Marco Belpoliti, La Stampa 12/7/2015, 12 luglio 2015
COLLEZIONA COLLEZIONA QUALCOSA RESTERÀ
Nel 1974 Italo Calvino si reca a un’esposizione parigina dedicata alle collezioni inconsuete e strane: campani da mucche, giochi di tombola, capsule di bottigliette, fischietti di terracotta, biglietti ferroviari, trottole, involucri di rotoli di carta igienica, distintivi di collaborazionisti, rane imbalsamate. La sua attenzione è attirata da una serie di vasetti. Su lunghi scaffali sono allineati dei contenitori di sabbia raccolta nelle più svariate spiagge del mondo. Lo scrittore è colpito da quel florilegio di sabbie, una Waste Land universale, la definisce, che lo induce a riflettere su cosa sia una collezione.
Ogni collezione è come un diario, quello di un’oscura mania che nasce dal bisogno «di trasformare lo scorrere della propria esistenza in una serie d’oggetti salvati dalla dispersione, o in una serie di righe scritte, cristallizzate fuori dal flusso continuo dei pensieri». Qualcosa di simile al mestiere di scrittore?
In un altro articolo, dedicato alla raccolta dei francobolli, scrive che si tratta di un meccanismo di possesso o quanto meno di desiderio di possesso: «Sempre latente nel rapporto uomo-oggetto, rapporto che però non si esaurisce in esso perché il fine è il riconoscersi nell’oggetto». Secondo gli psicologi tra gli otto e i nove anni quasi tutti i bambini sono colti da una irrefrenabile passione di raccogliere cose, di collezionare: conchiglie, sassi, farfalle, minerali, figurine, ecc. Poi con l’adolescenza questa spinta tende a diminuire sino ad estinguersi; presso gli adolescenti rimane, o meglio rimaneva fino a venti o trenta anni fa, la passione dei francobolli, un modo per affacciarsi al mondo, lontano e sconosciuto.
Poi subentra un periodo di latenza, quindi intorno ai quarant’anni, scrivono Francesca Molfino e Alessandra Mottola Molfino in Il possesso della bellezza (Allemandi editore), all’improvviso si ridiventa collezionisti, tanto che si può stabilire a quell’altezza una relazione tra collezionismo e vita affettiva. Gli oggetti assumono le parvenze della persona amata e in parte la sostituiscono? Tra i collezionisti, o almeno nei ritratti letterari che gli scrittori ne hanno fatto, a partire dall’Andrea Sperelli de Il piacere di D’Annunzio per arrivare a Kaspar Utz, il protagonista dell’omonimo romanzo di Bruce Chatwin, sembra dominare il carattere anaffettivo nei confronti del genere umano, e invece passionale e possessivo nei riguardi della propria collezione.
Il collezionismo, sia quello praticato con pochi mezzi, sia quello estremo che dissipa enormi quantità di denaro nel tentativo di completare la propria raccolta, contempla questo rapporto con l’oggetto che appare come un modo per dominare il mondo. Jean Baudrillard ne Il sistema degli oggetti ha scritto che questa volontà di possesso del mondo attraverso qualcosa di parziale, è anche un modo per dominare il tempo, per renderlo discontinuo, sottoponendolo al dominio dello spazio – la collezione come spazio. Gli oggetti della collezione, siano vasetti di sabbia, francobolli di San Marino, scatole di biscotti, matite, stilografiche o spille d’argento, occupano spazio e hanno la prerogativa di essere sottratti al valore d’uso, per dirla con Marx, a favore di un puro valore di scambio, che però non avviene attraverso la mediazione del denaro, quanto piuttosto, cosa davvero interessante, mediante lo sguardo.
Inoltre, non è solo l’uomo a guardare le cose collezionate, ma, come in una situazione magica narrata nella fiaba, sono gli oggetti stessi a guardare l’uomo che li ha raccolti. Nelle storie romantiche per bambini di Andersen, le «cose» collezionate si animano, prendono vita nottetempo.
Il collezionista si muove in una zona sospesa tra il visibile e l’invisibile, dal momento che la collezione è qualcosa che vive di vita propria, entità mossa da forze oscure e inconoscibili, come racconta Chatwin in Utz (Adelphi), storia di un collezionista praghese di porcellane che vive in un paese dove la proprietà privata è stata ufficialmente abolita. Il collezionista è visto come un uomo possessivo, competitivo, che trasferisce sulla sua collezione rivalità e conflitti, e sfida con le sue «cose» l’Altro, il rivale assente, o solo fantasticato. Farebbe qualunque cosa pur di completare la propria collezione sapendo nel fondo di se stesso che nessuna collezione è mai esaustiva, e quando lo diventa perde immediatamente ai suoi occhi qualsiasi valore. La collezione è un oggetto per definizione fragile, deperibile, esposto alla continua dispersione, ha scritto Adalgisa Lugli, studiosa del tema.
Mania, nevrosi, stravaganza, orgoglio, ossessione, sono gli stati d’animo degli uomini e delle donne che collezionano; le difficoltà eccitano la loro fantasia e sviluppano la loro volontà. Il fine giustifica i mezzi nel movimento della collezione. Cos’è in definitiva una collezione? Un mondo dentro il mondo. Una volta Susan Sontag ha scritto che «collezionare fotografie è collezionare il mondo». Ancora una volta la collezione, composta di oggetti piccolissimi o grandissimi, non importa, vive nello sguardo e attraverso lo sguardo.
Il collezionista moderno è a suo modo un artista, come ricorda Elio Grazioli in La collezione come forma d’arte (Johan & Levi), uno che ha scambiato tra loro fini e mezzi: ha fatto dei mezzi – gli oggetti – un fine, là dove invece l’artista in senso proprio usa i mezzi per raggiungere un fine, l’arte. Artista, ma anche folle e insieme bambino. Walter Benjamin ha osservato che solo i bambini possiedono la capacità di rinnovare l’esistenza come una prassi continua e mai in imbarazzo: «Per loro collezionare è uno dei tanti metodi di rinnovamento». Il vero collezionista è un bambino che ha appreso la difficile arte di abitare nelle cose che ha raccolto, senza fine.
Marco Belpoliti, La Stampa 12/7/2015