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 2015  luglio 17 Venerdì calendario

DALL’ADOLESCENZA IN MOTEL AL RUOLO DI ÉTOILE. ANCHE SE PER QUALCUNO RESTA UN’ABUSIVA. MA IL “CIGNO NERO” VA AVANTI E COMBATTE IL RAZZISMO IN PUNTA DI PIEDI


Le chiese dei neri bruciano, si spara nelle chiese metodiste africane d’America, nove morti in quella di Charleston, la Emanuel African Church, la più antica, quasi una catacomba cristiana, congregazione segreta nera nel Sud profondo e torbido; sotto le querce e le magnolie del Charleston Hampton Park, piantate a onorare le centinaia di soldati unionisti sepolti in una fossa comune, gli sposini sudisti continuano a farsi ritrarre avvolti nella bandiera confederata; a 150 anni dalla fine della Guerra Civile, il simbolo degli sconfitti che per Walt Whitman doveva sopravvivere per onorare «anche gli altri morti americani» (perché la guerra era stata «troppo immensa, i suoi rami protesi troppo lontano nel futuro, quelli più significativi e più poderosi ancora da nascere…»), viene brandita oggi sui social come una scimitarra da Dylann Roof, lo stragista. Quella bandiera tuttora è sinonimo di suprematismo bianco come quando la sventolava George Wallace in Alabama contro JFK e chiedeva, ancora nel 1968, «segregazione ora, segregazione domani, segregazione per sempre», così come l’agitavano dai pick up a Saint Louis lo scorso inverno i ragazzi bianchi sfrecciando sul ponte del Mississippi, mentre in periferia, a Ferguson, si celebravano i funerali di Michael Brown, nero di 18 anni ucciso con otto colpi da un poliziotto bianco, primo di una lunga serie di morti per mano di agenti dal grilletto facile se si tratta d’un sospetto afroamericano…; sulla Route 66, la strada del blues che B.B.King definiva «un pentagramma d’asfalto», all’altezza di Clarksdale qualcuno, nei giorni cupi di Charleston, ha affisso copie d’un articolo del Memphis Press del 1920 con la cronaca del linciaggio di Henry Lowry, dove il giornalista Ralph Roddy racconta ebbro di compiacimento come il «negro veniva bruciato fino ad essere bello croccante»…
Quasi una danza macabra, nella stagione della raccolta del cotone, mentre il primo presidente nero — espressione di una democrazia che sa sfidare se stessa e far germogliare diritti come nessun’altra — sta per uscire di scena e la campagna elettorale per la sua successione s’appresta ad essere giocata su temi premoderni, grezzi, quasi arcaici, da televisione in bianco e nero… Ma ecco invece che la nazione capace di trasformare eventi nefasti in opportunità di riscatto, inscena un’altra danza, di rinascita e di vita, che fa ripartire il grande sogno visionario con cui l’America continua ad alimentare l’Occidente e tutti noi. Il razzismo come il mago immortale Kašej, demone pietrificatore, simbolo del male… e l’America, il principe Ivan, che rompe l’incantesimo e fa trionfare il bene con la piuma strappata all’Uccello di Fuoco… Ecco che il Grande Coreografo che ha sempre accompagnato l’estetica del mito americano ha lanciato sulla scena una creatura incendiaria e purificatrice che con i suoi pas de deux e port de bras e йchappйs occupa le copertine dei magazine, ballando sballa l’immaginario patrizio, tradizionale e conservatore, s’impossessa di uno dei simboli più elitari della cultura bianca, le scarpette a punta.
Come accadde con Sidney Poitier nel 1967, primo nero a vincere un Oscar nel pieno delle battaglie per i diritti civili e degli incendi del KKK, Misty Copeland, la ragazzina nera cresciuta in un motel della prateria sulle note di Igor Stravinsky, cambia il volto della danza classica e spazza via con un volteggio l’aria pesante che sembrava ammorbare il Paese: dal primo agosto sarà prima ballerina dell’American Ballet Theatre. Non era mai accaduto a una étoile di colore nei 75 anni di storia della più prestigiosa compagnia di ballo del Paese. E per rafforzare il forte impatto simbolico dell’evento, l’Abt l’ha fatta esordire al Metropolitan nel ruolo di Odette/Odile: nell’America di Ferguson e di Charleston è stato quindi finalmente infranto il tabù del tutù: da ora in poi ci sarà spazio anche per i cigni neri.

Dal palco a cinema. Misty aveva già fatto storia otto anni fa quando era stata promossa “solista”, una delle più giovani ballerine della compagnia ad avere tale ruolo. Eppure ha compiuto i primi passi di danza in tarda età, a tredici anni, in un mondo in cui si comincia a sgobbare alla sbarra appena smesso il pannolino. Ma a 15 anni aveva già offerte professionali e a 17 era a New York nella scuderia dell’Abt. Un prodigio che va oltre il palcoscenico, una personalità fuori dagli schemi da caserma della danza classica. In poco tempo è diventata un’icona pop, ha ballato in tournée con Prince, l’anno scorso la sua campagna per Under Armour, basata sulla sua vittoria contro pregiudizi e cliché, è diventata virale su YouTube con otto milioni di visualizzazioni, mentre il suo profilo Instagram colleziona mezzo milione di seguaci. Quest’anno Time le ha dedicato la copertina, inserendola tra le 100 personalità più influenti del Pianeta. Perché Misty, come ci dice Rivka Galchen, che ne fece un lungo ritratto sul New Yorker lo scorso settembre, «è consapevole che la sua ascesa è stata così drammatica, insolita, e piena di coincidenze come fosse la trama di quei balletti che hanno una trama. Ha humour, pathos e senso del dramma. Soprattutto sul palcoscenico e fuori è sempre se stessa». Ed è diventata una “ballerina impegnata”, il suo mantra è «this is for the little brown girls», la mia storia, il mio esempio, dice, devono servire alle piccole sorelle di colore, alle ballerine afroamericane che non riescono a trasformarsi in cigno, «fosse solo perché non hanno i settanta dollari che servono a un’aspirante professionista per comprarsi le scarpette ogni settimana». Il New York Times, quando è stata annunciata la nomina della Copeland ha scritto che «se la compagnia non l’avesse promossa avrebbe corso il rischio di continuare a perpetuare le disparità a cui vanno incontro le ballerine di colore, altamente sottorappresentate a certi livelli». La stessa Misty aveva più volte sollevato l’argomento, mettendo in un certo senso l’Abt con le spalle al muro: nel suo libro Life in Motion: An Unlikely Ballerina, (stanno ovviamente per trarne un film) ha scritto: «Il mio timore, se non diventerò prima ballerina, è che potrebbero passare altri vent’anni senza che ci sia un’altra ballerina di colore nella posizione che ho in una compagnia di balletto d’élite». «Se non divento prima ballerina», ha affermato, «la gente si sentirà come se l’avessi tradita». Consapevole degli inquietanti rigurgiti razziali che minacciano la società americana, ha voluto dedicare la promozione a Raven Wilkinson, figura simbolo delle discriminazioni nel mondo chiuso e spesso reazionario della danza classica: «Lei ha sofferto più di tutte noi».

Una società complessa. «Ricordo Atlanta, Georgia», dice Raven. Era il 1955, Raven era nel tour americano del Ballet Russe de Monte Carlo, era l’unica solista nera, era il Sud dove vigeva ancora la Jim Crow, la legislazione segregazionista. «Siamo nella hall di un albergo in attesa del check in, quando il manager dell’hotel incrocia il mio sguardo e chiede al direttore della compagnia, Sergei Denham, se la giovane è colored. Ho pensato: ecco ci siamo. Sergei risponde positivamente». Quindi il manager chiama un colored taxi e la spedisce in un colored motel. Il giorno successivo Raven viene spedita a New York. «Poi Montgomery, Alabama…» ricorda. Una volta il bus della compagnia viene bloccato, una guardia sale e dice: «Avete una negra qui, fatela scendere o non potete proseguire». Si trovò la soluzione di farla salire su un’auto che seguiva la compagnia, condotta da un afroamericano. Un’altra volta, sempre a Montgomery vengono attorniati da incappucciati del KKK. Uno sale, urla, scaraventa i borsoni delle ballerine. «Mi convinsero a non andare in scena quella sera, a chiudermi in camera. Era troppo pericoloso. Dalla finestra vidi una croce bruciare. Era per me». La ballerina Raven Wilkinson decise di mollare, si chiuse in un convento ad Harlem, il suo quartiere. Poi la nostalgia del palcoscenico la portò a ritentare, ma stavolta in Europa, con il Balletto nazionale olandese. «Sembra strano, ma ti può mancare anche ciò che ti ha costretta a lasciare il tuo Paese, la complessità della nostra società… un mondo dove tutti, nel bene e nel male, hanno un loro mondo… Così tornai a casa». Raven continuò a ballare con particine alla New York City Opera fino al 1985, ma gli anni migliori, quelli in cui magari avrebbe potuto puntare a ciò che Misty Copeland ha ottenuto, erano stati bruciati con quella croce di Montgomery, Alabama.

Guida illuminata. «Il balletto classico», dice Misty nel suo libro, «continua ad essere territorio di bianchi e ricchi». «Io vengo da una famiglia dove non abbiamo sempre avuto di che mangiare, ero quasi quattordicenne quando ho visto il primo balletto. La maggior parte delle ragazze con cui mi sono trovata a lavorare e a vivere insieme sono cresciute immerse nell’arte, hanno indossato il tutù prima d’imparare a parlare. Avevano le case per il weekend, viaggiavano in Europa. Io ho chiesto il primo passaporto a 18 anni. Ho trascorso parte della mia adolescenza condividendo una stanza con mia madre e cinque fratelli, al motel Sunset Inn, vicino all’autostrada e a una rivendita di liquori alla periferia di Gardena, periferia della periferia di Los Angeles… Ma soprattutto mi sono sentita diversa perché ero l’unico puntino scuro in un mare di bianco». Misty, che non ha la carnagione nera e potrebbe esibire una nonna italiana e una tedesca, non ha mai rinnegato per opportunità la propria identità culturale afroamericana. Anzi, l’ha trasformata nel baricentro della sua storia, «for the little brown girls». «Ma sono stata fortunata», dice, «perché la mia prima insegnante, Cindy Bradley, bianca ed ebrea, colei che ha insistito perché frequentassi gratuitamente la sua scuola, mi continuava a dire che non solo ero un prodigio, ma che ero la più bella di tutte, che il mio corpo era un’opera d’arte…».
La storia di ballerini o ballerine di colore ad alti livelli è fatta di rari esempi. Oltre 50 anni fa è stato pioniere Arthur Mitchell, che nel 1962 infranse le barriere razziali del New York City Ballet diventando primo ballerino. Nel 1990 Lauren Anderson è diventata la prima afroamericana “principal dancer” dello Houston Ballet. Virginia Johnson, a lungo prima ballerina e ora direttrice artistica del Dance Theatre di Harlem, composta in prevalenza da afroamericani, ha detto che, magari con buone intenzioni, le venne sconsigliato di fare la ballerina semplicemente perché non esistono ballerine nere. Qualcosa è cambiato, ma secondo Susan Fales-Hill, scrittrice nel board dell’Abt, «la maggior parte delle compagnie di ballo assomigliano ancora terribilmente a un country club dell’Alabama del 1952».

Lo Schiaccianoci perduto. È il corpo del reato. «Il cliché razzista è quello codificato dal coreografo George Balanchine, secondo cui il ballo è donna, donna con la pelle d’una pesca sbucciata, donna bianca pura ed eterea, appartenente all’aria. Mentre la donna nera è vista come terrena, atletica e forte, più adatta allo sport… Ma tutte le ballerine sono atletiche, tutte le ballerine sono forti» dice Raven Wilkinson. «Difatti è più facile per i ballerini maschi afroamericani perché l’uomo in scena ha un ruolo ancora prevalentemente muscolare». Una questione che ha a che fare con il marketing: «Le compagnie anche se sono tentate dall’innovazione politicamente corretta di aprire alle ragazze di colore», dice Virginia Johnson, «sono poi dissuase dal fatto che ciò avrebbe effetti sulle iscrizioni, in quanto confonderebbe l’idea del balletto classico in certi ambienti». Anche qui Misty ha rotto gli schemi. Le sue forme non sono quelle disegnate da Balanchine. «Fino ai 18 anni, anche se nera, rientravo nello stereotipo, con un corpo prepubescente. Poi, appena arrivata all’Abt i dottori vollero indurre la mia prima mestruazione e in dieci giorni il mio corpo cambiò, mi ritrovai improvvisamente un seno che usciva dalle regole… Avrei dovuto interpretare Clara nello Schiaccianoci, ma a causa di quell’incidente sono stata costretta ad aspettare dieci anni prima che mi fosse nuovamente offerto quel ruolo». «Sia chiaro, ancora oggi molti pensano che io sia fuori luogo, un’abusiva… Ma la mia missione, la mia voce, la mia storia, il mio messaggio non è per loro. Io penso alle ragazzine nere delle periferie di Chicago, di Detroit…». This is for the little brown girls.
Marzio G. Mian