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 2015  luglio 13 Lunedì calendario

«DA MESSI A MESSI

COSi’ NON HO MAI SMESSO DI VOLARE» –
Spengo la sveglia che stava cantando «The look of love» di Dusty Springfield. Apro gli occhi, mi rendo conto di non aver dormito molto. Ma ho quella sensazione di sorriso stampato sul volto. Chi potrebbe biasimarmi? Ieri sera ho chiuso gli occhi dopo avere fischiato l’ultimo atto della Coppa del mondo: Germania-Argentina. Vorrei rotolarmi in quella sensazione unica e irripetibile, ma il volo per tornare in Italia non aspetterà i miei capricci di arbitro orgoglioso. Ultimo sguardo fuori dalla finestra, al lungomare di Barra de Tijuca a Rio: mi ha fatto compagnia per i 46 giorni ospite in Brasile. A casa mi riporterà una compagnia tedesca: per l’occasione ha le hostess che indossano la maglia della nazionale trionfatrice al Mondiale. Durante il volo dei passeggeri riconoscono la terna della finale: si avvicinano per una fotografia, in pochi secondi io e i miei due «soci», Andrea Stefani e Renato Faverani, ci troviamo a parlare di calcio nel mezzo della business con un gruppetto di persone. Renato, il più estroverso, ha la malaugurata idea di svelare che ho nel bagaglio a mano il pallone della finale, preso a calci qualche ora prima sul prato del Maracanà e ora senza pace nemmeno dentro un aereo: passa di mano in mano. Mi piace notare il volto di questi signori, apparentemente molto seri e forse dirigenti di aziende importanti, cambiare espressione appena lo accarezzano: negli occhi si rivede il bambino che ha sognato almeno una volta di diventare un calciatore.
TORTA
Il rientro in Italia è tranquillo, ho dribblato tutti dicendo che sarei atterrato a Linate e invece arrivo solo soletto a Bologna. Chicca, la mia compagna, è rimasta a Rio per altri due giorni: prima non c’erano voli disponibili. Quando ci ritroviamo è già tempo di ripartire: ho bisogno di pace e calma. Ritrovare la mia dimensione. Una settimana a Tarifa: amici bolognesi hanno preso un chiringuito sulla spiaggia e un tramonto meraviglioso sullo stretto di Gibilterra fa da cornice ai nostri volti distesi. Una settimana dopo, riecco l’Italia: ho il raduno di Sportilia. All’ingresso vedo una bandiera italiana lunga 8-9 metri. I colleghi della Can hanno scritto «Campioni del mondo»! La prima reazione, istintiva, è d’imbarazzo. Dopo prevale la voglia di condividere il risultato raggiunto. Io e «i soci» organizziamo un dopocena con torta meravigliosa a forma di campo da calcio, la scritta «ItAIA CANpioni del mondo» e 3 stelle. Le parole storpiate evidenziano il terzo mondiale vinto dai fischietti italiani. Gonnella, Collina e Rizzoli... Fa impressione accostare il mio nome ai loro.
IL CORO
La mattina dopo mi sveglio consapevole che tutto quello raggiunto è già parte del passato. Nessuno mi regalerà nulla solo per via della finale. Un anno fa avevo la stessa sensazione dopo avere ben diretto l’ultimo atto in Champions. Ora è più forte, aumenteranno le aspettative, la responsabilità, ma sono pronto. Ho visto colleghi più illustri perdersi una volta raggiunta la vetta. Non voglio commettere lo stesso errore, pensare di essere arrivato o non avere più «fame». Ho voglia di continuare a lottare e tanti obiettivi da raggiungere. Il primo: 200 gare in Serie A nella stagione che sta per cominciare. Già, cominciare. Ho l’idea di riprendere da dove ero partito prima del Mondiale: l’amichevole del Bologna a Sestola. «Ricordati sempre chi sei e da dove vieni», ripete mia madre. Il match mi serve soprattutto per rimettere i «piedi a terra» dopo essere stato sulla luna. All’improvviso, un coro dalla tribuna: «Portaci, portaci, portaci in Europa... oh Rizzoli portaci in Europa». È la prima volta che sento inneggiare all’arbitro. Sensazione strana, ma molto piacevole. Alzo il braccio, un po’ impacciato, per ringraziare ed esco dal campo sorridente, in mezzo a ragazzini e papà che chiedono una foto, nemmeno fossi un campione.
IL LIBRO
La stagione comincia bene: in Europa punto alla semifinale. E’ tempo di rimodellare la playlist con qualche nuovo pezzo. Da «Dangerous» di Guetta, «Uptown funk» di Mark Ronson arrivando all’immancabile «We are one», canzone ufficiale del mondiale, di Pitbull/Jennifer Lopez. Il campionato si presenta subito difficile: c’è Milan-Juve alla seconda giornata. I dirigenti prima del match mi fanno i complimenti per il Mondiale: parole gradite. In campo niente è cambiato. Quando sbagli puoi chiamarti Rizzoli, Collina o Gonnella... Nessuno perdona un errore. Sento di non avere perso nemmeno un pizzico della voglia di arbitrare, semmai ne ho ancora di più. Percepisco la stima del presidente Nicchi: ho portato la terza stella sulle nostre divise. L’Aia ne aveva bisogno. Dopo la caduta del 2006 ci siamo rialzati con il lavoro: oggi la nostra associazione ha un gruppo per bene e di grande professionalità. Il nostro è un mondo sconosciuto persino a chi mastica pane e pallone: per questa ragione accetto di fare un libro che parli del nostro universo. Far vedere il calcio da una prospettiva diversa: gioie e dolori, ansie e paure, successi e delusioni. Provare a spiegare la passione. Insomma, che gusto c’è a fare l’arbitro.
PARIGI
Fine settembre, sul display del cellulare appare COLLINA. «Come stai? Tutto bene?». Le chiamate di Pierluigi non sono mai casuali. Specie quando cominciano con quella domanda. «Sì, tutto bene», rispondo. Poche chiacchiere convenzionali, poi dice: «Fai Psg-Barcellona». Spettacolo. Era la sfida che aspettavo, che speravo. La gara rispetta le aspettative: uno scoppiettante 3-2 pieno di emozioni. La carica di adrenalina necessaria per guardare avanti. I mesi successivi sono scanditi da importanti sfide di A. Fiorentina-Juve e Roma-Milan chiudono un dicembre impegnativo. Gennaio è sempre complicato: il designatore Messina mi affida Cagliari-Cesena, già scontro salvezza. Poi Lazio-Napoli, terza contro quarta. E infine Genoa-Fiorentina. Al 30’ del primo tempo avverto un leggero fastidio al polpaccio. Su una ripartenza ecco una morsa al soleo, come se fosse stretto tra i denti di un dobermann. «Non ce la faccio», dico nell’auricolare. Interrompo il gioco: sostituito dal giovane Di Bello. L’infortunio mi tiene fuori 4 settimane: non sono disponibile per Roma-Juve, la fa a un Orsato molto in forma. Io sono pronto per un finale di stagione scoppiettante. In Champions ho il ritorno degli ottavi più delicato: Atletico Madrid-Bayer Leverkusen. Felicissimo delle difficoltà: dopo il k.o. tornare subito ai massimi livelli è fondamentale. Mi rattrista solo non avere i vecchi «soci»: sia Faverani, sia Stefani hanno lasciato il ruolo da internazionale a fine 2014. In Spagna ci sono Tonolini e Manganelli: casco in piedi, gli assistenti italiani sono i migliori al mondo.
BARCELLONA E POI...
Aprile scivola via: Roma-Napoli e Juve-Lazio precedono la chiamata di Collina: «Come stai? Tutto ok?». Sorrido, mentre dico «tutto bene» e aspetto. Semifinale Barcellona-Bayern. Obiettivo raggiunto. Durante il riscaldamento alzo lo sguardo, il Camp Nou è stracolmo. «Che bello essere qua. Che bello non essersi fermato dopo la finale mondiale», penso. Un sorriso ai nuovi «soci», si comincia. Ritmi incredibili, fischio pochissimo. Messi sblocca il match. E poi lascia tutti a bocca aperta sul 2-0: finta spaziale e fa secco Boateng e dopo supera Neuer (avete presente quanto è grande, quanto è alto...) con un pallonetto. Uno dei gol più sensazionali che ho visto dal vivo, a circa 8 metri di distanza. E’ il bello di fare l’arbitro. Ritorno «sulla terra». E in Italia. Sono a un passo dal secondo obiettivo: ho 199 gare in A. Il destino mi riserva una piacevole coincidenza. Nella carriera mi mancava solo un derby: Verona. Arriva, sono a quota 200. E non è finita, poi mi tocca anche l’infuocatissimo derby di Roma: chi vince arriverà secondo. Qualcuno ancora chiede: «Che gusto c’è a fare l’arbitro?». Rispondo: «Vuoi dire: che gusto c’è a fare l’arbitro!».