Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  luglio 12 Domenica calendario

GENERAZIONE SELFIE

C’è quel momento particolare che tutti abbiamo sperimentato, quando camminiamo per strada e cogliamo in una vetrina, di sfuggita, il riflesso di qualcuno e ci diciamo: «Però! Che essere umano attraente e amabile è quella persona…». Solo per renderci conto, pochi istanti dopo, che stiamo guardando il nostro riflesso… A quel punto ci diciamo: «Forse non dovrei essere così severo come sono di solito con la mia immagine». Ma naturalmente non cambia nulla, e qualunque sia il nostro rapporto con lo specchio, prosegue immutato.
Ed ecco che entra in scena il selfie. Ha detto Oscar Wilde (o T. S. Eliot o William Boyd, a seconda della fonte che avete consultato su internet) che «l’ultima cosa che impariamo nella nostra vita è l’effetto che produciamo sulle altre persone». Probabilmente è vero, ma i selfie ci costringono a riformulare la citazione così: «L’ultima cosa che impariamo nella vita è quanto ci fanno apparire fasulli, insinceri e stupidamente presuntuosi i selfie agli occhi degli altri».
I selfie sono specchi che possiamo congelare. Un insieme di selfie è un servizio fotografico che contiene solo foto lusinghiere. Il selfie ci consente di vedere come si guardano gli altri allo specchio facendo la faccia fascinosa quando non c’è nessuno — se non fosse che di questi tempi c’è sempre qualcuno, in ogni posto e in ogni momento. E non conosciamo tutti il rossore in viso e il tono finto umile di un selfitaro quando gli parliamo di un selfie che ha postato? «Quella foto? Ah sì, ha-ha… sai, è solo una foto fatta così, che avevo nella macchinetta. Non avrei dovuto mettere una foto del genere su Facebook. Però sto bene, vero?».
I selfie sono i cugini di secondo grado dell’ air guitar (l’assolo di chitarra simulato). I selfie sono i genitori orgogliosi del dick pic (l’autoritratto del proprio uccello). I selfie sono, per un meccanismo contorto, all’origine della parola frenemy (l’amico-nemico). I selfie sono, per un meccanismo non particolarmente contorto, all’origine della moda della depilazione maschile. A volte mi domando come sarebbero i selfie in Corea del Nord. I selfie teoricamente si basano sul controllo, o — se avete una mentalità filosofica — sull’illusione dell’autocontrollo. Con un selfie, pensa qualcuno, si aderisce a una tacita nozione collettiva per cui tutti dobbiamo apparire eternamente freschi, giovani e provocanti. Con il selfie ci si trasforma in un prodotto. Si rinuncia alla forza della propria sessualità. O forse stiamo concettualizzando troppo: forse si è semplicemente innamorati di se stessi. Io penso che siano gli effetti collaterali imprevisti della tecnologia a definire direttamente o indirettamente la tessiture e gli aromi delle nostre epoche. Guardate a quello che ha già fatto Google al XXI secolo. Nel 2002, quando i telefoni intelligenti sono venuti al mondo, credo che se aveste radunato un gruppo di intelligenti esperti di media in una stanza con una scorta di caffè e qualche buon panino, prima della fine della giornata sicuramente l’avvento del selfie come inevitabile effetto collaterale dello smartphone sarebbe stato pronosticato. In realtà non c’è nulla di veramente sorprendente nei selfie. L’unica cosa sorprendente è il numero di anni che ci sono voluti per individuare e dare un nome al fenomeno. Faccio notare tuttavia che da quando il fenomeno selfie è stato enunciato e denunciato, i selfie sono dilagati ancora di più, occupando probabilmente tutto quel volume di banda che un tempo era appannaggio di principi nigeriani e pubblicità di procedure per l’ingrandimento del pene.
Ogni giorno vediamo migliaia, se non decine di migliaia, di immagini: jpeg, tiff, gif, tv, mpeg eccetera eccetera. Se una persona si sveglia, fa colazione e poi sta attaccata a internet tutto il giorno, potrebbe andare a letto la sera con tutti ricordi (colazione esclusa) da un certo punto di vista artificiali ( e forse è il significato più autentico dell’espressione intelligenza artificiale ). E allora, se dobbiamo guardare così tante immagini, forse è meglio che le immagini che vediamo, di amici e personaggi famosi, siano attraenti, invece che casuali o inutili: anche se una cosa che mi manca dell’era analogica è quel cestino di vimini vicino al telefono fisso pieno di foto venute male ai party e ritratti poco lusinghieri scattati in giorni ventosi. Ma intorno al 1999 quelle foto sono scomparse, e se da un lato viviamo in un mondo di immagini senza fine, dall’altro le immagini che vediamo non vengono quasi mai concretizzate sulla carta.
Forse quello che ci infastidisce dei selfie — che tecnicamente sono autoritratti — è la loro fugacità. Non abbiamo mai l’occasione di incorniciarli e appenderli al muro: rimangono poco perfino sopra le bacheche di Facebook, figuriamoci sopra il camino. Probabilmente sto dicendo che mi mancano le foto venute male, gli scarti. I rari selfie imbarazzanti che vengono diffusi di solito hanno la forma di memi virali e foto di figuracce, e chi vorrebbe mai trovarsi in una simile situazione?
Ci saranno ancora più selfie in futuro? Sì! Migliaia di miliardi di più, ma il selfie del futuro sarà il selfie 3D, dove uno scansiona e poi stampa la propria effigie tridimensionale su una MakerBot al centro commerciale o — via via che le stampanti 3D diventeranno economicissime (cosa che sta avvenendo mentre scrivo queste parole) — a casa sul top della cucina per un dollaro e 95.
Continueranno a esserci poche foto stampate nel nostro futuro (nessuno sembra volerle, in fin dei conti), ma preparatevi a essere inondati da piccoli busti di plastica stampati in 3D dovunque si giri lo sguardo, modificati e no: lui, lei, io, loro, loro con le corna da diavolo, lei con tre occhi, voi con una forchetta piantata nella fronte. Sarà divertente, ma la cosa strana di un busto stampato è che non è esattamente la terza dimensione, e non è nemmeno la seconda dimensione… è come la fotografia che assume pose da scultura, una seconda dimensione e mezza.
Pose è la parola chiave. Il nuovo selfie ci consentirà, con ancora più efficacia, di assumere una posa e proporre un modello di chi pensiamo di essere, invece di chi effettivamente siamo. E cosa c’è di male in questo? Gli artisti lo fanno da migliaia di anni e nel XXI secolo, con tutta questa nuova tecnologia supercazzuta che abbiamo, siamo tutti, se non altro, artisti. Ma… siamo poi sicuri sicuri di essere tutti artisti? E se non fossimo tutti altro che formiche? Magari i nostri genitori ci dicevano che saremmo diventati persone creative, se solo ci fossimo sforzati, ma ci è sempre suonato un po’ falso: forse stavano solo chiedendo a noi di realizzare i loro desideri, cosa che per un motivo o per l’altro non erano riusciti a fare da soli durante la loro vita.
Ed ecco che entra in scena l’#artselfie. Risolve un mucchio di problemi. È voi e in più è… arte! Più o meno. È un selfie, solo che invece di un hashtag di Instagram applicato sopra un normale selfie, l’artselfie contiene semiotica esclusiva all’interno della cornice stessa. Scontornate e applicate un hashtag e non vi sentirete più una formica. Almeno per un po’, fin quando non troverete una posa migliore, con una luce migliore, o meglio ancora un Rothko che mette in risalto la vostra carnagione. Aspetta… ma quello lì non è un cane-palloncino di Jeff Koons?
(Traduzione di Fabio Galimberti)
Douglas Coupland, la Repubblica 12/7/2015