Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  luglio 16 Giovedì calendario

INTERVISTA A ZENGA – 

Zenga, ma ci si può sentire a casa in due posti diversi?
«Sì, si può. E a chi pensa “ma questo quante case ha?”, visto che ho sempre detto che la mia casa è l’Inter, rispondo che ero all’apice della carriera nerazzurra quando presi un aereo per andare a vedere la finale di Coppa campioni della Samp: la mia seconda squadra da sempre; l’unica altra di A, e anche l’ultima, nella quale ho giocato».
Si risentirà a casa nel nostro campionato?
«Per ora mi sento strano: torno dopo vent’anni - venti, non due - e ritrovo stesso medico, fisioterapista, magazziniere e team manager; mi confronto con Ferrero, Osti e Romei da due mesi e mi sembra di lavorare con loro da una vita. La prima volta che ho rimesso piede a Nervi mi sono detto: ma sto recitando in “Sliding doors”?».
Tanti allenatori big sono a piedi e lei ha di nuovo una panchina italiana: sensazione?
«Forse quella di quando ho finito di leggere “Fuoriclasse” di Malcolm Gladwell, un libro che mi ha fatto diventare ancora più fatalista: io lo credo sul serio che se sogni una cosa, e la sogni in grande, poi accade davvero. Sono fatalista quando ripenso che quest’inverno ho rifiutato la Serbia che era stata di Mihajlovic e ora mi siedo sulla sua panchina. E sono ancora più fatalista dal 4 maggio, quando prima della partita di Zanetti a San Siro ho incontrato Ferrero nell’hotel del “ritiro”: tutto è nato quel pomeriggio. Anzi no, un po’ prima».
Quando?
«Quando una sera, stavamo fumando una sigaretta, mia moglie Raluca mi ha detto: “In un’intervista hai messo la carriera al terzo posto dopo la tua famiglia e la qualità della vita, ma credo sia giusto che tu possa vivere un’altra sfida”. Solo in Italia, però: l’avrei fatto solo per tornare qui».
Lo scorso inverno disse: Inzaghi è un amico, ma io tifo per Sarri. Stava facendo il tifo per se stesso?
«Volevo dire che Sarri è come me: non siamo nati con la camicia, ce la siamo andata a comprare».
Il valore di quasi 500 panchine da globetrotter nel calcio di tutto il mondo?
«Stare così tanto in giro ti insegna a rispettare di più te stesso e gli altri, ti educa a confrontarti con realtà diverse, allena la tua capacità di osservazione. E ti regala una serenità che prescinde dalle tue certezze materiali o affettive».
Questa sfida ha un po’ il senso del: stavolta o la va, oppure (in Italia) la spacca?
«Ma guardi che in Italia abbiamo fatto bene, sia a Catania che a Palermo, e avevo già avuto altre proposte per tornarci. Ma non voglio in nessun modo vivere questa chance come una garanzia, e per questo ho voluto firmare solo per un anno: per non sentirmi un peso per nessuno, mai».
Ferrero ha detto che in questa sfida sarà con lei fino alla morte: ci crede?
«Ci credo perché lui è molto simile a me: è uno vero, quello che dice fa, e due persone vere fanno grandi cose insieme. Anche a lui non frega niente dei luoghi comuni. Anche di lui dicono che è difficile, perché in troppi parlano senza sapere, giudicando da fuori. Ma come diceva Charlie Chaplin, “Preoccupati più della tua coscienza che della tua reputazione”, tanto quella ti resta appiccicata addosso. E anche io, come lui, sarò con la Samp fino alla morte. E che gli altri credano pure che presto non andremo d’accordo: ci va benissimo così».
C’è un presidente che Ferrero le ricorda, fra quelli avuti da giocatore e allenatore?
«Nessuno: è troppo diverso da tutti. Non ho mai conosciuto uno che fa della differenza uno stile di vita come lui».
Il peso di un preliminare di Europa League?
«Un peso fantastico, sono felice di portarmelo sulle spalle: immagina che palle stare un mese e mezzo senza una partita vera... Se credi che una cosa sia difficile, diventa difficile davvero: io penso solo che dal 30 luglio al 30 agosto avremo - spero - sei partite vere (più amichevoli) e che una squadra allenata bene, pure psicologicamente, può giocare anche 50-60 partite in una stagione. Basta che l’allenatore non sia convinto che la squadra va bene perché è bravo lui».
Giurerebbe sulla permanenza di Eder e Soriano?
«Per ora sì: non c’è nulla che mi faccia pensare che possano essere ceduti. Anche se ormai nei tempi nel mercato le squadre, tutte, hanno le porte come i saloon».
Con Zukanovic è stato più bravo di Mancini, nel convincimento telefonico?
«Ce lo vogliamo dire? Tutti i tecnici parlano con i giocatori che vorrebbero allenare, dai. E mi sa che anche il Mancio è stanco di sentirsi dire ‘sta roba, infatti ripete che ha finito la ricarica del telefonino. A Zukanovic ho detto solo la verità, quella che un allenatore deve sempre dire».
Ora quanti rinforzi mancano a questa Samp? E su chi scommette fra quelli che ci sono già?
«Se resta Okaka, sono contento di quello che ho. E scommetto su Ivan, centrocampista slovacco, classe ‘95: lo voglio in prima squadra perché allenare la Samp vuol dire anche capire l’esigenza del club di promuovere giovani».
A proposito di Okaka: è giusto crederci ancora?
«Gli ho detto: “Stefano, anzitutto impara a concentrarti su quello che ti piace, non solo su quello che non ti piace. E poi cerca di capire cosa vuoi fare, non con la Samp ma con la tua vita: decidi, e poi vai dietro a quella decisione”. Può farlo anche in scadenza di contratto: per un allenatore questa non è una pregiudiziale, però poi bisogna capire anche cosa pensa il club».
Fernando: che giocatore «scopriremo»?
«Un centrocampista di qualità, ma sempre aggressivo, cattivo: ovunque ti giri, lui c’è sempre».
Cosa perde e cosa guadagna la Samp senza Eto’o?
«Perde un giocatore esperto, carismatico, vincente, che dà tutto per il suo allenatore; guadagna la possibilità di far giocare di più uno come Correa, che è il suo futuro».
Avete mai pensato davvero a Balotelli?
«Mai: è fuori dalla nostra portata. Al massimo possiamo dargli una maglia, le scarpe e l’emozione di entrare a Marassi e sentire i tifosi del Doria che cantano».
E a Cassano? E’ vero che Antonio le ha fatto una telefonata che lo ha definitivamente allontanato dalla Samp?
«Scemenze. L’ho chiamato io - e non so quanti allenatori l’avrebbero fatto - e gli ho detto: “Antonio, uno come te non si può discutere, Ma noi abbiamo un progetto e il nostro progetto si chiama Eder, Muriel, Correa, Bonazzoli, Okaka”».
Ha detto: se un allenatore non conosce la flessibilità tattica è meglio che cambi mestiere. Per questo sta lavorando su tre possibili sistemi di gioco?
«Fosse per me, arrivato alla Samp, avrei detto: quest’anno giochiamo con il 4-3-3, anzi con l’1-4-3-3, perché Paulo Sousa ha detto che si deve dire così, no? Però io gli uomini perfetti per il 4-3-3 non li ho, ma ho Correa: dunque come sempre mi regolo sui giocatori che ho e penso al 4-3-1-2. Con il massimo rispetto per chi invece si basa solo su un sistema».
Però Correa, infortunato, per il preliminare di fine luglio non ce l’avrà.
«A fine luglio anzitutto si dà la precedenza a chi sta meglio, e poi terrò presente che ho almeno otto centrocampisti. Senza dimenticare che il trequartista possono farlo anche Krsticic e Soriano, che pure per me è una mezzala (occhio, adesso Sinisa legge e mi chiama per insultarmi)».
Una definizione che le piacerebbe per la sua Samp?
«Una squadra che sa stupire. Con due leggi: la palla non è mai fuori, la partita non è mai finita».
E le piacerebbe che i suoi giocatori prima di giocare baciassero la maglia come facevano quelli della Stella Rossa?
«Irripetibile, credo: almeno quanto difficile da spiegare. Però ai miei una cosa la chiedo: senso di appartenenza. L’emblema della Samp che hanno sul davanti della maglia è più importante del nome che hanno scritto dietro».
Un obiettivo ragionevole per questa Samp?
«Tre: qualificarsi ai gironi di Europa League; fare 40 punti il prima possibile e a quel punto vedere quante partire restano; considerare la Coppa Italia un percorso che con quattro partite può portarti ad una finale».
E davanti a voi che corsa vede?
«La Juve deve compensare agli addii di Tevez e Pirlo con le motivazioni: credo sarà il solito gruppo che non molla di un centimetro, ma credo anche che le milanesi faranno bene, e non perché gli allenatori sono due amici. L’Inter mi pare molto più forte dell’anno scorso: quando cambi tanto ti serve tempo per mettere a posto la macchina, ma non ha le coppe e ha l’entusiasmo portato dall’arrivo di Kondogbia. Bisogna vedere come sarà completato il Milan. Con Ibra? Mi piacerebbe rivederlo in Italia, ma forse ci spero più di quanto ci credo».
Roma, Lazio, Napoli?
«Alla Roma manca un centravanti ma lo prenderà, dipende quale. Sarri farà bene, anche se lo aspetta un compito delicato: eliminare le scorie negative di Higuain. Per la Lazio non sarà facile ripetersi, ma Pioli penserà che sia possibile, dunque lo farà: è un altro che non è nato con la camicia».
La ferita del calcioscommesse e il suo Catania imbrattato di sangue: che dolore è stato?
«Questa domanda non doveva farmela. Mi piace ricordare Pulvirenti vicino a me in panchina, che soffre per amore della sua squadra. Il resto mi ha lasciato senza parole, ma so quanto sta soffrendo la gente di Catania adesso».
Ma la «clausola Inter» che ha sempre preteso, quella che le permette di liberarsi in caso di chiamata nerazzurra, c’è anche nel contratto con la Samp?
«No, perché ho un contratto di un solo anno... E perché all’Inter non penso più, davvero: lo dico senza amarezza, lo dico perché per me la Samp è un punto d’arrivo. E perché oggi sono felice, di quello che ho e di quello che sto facendo: molto felice».