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 2015  luglio 12 Domenica calendario

ATTENTI, WIKIPEDIA È UNO ZIO STRANO

Charles Seife è un appassionato di bufale. Quando si tratta di smascherare false teorie o guru imbroglioni, il professore di giornalismo della New York University è pronto. Ne sa qualcosa la sua vittima più illustre: Jonah Lehrer, star della divulgazione scientifica caduto in disgrazia nel 2012 perché sorpreso a copiare e inventare storie. Nei giorni del processo mediatico, la rivista «Wired» decise di affidare proprio a Charles Seife il compito di valutare l’etica giornalistica dell’accusato, all’epoca redattore del «New Yorker». Come è noto, Lehrer fu bocciato, ma la fama di demistificatore di Seife — 43 anni, newyorkese di nascita, due figli, una laurea in Matematica a Yale — si impose nelle redazioni e nelle aule universitarie d’America.
Non sorprende dunque che il suo libro Le menzogne del web , in uscita in Italia per Bollati Boringhieri, abbia l’aspetto di una guida brillante al lato sbagliato dell’informazione o, come ha scritto il «New York Times», di «un talismano per i creduloni».
Professore, le bufale sono sempre esistite eppure lei sostiene che siano un «sottoprodotto della rivoluzione digitale». Può spiegarci perché?
«La natura stessa del digitale fa sì che sia un amplificatore di notizie false: l’informazione circola molto più velocemente e ogni individuo è in grado di far sentire la propria voce. Prima di internet, per propinare una realtà alternativa servivano le risorse di uno Stato totalitario, oggi chiunque può alterare la percezione del mondo. Succede perché sono venuti meno i gatekeeper , i filtri in grado di valutare cosa vale la pena ascoltare, leggere, vedere. A fare le spese di questo cambiamento radicale della conoscenza sono gli esperti, le cui voci sono spesso coperte dal rumore».
Eppure il web sociale sembra essere un potente strumento di demistificazione. Prima di internet era molto più difficile verificare l’attendibilità di una cronaca giornalistica o di una storia. Oggi le notizie false o copiate durano al massimo qualche ora...
«Non c’è dubbio che il fact-checking sia favorito dal web — mentre le redazioni hanno sempre meno professionisti che se ne occupano —, però nella confusione il vero e il falso si confondono più facilmente. Anche su temi molto delicati, ad esempio i vaccini, i diversi punti di vista hanno lo stesso peso. E visto che online tendiamo a connetterci con i nostri simili, finiamo con il chiuderci nelle nostre opinioni: il mondo è così paradossalmente diventato più piccolo».
È la teoria della «bolla del filtro» di Eli Pariser, molto efficace nel caso di un web statico in cui è l’utente che naviga in solitudine tra siti e forum che «gli somigliano». Non crede che i social network ci obblighino invece a punti di vista diversi?
«Considero Twitter il più grande Speakers’ Corner internazionale (il famoso angolo di Hyde Park a Londra dove chiunque può tenere comizi su qualsiasi argomento , ndr ): centinaia di migliaia di persone fanno sentire la propria voce, e basta avere un po’ di esperienza e abilità per raggiungere un pubblico vastissimo. Proprio per questo anche le idee più folli e sbagliate possono trovare udienza online. A furia di ascoltare quelle voci, cediamo alla tentazione di un altro mondo, un’altra realtà. E coloro che si impegnano per difendere la verità, “gli esperti”, vengono messi da parte».
Dunque lei crede che internet crei una realtà diversa da quella fisica?
«Penso che sul web le interpretazioni valgano quanto i fatti. Torniamo ai social network: fidanzati, amici, figli, colleghi vivono sempre di più in luoghi diversi e i loro rapporti spesso sono mediati da Facebook. L’idea che possiamo farci di una persona tramite la sua pagina Facebook corrisponde alla realtà? Io credo proprio di no. Allo stesso modo, quando utilizziamo Google per informarci, dobbiamo essere consapevoli che è un algoritmo a decidere cosa è importante leggere e quale contenuto ha la priorità sugli altri».
Nel libro sembra avercela in particolare con l’enciclopedia online Wikipedia, che paragona a «un vecchio zio eccentrico», le cui storie e informazioni vanno prese sempre «cum grano salis» .
«L’aver riconosciuto a tutti la possibilità di creare e modificare le pagine è stato un riconoscimento più all’anarchia di internet che alla sua democrazia. I cambiamenti inseriti da qualsiasi compilatore, indipendentemente dalla sua qualifica e competenza, vengono mostrati in tempo reale al mondo, dando a tutti la sensazione e il potere di influenzare la percezione del mondo».
Ci sta dicendo che si stava meglio prima?
«Sicuramente è un risultato straordinario avere accesso a tutta questa conoscenza, ma il flusso è così vasto che rischia di fare danni. Il sapere non è solo universalmente accessibile, è anche universalmente modificabile. Ci stiamo adattando al nuovo stato ma la nostra mente non è ancora pronta. Il cervello dell’uomo era abituato a operare selezioni e giudizi basandosi su poche centinaia di voci e opinioni e funziona ancora così, nonostante adesso sia immerso in milioni di punti di vista diversi. Siamo passati da un regime di scarsità a un regime di abbondanza che non sappiamo gestire».
Lei sostiene che le aziende produttrici di beni digitali utilizzano tecniche per creare «scarsità artificiale». Può spiegarci in che modo?
«Libri, film, informazione, software possono essere replicati all’infinito e in questo modo perdono il valore economico che avevano prima, lo status di pezzi unici o rari. Eppure le aziende stanno provando in tutti i modi a mantenere inalterato il valore dei propri prodotti attraverso il copyright o con dispositivi che ne impediscano la riproduzione. Ma il processo è macchinoso e destinato a fallire».
Intanto si diffonde un’economia basata sull’uso dei servizi e non sulla proprietà di beni.
«Abbiamo delegato alle aziende la proprietà delle nostre informazioni e della nostra conoscenza. E, a furia di fare troppo affidamento sulle macchine, stiamo diventando pigri».