Christian Salmon, la Repubblica 12/7/2015, 12 luglio 2015
PER VENDERE PRODOTTI NON BASTA IL MARCHIO CI VOGLIONO LE STORIE
In un suo famoso scritto, Roland Barthes innalzava la Citroën DS al rango di nuovo mito, paragonandola al Nautilus. Rispetto a quella Citroën, la nuova Fiat 500, eletta auto dell’anno nel 2008, non ha le virtù dell’antenata. Non ha alcunché di rivoluzionario nel design. Le prestazioni del motore non superano quelle della modesta Panda. Quanto a innovazione tecnologica, si limita a qualche gadget elettronico. Se il mito c’è, non è da cercarsi nel prodotto. È nella storia che il prodotto racconta. «La vita è un insieme di luoghi e di persone che scrivono il tempo. Il nostro tempo. Noi cresciamo e maturiamo collezionando queste esperienze», recita la pubblicità della 500, su uno sfondo di immagini del Maggio ‘68, di un concerto contro il razzismo e della caduta del Muro di Berlino. «Ci insegnano la differenza tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato», continua la voce narrante mentre vediamo Gainsbourg che canta La Marsigliese con il pugno alzato, il volto di Camus e quello della rapper Diam’s.
Il mito della DS in Barthes poggiava su un traguardo tecnologico. Nel mito della Fiat 500, l’oggetto non conta o conta poco. L’automobile non è concepita come un insieme di parti assemblate, ma come il prodotto dell’incontro tra uomo e macchina. Diventa un’esperienza e una narrazione. È una macchina del tempo che ci permette di ritornare e raccontare varie epoche. È una vera scatola nera dell’ultimo mezzo secolo. La nuova Fiat non è un semplice mezzo di trasporto, ma propone un’esperienza. Rappresenta una storia. Auto-finzione. Il lancio della nuova Fiat 500 è emblematico della rivoluzione avvenuta nel marketing negli ultimi vent’anni. Si tratta di un’evoluzione a partire dal marchio che ha dominato negli anni ‘80, a una storia del marchio che si impone dal 1995.
Secondo il futurologo danese Rolf Jensen, da qui al 2020 assisteremo allo sviluppo di una fase costituita dalla «società del sogno. Da una cultura del consumo che racconterà delle storie attraverso i prodotti che acquistiamo». Lo storytelling è la nuova ortodossia del marketing adottata da Apple e Starbucks, da Enron e Nokia, da Microsoft e Coca-Cola, Motorola e Google, Danone e Renault. A questa lista ora bisogna aggiungere alcune comunità religiose, importanti università americane come Harvard e musei come il Met. Secondo Seth Godin, l’inventore del marketing virale, «il nuovo marketing ha come obiettivo raccontare storie, e non concepire pubblicità». «Dimenticate il marketing tradizionale e quello centrato sul brand», dice William Ryan, l’uomo che cambiò l’immagine Apple col lancio dell’I-Mac. «Siamo nell’era della narrativa».
Nel celebre passaggio de Il Capitale sul feticismo delle merci, Marx scrisse: «Se potessero parlare, le merci direbbero: “Il nostro valore d’uso è d’interesse per l’uomo; a noi, in quanto oggetti, esso non interessa più di tanto. Ciò che a noi interessa è il valore”». Quello che per Marx fu un’ipotesi retorica ora è realtà: i marchi hanno cominciato a parlare. Il fatto è che l’obiettivo del marketing narrativo non è più solo convincere il consumatore ad acquistare un prodotto. Non si tratta più di sedurre o di convincere, ma di far credere. Che siate giovani o anziani, disoccupati o attivi, sani o malati di cancro, «siete voi la storia», voi siete gli eroi. Il neomarketing opera uno spostamento semantico: trasforma il consumo in distribuzione teatrale. Scegliete un personaggio e noi vi forniremo gli accessori. Datevi un ruolo, noi ci occuperemo di scene e costumi.
L’utilizzo nel marketing internazionale di archetipi universali junghiani permette la creazione di strategie di business standardizzate per tutto il mondo. Un esempio emerge da uno studio di Booz Allen del 2004, secondo il quale l’11 settembre non ha modificato la percezione di alcuni marchi statunitensi quali Nike, Kraft e altri nei paesi musulmani. Anzi, nel 2003, Coca Cola e Pepsi hanno registrato i loro migliori risultati, proprio durante l’intervento Usa in Iraq. Gli autori spiegano il risultato con il fatto che le narrative di quei marchi americani sono percepite come globali e non come statunitensi. Così il marketing narrativo assume il ruolo di sincronizzatore di differenti “visioni del mondo” contrapposte in termini politici o religiosi, ma che si riconciliano sul palcoscenico del mercato mondiale. Non deve quindi sorprenderci, se il Vaticano si converte allo storytelling.
(Traduzione di Marina Parada)
Christian Salmon, la Repubblica 12/7/2015