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 2015  luglio 12 Domenica calendario

IL DIAVOLO E LA TABACCAIA

Partiamo con un celebre personaggio felliniano, la tabaccaia di Amarcord. Quel che ci viene comunicato con questa immagine è la condanna (e la nostalgia) dell’autore per un mondo in cui la sessualità viene repressa da un’educazione codina ed è quindi incline a esplodere in modalità esagerate, che segnano di un marchio grottesco e peccaminoso non solo la vita sessuale adulta, ma anche e soprattutto i primi incerti approcci adolescenziali, le prime timide «esperienze». Presto, infatti, la tabaccaia si apparta con il giovane protagonista e gli offre una visione più satanica che celestiale.
Ancora più chiaramente, dieci anni prima, lo stesso Fellini in Otto e mezzo aveva sovrapposto un’altra figura di sensualità smodata e disgustosa – la Saraghina – a un gruppo di ragazzi in evidente cataclisma puberale e a un paio di preti che li rincorrono per bloccare sul nascere il loro tentativo di sfuggire, sia pure attraverso l’orrore, alle strettissime maglie della loro sciagurata educazione.
Spostiamoci ora dal 1963 di Otto e mezzo e dal 1973 di Amarcord al 2010 delle Velone di Antonio Ricci, su Canale 5, e consideriamo la fotografia di una concorrente, Lucia Scagnolari di anni settanta, presentata come cartomante, maga e cubista... Non ha nulla di minaccioso o inquietante; siamo solo di fronte a una vecchia che si agghinda e si atteggia in modo bizzarro e con il suo sorriso avalla il fatto che si rida di lei. In controluce, si profilano giudizi e atteggiamenti più generali e radicali: abolita ogni ipocrisia, la donna «è puttana»; ha piacere a qualsiasi età e a qualsiasi livello di avvenenza a mettere in mostra i suoi beni, e quindi, tutto sommato, le battute pesanti e i gesti allusivi che spesso accompagnano la presenza femminile sono giustificati. Qual è il fondamento della diversità fra queste immagini? Da dove nasce?
... Da autori come Sartre abbiamo imparato che la politica è situazionale: la medesima scelta può risultare progressista o reazionaria, giustificata o ingiustificata, a seconda di dove è collocata – dei suoi interlocutori e avversari, delle altre opzioni sul tavolo, delle conseguenze che adottarla avrà in questo momento storico. Un sostegno al governo di Israele ha un significato molto diverso nel 1967 e nel 2014; un’opposizione alla guerra è più o meno valida se si tratta di lottare contro gli eserciti (e i campi di concentramento) hitleriani o contro le presunte armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. È una tesi di matrice hegeliana: le idee non stanno ferme, fisse in una loro statica autoidentità; si muovono, spesso si volgono contraddittoriamente nel loro opposto. E la tesi è stata usata, nella dialettica hegeliana e nelle sue derive ironiche e decostruttive, per sminuire di fatto ogni valore – per riconoscerlo figlio di un particolare momento del concetto o acrobazia del testo; per storicizzarlo, relativizzarlo e sconfessarlo nella sua pretesa di ergersi a criterio di giudizio assoluto. Di assoluto, in questa visione, c’è solo lo stesso processo dialettico.
In un sistema kantiano, sembrerebbe una tesi indigesta e pericolosa, ma così non è: si tratta di rifiutarne l’assolutezza, di subordinarla al sistema e farne un prezioso strumento per articolare la nozione di valore. Un valore politico – come la democrazia, l’uguaglianza, la pace – non è a sua volta statico. È un esempio di hegeliana identità nella differenza, e rimanergli fedeli impone di riconoscerlo nei suoi cambiamenti, di acquisire consapevolezza del fatto che avrà manifestazioni diverse in circostanze diverse: difenderlo vorrà dire allora parlare e agire in modo diverso. Non a vanvera, ma nel rispetto di una narrativa che sostanzierà la sua identità dinamica, come la narrativa di un grande romanziere sostanzia l’identità dinamica dei suoi personaggi, a dispetto delle crisi che attraversano e delle trasformazioni che le crisi inducono in loro.
Quel che vale per la politica vale per l’etica. Anzi, io credo (e ci ritornerò, ma in generale non è una battaglia da combattere in questa sede) che non possa essere altrimenti, perché fra etica e politica c’è uno stretto legame – il giudizio sul comportamento individuale non può che implicare un giudizio sulle pratiche e sui modelli di ruolo correnti in una data collettività, quindi sulla natura istituzionale e legislativa, esplicita e implicita, di quella collettività. Ogni Stato (leggiamo nella Repubblica di Platone) educa moralmente cittadini a propria immagine e somiglianza. Lasciando comunque da parte questo discorso, anche i valori etici vivono un’identità che è perpetuo cambiamento, e anche nei loro confronti dobbiamo essere attenti e sensibili alle mutate prospettive che assumono e che ci impongono continua vigilanza. È alla luce di tali considerazioni che dobbiamo intendere il contrasto fra le immagini precedenti, e il processo che ha portato dai surreali capolavori felliniani a quello sconcio spettacolo televisivo. Ciò che è cambiato è la situazione in cui le immagini sono state offerte al pubblico ... Le immagini di Fellini s’inseriscono con violenza critica in un mondo bacchettone che la sua opera (prima ancora che lui stesso) disapprova e denuncia, indicandolo come responsabile di guasti lancinanti inferti alla psiche di individui e gruppi. La situazione in cui viene presentata la tardona di Antonio Ricci, invece, ha perso ogni punto di riferimento, tradizionale o contemporaneo, ha dichiarato il tracollo degli ideali, e l’unico pseudovalore (valore per difetto: risposta correttiva alla richiesta di valore) che vi è proclamato è la pura presenza, meglio se televisiva. Essere (e aver valore) è apparire, e per apparire bisogna colorarsi di eccesso e di stravaganza. Il circo ricordato, sempre da Fellini, con rimpianto e con angoscia, e da lui proposto come cifra per designare una realtà macabra e tormentosa, è ora divenuto la realtà stessa, nella sua forma più ovvia e quotidiana, e se ne può ridere con efferatezza come si rideva delle violenze subite da un clown.
In modo analogo, quando le donne si svestivano negli anni sessanta e settanta del secolo scorso, lo facevano per affermare la loro libertà sessuale e la ritrovata padronanza del proprio corpo. Dopo decenni di spettacoli e atteggiamenti da bordello, una donna svestita è, nella maggior parte dei casi,... un sigillo posto sulla reificazione e strumentalizzazione del corpo femminile, una pietra tombale piazzata con spregio su ogni ipotesi di liberazione. E una donna dovrà interrogarsi, nella nuova situazione che si è così venuta a creare, su quali armi sia opportuno utilizzare per proseguire in una lotta che è sempre uguale ma anche sempre diversa, entro un territorio in cui le stesse cose non sono mai le stesse cose.
Ermanno Bencivenga, Domenicale – Il Sole 24 Ore 12/7/2015