Carmelo Caruso, Panorama 16/7/2015, 16 luglio 2015
«IO, DANNATA PER UN COGNOME»
[Intervista a Maria Concetta Riina] –
Chi le dice che non ci sia mai stata tra i tanti che hanno reso omaggio in silenzio e anonimamente...».
«Una Riina non può andare il 19 luglio in via d’Amelio a commemorare Paolo Borsellino? «Non so più se per me esista un luogo da dove non essere cacciata, inseguita e marchiata». Cambiare il cognome? «Pensa che basterebbe?». Forse no, ma la aiuterebbe. «A quale figlia si può chiedere di dimenticare il padre?» E però, si libererebbe di suo zio Totò Riina, di Corleone, della genetica, e chissà perfino di quell’interdittiva del prefetto di Trapani, Leopoldo Falco, che ha definito la sua presenza in azienda «inquietante». «Ho 39 anni e mio zio l’ho conosciuto solo quando lo hanno catturato. In tutta la mia vita l’ho visto solo due volte». E mentre parla Maria Concetta Riina si fa più piccola della sua statura, prova a sgonfiare il viso pasciuto, a rallentare gli occhi svelti e azzurri che vigilano su una fronte rotonda, tutta adipe che invece di appesantire alleggerisce, scioglie il carattere e lo pacifica. Dunque non è sguardo di mafia ma solo quello eccitato della siciliana che fuma dalle narici, quel modo tutto loro che hanno le donne dell’isola quando mettono le mani sui fianchi e implorano i santi e Dio, «sono nelle mani del Creatore». È credente? «Si, sono cattolica. Se vuole saperlo non vado a messa ogni domenica. È una colpa anche questa?».
Suo padre Gaetano è stato arrestato nel 2011 e sono sempre accuse per mafia... «Conosco mio padre e sono sicura che non ha commesso nessun reato. Oggi posso solo attendere che esca dal carcere. È un uomo di 82 anni con un tumore alla prostata e un rene malandato. Accetto la sua reclusione, ma non posso essere condannata per la mia famiglia, perseguitata come un’appestata». In Sicilia non sarebbe meglio latitare dalla famiglia? «Mi sono allontanata e ho provato a costruirne una. Ma evidentemente non basta se un prefetto definisce la mia presenza “inquietante” costringendo il mio datore di lavoro a licenziarmi dopo 10 anni di attività». Suo zio dopo la Sicilia ha dannato anche lei. «Non posso essere dannata per ciò che ha fatto e se lo ha fatto». Vede? È prigioniera del cognome. «Io non credo che abbia potuto commettere da solo tutto quello per cui è condannato».
L’abbigliamento di Maria Concetta Riina non è il nero castigo della letteratura di mafia: rosari e spine alle donne, lupara e velluto ai mariti, ma il colore di questa estate torrida a Mazara del Vallo dove abita. Tshirt bianca da madre indaffarata, jeans comodi da spesa e mercato, elastico ai capelli. Di Maria Concetta Riina non esistono fotografie, a differenza di sua cugina e dell’altra figlia di Totò, Lucia. che si è mostrata e raccontata proprio a Panorama. «Non me lo chieda. Altro che fotografia. Vorrei scomparire». Andare? «Io voglio restare. Sono incensurata, non ho neppure una multa per divieto di sosta. E poi anche andare via dalla Sicilia non basterebbe. Dopo il cognome è il viso che dovrei mutare. Più degli avvocati avrei bisogno di un chirurgo estetico che mi cambi i tratti, mi faccia perdere peso. A volte credo che anche il corpo mi imprigioni a una storia che non mi appartiene».
Nello studio dell’avvocato Giuseppe La Barbera, ad accompagnare la Riina c’è il marito: «Ci siamo sposati nel 2011 e oggi abbiamo una figlia di due anni. E ho più pietà per lui che per me. Gli ho portato come dote un bollo». E infatti l’unico che si aggira sperduto nel fondaco di legali e nella giurisprudenza è proprio quest’uomo di quarant’anni, magro come quegli esseri che consumandosi si asciugano nel peso ma addensano pensieri, si chiudono nel mutismo. «Da due anni non lavora, ha il terrore di spedire un curriculum». Suo marito non sapeva di sposare una Riina? «Ha sposato me, non mio zio né mio padre. Lui per primo ha voluto mantenere le distanze. L’unica colpa è che si è innamorato di me».
Maria Concetta Riina è stata licenziata da segretaria nella concessionaria di automobili dove lavorava da dieci anni, licenziamento per giusta causa che La Barbera insieme alla sua collega Michela Mazzola vogliono adesso impugnare: «Ricorreremo al giudice del lavoro, chiederemo il reintegro e un’indennità risarcitoria» spiega l’avvocato nel suo studio di Villabate. «Comprendo pure il mio datore di lavoro. Lo hanno costretto a licenziarmi. Era addolorato ma non aveva scelta: l’interdittiva mi definiva “presenza inquietante”. Che altro poteva fare?» dice Maria Concetta che anche quando è seduta si sente un’imputata. Non crede che l’abbia assunta per riverenza come scrive il prefetto? «Mi ha assunta dopo avermi conosciuta in spiaggia. Io e mio marito siamo una delle tante famiglie normali di questo paese: 1.100 euro di stipendio, un mutuo, la bambina lasciata alla nonna. E se non mi avessero licenziata sarei rimasta una persona anonima. Oggi sono tornata a essere una Riina. Non esco più di casa per paura della gente». La ignoravano o la temevano? «Mi presento a tutti come Maria Concetta, ormai sono abituata a omettere il mio cognome e non perché me ne vergogni, ma perché so benissimo che tutti penserebbero a mio zio e smetterebbero di vedermi come donna e madre. Dopo questa interdittiva,
non sono più una donna ma un’entità». La Barbera, che mafiosi ne ha difesi, finora mai si era imbattuto nell’accusa di mafia per biologia: «Siamo di fronte a un inorridimento delle norme giuridiche. La mia cliente cerca solo una giusta e anonima quotidianità». Volete fare guerra allo Stato? «Agiremo contro il prefetto e il ministro degli Interni» aggiunge La Barbera. «Non ho mai visto tanta ipocrisia. Siamo alla barbarie dei nomi come destino». In Sicilia andrebbe bonificata l’anagrafe. Forse dopo i migranti è arrivato il momento di assegnare lo status di rifugiato anche ai figli senza colpa, ai nipoti senza macchia come Maria Concetta Riina. «Ditemi che cosa devo fare per vivere. Nessun azienda può assumermi. Neppure per togliere la spazzatura da un ristorante. Me lo cerchi lo Stato un posto di lavoro dove il mio nome non possa avere influenze o destare referenze». Lasciamo Palermo pensando che davvero tutto ci inquieta. Tutto, tranne questa donna.