Francesca Pierantozzi, Oggi 15/7/2015, 15 luglio 2015
OMAR SHARIF
Parigi, luglio
Una silhouette da dandy, due occhi di brace e un sorriso irresistibile, seducente, malinconico, hanno attraversato la storia del cinema con quella nonchalance che hanno solo i grandi attori. O i grandi giocatori di dadi. Qualche anno fa, prima che l’Alzheimer gli portasse via i ricordi, Omar Sharif disse che era «l’unico attore al mondo a sentirsi straniero dovunque». Lui che parlava cinque lingue, che aveva interpretato tutto ed era stato tutto, un principe arabo, un dottore sfortunato in amore nella Russia bolscevica, re d’Armenia, maggiore della Wermacht, rivoluzionario cubano, poliziotto greco, spia, ladro, campione di bridge, giocatore d’azzardo, scommettitore, playboy, lui si sentiva solo. Era solo. «Ogni tanto frequento gli altri», disse qualche anno fa in una bellissima, triste, forse bugiarda (con Sharif difficile sapere) intervista al quotidiano Libération, «ma a stare con gli altri mi annoio. Amo il mondo del bridge o quello delle corse. Ci si incontra in giro per le città, ma si parla di una cosa sola: del gioco. Nessuno vuole sapere come stai».
È morto in Egitto. In un istituto dove era ricoverato da qualche mese. Aveva 83 anni. La notizia l’ha data il figlio Tarek, avuto nel ’56 con la star del cinema egiziano Faten Hamama, la prima, l’unica: «Ho amato solo lei nella vita». Faten è morta a gennaio. Di lei, nonostante la malattia, nonostante non si vedessero da anni, continuava a ricordarsi. Si erano sposati nel ’54, al Cairo, dove avevano cominciato a fare cinema, lei, bellissima, dolcissima, star già a 16 anni, lui capitato sul set quasi per caso, figlio di un mercante libanese di legni pregiati di Alessandria, andato in un esclusivo college inglese in Egitto perché, raccontò una volta, «sua madre lo trovava troppo grasso ed era sicura che in quella scuola inglese avrebbe mangiato molto male».
Al college diventa bello e bilingue. Gli servirà quando David Lean lo chiama per interpretare Sherif Ali ibn El Kharish, eroe arabo contro l’Impero ottomano accanto a Peter O’Toole in Lawrence d’Arabia. Il regista cercava un attore arabo che parlasse inglese, c’era solo lui. Vince il primo Golden Globe, vola a Hollywood, lascia Faten perché l’amava troppo. Raccontava: «Quando sono arrivato a Hollywood, ero, diciamo, molto sollecitato. Sentivo che avrei incontrato qualcuno e ho detto a Faten: “Lasciamoci adesso, prima che ti tradisca”. Da quel giorno, non ho più amato un’altra donna. Eppure ho fatto tanto l’amore».
Due anni dopo arriva il successo planetario del Dottor Živago. Non gli si staccherà più di dosso, come a noi la musica di Lara. Ha girato più di 70 film, alcuni belli altri meno, ha giocato, puntato, scommesso, vinto e spesso perso. È diventato un campione di bridge, ha comprato cavalli da corsa («Che non vincono mai») sedotto tante donne, dive e sconosciute. È sempre rimasto vicino al figlio Tarek, a Nadia, prima figlia di Faten, ai suoi quattro nipoti, tra cui Omar jr, «egiziano, ebreo e gay», militante della causa omosessuale.
Ha diviso la vita tra il Cairo e Parigi, dove è sempre vissuto in hotel, al Royal Monceau, stessa camera, dopo aver perso un appartamento al gioco. Nel 2004 l’ultimo premio, l’Oscar francese, il César per l’interpretazione in Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano. Da qualche anno non giocava più. «È stato come con le sigarette. Smisi così, da un giorno all’altro. Per il fumo era il 28 maggio 1992 a mezzanotte, a Budapest». Ma fino all’ultimo, prima di arrendersi alla malattia, ha continuato ad ammirare le belle donne. E a dare consigli: «Punta sempre sui cavalli quotati bassi. Conosco un australiano che ci ha fatto fortuna».