastasse, anche uno scrittore in proprio. È quello che si definisce, insomma, una «persona informata sui fatti». Vale dunque la pena meditare il suo segnale di disagio, quando si chiede che senso possa avere pubblicare libri di letteratura in un «mondo non letterario». E forse conviene iniziare con il chiedersi cosa possa significare, questa interessante definizione di «mondo non letterario», alla luce della propria esperienza personale. Ebbene, devo confessare che, dal punto di vista di chi i libri li scrive, l’idea di agire in un mondo «non letterario» non è semplicemente e rigidamente negativa. Più il mondo è ostile e indifferente, più il nostro carattere si fortifica, e tiene viva quella fiammella di insoddisfazione senza cui non è possibile fare qualcosa di buono. Non si dovrebbe sprecare nemmeno un secondo della vita a cercare il consenso e il riconoscimento degli altri. Ed è un vero artista solo chi (come disse una volta David Foster Wallace) arriva ad amare così intensamente da fregarsene del desiderio di essere amato.
Da un punto di vista puramente idealistico, allora, viva il mondo «non letterario», che trasforma ogni gesto autenticamente artistico in un’anomalia, un controsenso, un sabotaggio del senso comune. Va anche osservato, però, che i punti di vista puramente idealistici sono, quasi sempre, la prerogativa degli idioti. Perché non c’è nulla, nella vita umana, che assomigli davvero a un ideale, che non sia macchiato dal fango della contraddizione e dell’incertezza. In uno dei suoi frammenti più geniali Kafka scrive che non è esatto dire che noi ci smarriamo nel mondo, perché il mondo, in sé, è il nostro stesso smarrimento. E dunque come potremmo, illusi di abitare un inesistente piano alto dello spirito, disprezzare le preoccupazioni dei nostri editori? Come contribuire con idee utili e concrete a un disagio che non è solo un problema di bilanci, ma investe tutte le articolazioni del nostro lavoro?
Talento umano. Pensiamoci bene continuando a interpretare la formula di Krüger. Ebbene, cos’è che ha reso «non letterario» il mondo in cui si pubblicano i libri? Un’improvvisa decadenza universale del talento umano per la scrittura? Ne dubito. Sono convinto che ogni epoca produca forme di grandezza letterarie degne del confronto con il passato. Ieri c’era Flannery O’ Connor, oggi c’è Alice Munro, tanto per fare un esempio tra mille. E se c’è Alice Munro, significa che, dall’altra parte del foglio, è sopravvissuto un notevole talento collettivo per la lettura. Ciò accade perché gli individui, certi individui soprattutto, sono del tutto immuni dallo spirito del proprio tempo, e dalle diagnosi che esso suggerisce. Dunque il problema deve per forza risiedere altrove: non nelle cose in sé, tanto per essere chiari, ma nella condizione in cui le cose si mostrano e si rendono apprezzabili. La mia idea in proposito è che la letteratura, in questo momento storico, è stata derubata del suo principale strumento di efficacia: la durata delle opere. Se fosse un farmaco, un grande libro andrebbe sempre classificato tra quelli che rilasciano in maniera lenta e prolungata il loro principio attivo. Quando si dice che la letteratura è fatta di tempo, non si ripete una formula fumosa che in definitiva non significa nulla. È nel tempo che le opere cercano i loro lettori, e sembra quasi che più siano opere importanti, più questa caccia è lunga ed incerta. Sono proverbiali i settant’anni che ci vollero a Moby Dick per diventare uno dei grandi libri dell’umanità, al termine di un tunnel di dimenticanza che poteva diventare eterno. Ma facciamo un esempio ancora più vicino alla nostra esperienza diretta: l’esplosione “a scoppio ritardato” di due capolavori assoluti dell’arte narrativa come Revolutionary Road di Richard Yates e Stoner di John Williams. Libri di cui per quarant’anni hanno conservato la memoria poche decine di persone. Se raccontiamo questa vicenda come il semplice frutto di casi fortuiti, non ne abbiamo capito nulla. La verità è che quei capolavori non erano fatti per i lettori del loro tempo, bensì per noi. E il fatto che non siano stati scritti oggi non ha nessun significato, perché sono le più importanti novità del nostro tempo. Sono questi gli argomenti che inducono a pensare che non tutto è perduto, che forse il mondo è ancora abbastanza «letterario» da consentire tali miracoli. Ma in tutti i settori del nostro lavoro, dobbiamo guarire dal contagio paralizzante della cosiddetta «attualità». Il marketing editoriale ha delle grosse responsabilità, certamente, perché è come un mostro mitologico che divora i suoi figli dopo quattro settimane in libreria, sostituendoli continuamente con altri destinati alla stessa fine. E quando nei giornali si ritiene che non si possa fare più la recensione di un libro uscito qualche mese prima, perché ormai è «vecchio», non si fa che riprodurre una logica malata e suicida. Ma l’aspetto più inquietante di tutta questa vicenda è forse il fatto che anche gli scrittori, che sono persone suggestionabili come tutte le altre, se non di più, sempre di più sembrano avere interiorizzato l’illusione di una rapida e fatale deperibilità di quello che scrivono. Si sentono costretti a mungere più che possono la vacca del presente, e se una volta è andata bene, sostituire rapidamente un nuovo prodotto al «vecchio» uscito due anni prima. Ma se dimenticano di elaborare un’idea di lettore che non è ancora nato, potranno anche possedere il genio di Jane Austen o di James Joyce, diventeranno senza nemmeno volerlo, senza nemmeno accorgersene, dei conformisti. Vale a dire: delle persone che la pensano esattamente come i loro contemporanei. Perché il presente è la dimensione più sprovvista di «letteratura» che si possa immaginare. E diventarne schiavi significa non andare mai veramente fino in fondo, non essere fieri di essere diversi dagli altri, non farla mai così grossa che un giorno si possa dire, come di tutti i grandi che amiamo e abbiamo amato: ecco un essere umano irripetibile, che vedeva cose che gli altri non vedevano, e l’unico consenso che cercava era quello che esigeva da se stesso.
Emanuele Trevi*
*Scrittore e critico letterario