Antonio Gnoli, la Repubblica 12/7/2015, 12 luglio 2015
ANNINA NOSEI “DA DUCHAMP A BASQUIAT, HO VISSUTO PER GLI ARTISTI PIÙ PROFETICI E SPIANTATI”
Per me è un nome legato agli anni Settanta e Ottanta: Annina Nosei, gallerista e talent scout di successo tra Parigi, New York e Roma, la città dove è nata. Vive a Manhattan Annina, in una bella casa davanti al fiume Hudson. Ogni tanto, un paio di volte l’anno, torna in Italia. La incontro casualmente a una cena. Al tavolo con lei ci sono un antiquario americano, una giovane professionista di balli latino-americani, Luigi Ontani con cui ho “straparlato” qualche settimana fa e un altro paio di persone. Le siedo di fronte. Mangia con determinazione. Pensa con determinazione. Agisce, sospetto, con determinazione. Del resto non credo sia facile farsi strada a New York. Conosco una vecchia storia, che lei si affretta a smentire: dopo aver scoperto Jean-Michel Basquiat, Annina lo “incatenò” nello scantinato della sua galleria. Ricavò uno studio per l’artista e lo obbligò a produrre. «Sono tutte cazzate. Le pare che Jean-Michel avrebbe accettato qualche tipo di costrizione?». Lo dice sbrigativamente, roteando il tovagliolo come fosse la cappa di un torero. Questa donna vale la pena conoscerla meglio. Senza particolari convenevoli decidiamo di vederci la settimana successiva. Mi accoglie nel suo appartamento. Grande. Spoglio. Il palazzo non lontano da Castel Sant’Angelo appartenne alla famiglia Pasquali. Apprendo che Giorgio, il grandissimo filologo, fu lo zio di Annina.
Mi ha sorpreso questo legame stretto di parentela.
«Perché? Lo zio filologo. L’altro zio Gennarino Perrotta, filologo. Mio padre Angelo filologo. Provengo da una famiglia di filologi. Deviai sull’arte laureandomi con Giulio Carlo Argan su Duchamp».
L’arte perché?
«Non lo so. Forse perché ogni tanto con mio padre si andava a mangiare all’osteria dei fratelli Menghi. Era un ritrovo di artisti. Potevi incontrarci Perilli, Accardi, Turcato. In quel locale di via Flaminia ci andavano anche Mafai, Omiccioli. Tra i cinematografari, Anna Magnani e Federico Fellini, Ugo Pirro e Solinas. Italo Calvino ascoltò in quel posto una storia che poi avrebbe riportato ne Il barone rampante . Molti mangiavano a credito. Altri tempi. Comunque, a forza di ascoltare discussioni, litigi, schieramenti tra neorealisti e astrattisti, mi venne voglia di capirne di più. Mi incuriosiva quel mondo di spiantati idealisti, di gente di talento in precario equilibrio tra il pranzo e la cena».
Chi frequentò?
«A un certo punto cominciai a vedere Franco Angeli. Avevo l’approvazione di mio padre. Gli piaceva che fosse comunista».
Suo padre militava nel partito?
«No, non credo proprio. Era antifascista. Lo era stato in modo serio durante il regime. Ho ritrovato delle lettere che si scambiavano con lo zio Giorgio. Parlavano meravigliosamente bene della Germania. Ma non quella nazista. La Germania della grande cultura tedesca, quella di Wilamowitz che, in qualche modo, fu il loro maestro».
Cosa ricorda di Giorgio Pasquali?
«Era un uomo bizzarro. Parlava in una lingua lievemente arcaica. Un pomeriggio, durante una vacanza a Cortina, mi invitò a fare una passeggiata. Salimmo fino in cima al trampolino di Zuel. Poi mi disse: “Annina da qui facciamo le boccacce al mondo”. Buffo, no? Riscendemmo che era tardi. Vidi la zia venirci incontro furiosa. Lo zio Giorgio era un po’ matto».
Diceva di Angeli.
«Ci frequentammo per un po’ dopo gli anni del liceo. Poi cominciai a vedere Mario Schifano. Aveva affittato una casa ad Ansedonia, vicino alla nostra. Avevo l’impressione che quelle conoscenze nel mondo dell’arte mi indicassero un percorso. Poi, all’inizio degli anni Sessanta, incontrai Duchamp. Era a Roma ospite di Gianfranco Baruchello. Vidi quest’uomo importante per tutto quello che aveva fatto. Gli dissi del mio lavoro su di lui e gli chiesi il permesso di tradurre Marchand du sel. Erano i suoi scritti. Me lo accordò. Aveva un’aria indefinita. Ironica e severa. Gli chiesi, a un certo punto, cosa avrei dovuto fare della mia vita».
Cosa rispose?
«Ecco, pensai, ora mi manda a quel paese. Invece disse: “Il faut que tu te transforme en argent”. Pensai, immediatamente, devo fare i soldi? È questo che mi suggerisce? Restai delusa. Passò del tempo senza che sapessi bene cosa fare. Decisi di seguire la compagnia del Living Theatre a Parigi. C’erano in mezzo anche altri personaggi. Gente bizzarra. Performers. Registi teatrali. Ken Dewey, un giorno che ero sul palcoscenico per le prove, mi chiese di improvvisare qualcosa. Scesi in una platea semivuota, mi avvicinai a una signora e le dissi: “Sono Annina Nosei, laureata con una tesi su Duchamp”».
La signora come reagì?
«Mi guardò un po’ preoccupata. Poi si presentò: “Sono Ileana Sonnabend”. Si era trasferita da un po’ a Parigi. Aveva divorziato da Leo Castelli. E aperto una galleria. Cercava un assistente. D’incanto tornai al grande amore».
Come fu il rapporto con lei?
«Le devo tantissimo. Stetti con lei poco più di un anno. Era il 1963. Organizzò una delle primissime mostre in Europa di Andy Warhol. Opere molto dure e provocatorie. Dominava una grande sedia elettrica. Poi Rauschenberg, l’anno dopo quando vinse con grave scandalo il premio internazionale alla Biennale di Venezia. Agli inizi del 1965 ottenni una borsa Fulbright. Lasciai Parigi e mi trasferii in California all’Ucla di Los Angeles».
Cosa faceva?
«Ricerca e insegnamento. Durante l’estate conobbi John Weber. Andai a trovarlo alla Dwan Gallery. Fu Rauschenberg a dirmi che era una persona che valeva la pena conoscere. Valse talmente tanto che dopo un po’ ci sposammo. Siamo rimasti insieme per sette anni. La storia finì. In modo civile. Restammo amici».
Cosa vi siete dati?
«Era un uomo intelligente e sensibile. Non privo di fragilità. Mi ha dato il senso dell’organizzazione, io gli portai le grandi novità italiane. E quando ci dividemmo capii che non volevo più stare a Los Angeles. Cercai un loft a New York. Volevo aprire una galleria. Una scelta da meditare. Alla fine aprii uno studio con Larry Gagosian proprio davanti al quartier generale di Leo Castelli, al 420 di West Broadway. Fu la prima e ultima volta che condivisi uno spazio con qualcuno. E lo stesso valse per Larry».
Come vi conosceste?
«Ci incontrammo nel comune interesse per i disegni di Twombly. Lui li voleva. Io li volevo. Cominciammo a fare affari insieme e nel 1978 aprimmo l’ufficio».
Perché la collaborazione non durò?
«Perché Larry era uno straordinario mercante che sapeva mettere l’arte al primo posto. Quando nei primi anni Ottanta aprì la sua galleria sulla ventitreesima seppe prendere quasi sempre il meglio. Per lui valeva il motto: la qualità paga».
Per lei?
«Anche, ma mi muovevo su una lunghezza d’onda diversa. Molto più breve. Avevo portato un po’ di italiani: Schifano, Chia, Paladino. Fu grazie a loro che aprii la mia galleria. Non potevo competere con i grandi. Diciamo che cominciai a ritagliarmi il ruolo di talent scout».
In questa veste scoprì Basquiat?
«Vidi casualmente alcune sue opere. Mi impressionò la loro forza. La spontaneità e il senso caraibico di una gioia nata da un profondo dolore».
Cosa intende per “caraibico”?
«Era come se attraverso quelle isole si fosse sedimentata l’esperienza storica dello schiavismo e del colonialismo. Coglievo nelle sue opere un’energia incredibile ».
A quel punto cosa fa?
«Lui non era presente. Nessuno sapeva come mettermi in contatto. Ma era sull’elenco telefonico. Lo chiamai. Ci parlammo. E finalmente ci incontrammo. Era il 1981. Il talento di Basquiat oggi è riconosciuto. Allora non era così facile percepirlo».
Un talento pari alla sua voglia di autodistruzione.
«A un certo punto divenne imprevedibile e ingestibile. Si faceva pesantemente di droghe. Tutte. Indistintamente. Mi accorsi che prendeva eroina a gogo. Si stava rapidamente buttando via. Non sapevo che fare. Come aiutarlo. Ci provò anche Bruno Bischofberger – un gallerista di Zurigo - a dargli una mano. Gli presentò Andy Warhol. I due cominciarono ad annusarsi. Fecero perfino delle opere a quattro mani e una mostra da Tony Shafrazi. Ma non andò bene. Era come se i rispettivi talenti si fossero annullati».
Comunque i due si frequentarono spesso negli ultimi anni.
«Warhol credo fosse ammirato dalla fresca brutalità di Jean-Michel. Gli mise anche a disposizione uno studio. Si vedevano spesso anche con Francesco Clemente e Keith Haring. Quest’ultimo era stato mio studente all’Ucla. E poi Andy morì improvvisamente. E fu una tragedia».
Per chi?
«Per Jean-Michel. Era disperato. Andai a trovarlo. Ricordavo perfettamente il nostro ultimo incontro e come lo ammonii dicendogli che mi sarei rifiutata di vederlo ancora in quelle condizioni. Gli raccontai che suo padre si era messo a piangere e a implorarmi che facessi qualcosa per lui. “E tu non dirgli niente, non dirgli in che condizioni vivo”, replicò. Ora lo rivedevo, a distanza di tempo. Spaurito. Debole. Depresso. “Adesso che è morto Andy non ho più nessuno con cui parlare. Vedi amica mia, ora prendo le vitamine, ho smesso con la droga”, piagnucolò».
Ed era vero?
«No. L’abisso se lo stava inghiottendo. Ricordo il suo ultimo anno di vita. Warhol era morto nel 1987. Arrivò il 1988. Fece una mostra bellissima all’inizio dell’estate. Premonitrice di ciò che stava per accadere. I grandi artisti sono come dei grandi profeti. Per le vacanze ero tornata in Italia. Una notte ricevetti una telefonata».
Da chi?
«Era Vincent Gallo. Mi disse che Jean-Michel era morto. Mi disse che la sera prima lo aveva portato in giro per distrarlo dall’ossessione della droga. Ma lui era riuscito ad acquistarne una dose mortale».
Lei come reagì?
«Mi sembrava che un percorso ineluttabile si fosse chiuso. Non ero sorpresa. C’è un punto in cui la morte si manifesta come qualcosa di irreale. La pensi come un’esperienza da cui prendere le distanze. Avevo voluto bene a quel ragazzo per il quale i collezionisti facevano la coda. Una volta qualcuno gli aveva chiesto: “Vuoi essere un grande artista o una grande tragedia?”. E lui rispose: “Perché non entrambi?”» Warhol, diceva, era morto l’anno prima. Lo ha conosciuto?
«Ovviamente sì. Aveva uno strano modo di comunicare. Un pomeriggio mi chiamò al telefono. Mi disse: “Mi piacerebbe invitarti una di queste sere a cena”. Ero incuriosita. E anche un po’ lusingata. Andammo in un buon ristorante. Andy parlò pochissimo. Sembrava non imbarazzato, ma quasi assente, preso da altri pensieri. Poi a un tratto mi chiese se avessi voluto un suo ritratto ».
Un ritratto di lei?
«Sì. Sorrise. Improvvisamente sembrava un bambino. Disse: “In cambio mi dai un’opera che hai di Carl Andre”. Rifiutai, pensando che il quadro di Carl Andre valesse molto di più. Avevo conteso quell’opera a mio marito John Weber. Nella divisione dei beni John mi disse “mi tengo Carl Andre e tu il Manzoni”. “Quale Manzoni?”, chiesi. “Tu”, rispose John. Ci fu un tempo in cui Piero Manzoni metteva una firma su una parte del tuo corpo trasformandoti in un’opera d’arte. Con tanto di autentica che ho conservato da qualche parte».
E come rispose a suo marito, anzi al suo ex?
«Gli dissi che era troppo facile e che comunque come opera sarei risultata invendibile. Insomma, mi presi il Carl Andre».
Manzoni perché la scelse?
«Eravamo abbastanza amici. Quando ero a Roma ci si vedeva spesso. Mi impressionava la quantità di cibo e di alcolici che riusciva a ingurgitare. Era tondo come un Vescovo. Se cominciava a parlare era capace di non smettere più. Forse è stato per tutto il tempo che gli ho dedicato che mi ha prescelto come opera d’arte».
Perché ha chiuso la galleria di New York?
«Perché a un certo punto non ce la facevo più. Basquiat era morto. Keith Haring poco dopo morì di Aids. Ero delusa. Finii a un certo punto da una psicanalista. Una di quelle che fanno terapia motivazionale. Durante una seduta mi tornò in mente la frase di Duchamp: “il faut que tu te transforme en argent”. Gliela dissi. Non seppe cosa rispondermi. Ma dove ero finita? Poi, un giorno compresi».
Il senso di quella frase?
«Andava letta come trasformazione alchemica. Diventare come il metallo più nobile. Mi sentii decisamente meglio. Pensai che in tutto quel tempo Dio non mi aveva mai telefonato. Potevo contare solo sulle mie forze. L’ho sempre fatto. Fin da piccola. Sono sempre stata, senza volerlo, una filologa della vita. Rivedo mio padre e i miei zii. Loro sarebbero soddisfatti di me».
Antonio Gnoli, la Repubblica 12/7/2015