Giorgio Ponziano, ItaliaOggi 11/7/2015, 11 luglio 2015
IL MULINO È DIVENTATO ANTIRENZIANO
Erano intellettuali controcorrente. Nel periodo della dominazione democristiana diedero vita a un’associazione, Il Mulino, che appoggiava gli Stati Uniti nella guerra fredda con l’Urss ma preconizzava l’apertura ai socialisti e un minore ingessamento della politica italiana. Tuttora Il Mulino è un pensatoio politico.
Ne fanno parte tra gli altri Giuliano Amato, Angelo Panebianco, Piero Bassetti, Ilvo Diamanti, Ernesto Galli Della Loggia, Arrigo Levi, Arturo Parisi, Gianfranco Pasquino, Romano Prodi, Alberto Quadrio Curzio, Ignazio Visco. Pur con differenti accenti salutarono con simpatia l’avvento di Matteo Renzi, il rottamatore che doveva cambiare verso alla politica. Tanto che sulla scia del renzismo nascente uno dei più influenti rappresentanti del Mulino, Carlo Galli, accettò di presentarsi nella lista Pd e venne eletto alla Camera.
L’idillio è però bruscamente finito tra Renzi e quelli del Mulino. Panebianco e Galli della Loggia hanno scritto editoriali contro, Amato e Prodi hanno preso le distanze con signorilità ma palesemente, Pasquino e Parisi si sono messi a sostenere che tutto è da rifare. La ciliegina sulla torta è Galli, che ha platealmente votato no alla legge sulla #buonascuola, che Renzi considera un suo cavallo di battaglia. Quindi il voto contrario ha un valore politico, che Galli non smentisce: «Il partito deve dare spazio a tutte le componenti e a tutte le culture. Non ci si può appellare alla disciplina di partito senza partito. Ci vuole, infine, libertà di discussione che, al momento, invece non c’è».
Gli intellettuali abbandonano il carro renziano e non è cosa da poco in questo momento di afflosciamento del consenso per il premier. La buonascuola è la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Dice Galli: «Questa non è una riforma della scuola, non si è mai parlato di contenuti. E’ una legge nata da una cultura politica che è fondata sul verticismo, il liberismo e l’aziendalismo. Parte dal presupposto che, se c’è qualcosa che non va, basta aumentare i poteri del capo: una sorta di decisionismo de ’noantri’».
Galli è docente di storia delle dottrine politiche all’università di Bologna. I suoi interessi di ricerca riguardano in particolare la storia del pensiero politico moderno e contemporaneo. Dirige la rivista Filosofia politica, è stato membro della direzione dell’associazione del Mulino e presidente del consiglio editoriale dell’omonima casa editrice. È stato eletto deputato nel 2013.
Col voto contro la buonascuola s’è di fatto messo di traverso al renzismo. E usa parole dure: «L’ideologia di questo provvedimento è coerente con lo stile politico dell’attuale leader: le riforme, a scarso (ma, va detto, non nullo) investimento economico, sono un’occasione per una resa dei conti con l’assetto democratico – certo, sfilacciato e per molti versi residuale – della scuola della Prima repubblica. In questo caso, con i sindacati della scuola e con l’intero corpo docente, accusati di apatia, inerzia, conservatorismo corporativo e di refrattarietà alla valutazione, che è vista, insieme all’uomo solo al comando, come la panacea di tutti i mali e come l’essenza stessa della scuola; con grave errore, poiché quell’essenza sta nell’educazione come processo culturale complessivo e continuo, di cui la valutazione è parte subordinata».
Galli non è il solo. La rivista Il Mulino ospita un’analisi di Maria Pia Donato, docente di Storia moderna all’Università di Cagliari e all’Institut d’Histoire moderne et contemporaine di Parigi: «Quella di Renzi è una scuola a sportello, per così dire: per le famiglie (ammesso che siano in grado di scegliere); per le aziende (ammesso che esistano); per il territorio (ammesso che ciò non sia solo la politica locale). La scelta ideologica di fondo è un ulteriore, significativo passo indietro dello Stato. Non stupisce quindi che si concedano sgravi fiscali per le scuole private del «sistema scolastico nazionale».
Quanto all’autonomia, indicata come la grande innovazione della riforma, la Donato annota: «la scuola rischia di diventare ancor meno autonoma nel definire e perseguire degli obiettivi educativi perché, oltre a sottostare ancora alla dittatura dei programmi, del monte-ore e dei curricoli (visto che di ritoccarli non si parla), subisce un’ulteriore verticalizzazione per via finanziaria .. Le scuole (che non recuperano autonomia di cassa) progettano, poi negoziano con i vertici. Il ministero, visto il budget, sceglie cosa finanziare, non è ben chiaro se con criteri competitivi o perequativi, ma inevitabilmente attraverso mediazioni opache».
Non è finita. Pure la rivista specializzata sulla scuola (Scuola democratica) edita dal Mulino fa a pezzi la riforma firmata da Stefania Giannini: «è previsto che la determinazione dell’organico sia determinato dagli uffici territoriali dell’Amministrazione. Mentre al dirigente spetta proporre l’utilizzo delle risorse assegnate: tutto come prima, salvo per qualche unità di personale che forse si avrà in più. Un preciso segnale di ri-centralizzazione nella gestione della scuola e proprio in quell’aspetto che giustamente era stato indicato dal governo come centrale per l’autonomia».
Che un gotha di intellettuali come il Mulino dopo averlo inneggiato faccia dietrofront su Renzi non è evento da sottovalutare. Anche perché dalla scuola il redde rationem passa ora alle riforme costituzionali e da qui a settembre il dibattito rischia di infiammarsi. Intanto Carlo Galli boccia senza appello la legge elettorale e chiede di modificarla: «la minoranza diventa maggioranza, o con un premio (meglio definirlo di minoranza) o con un ballottaggio. E non è una trasformazione da poco: la quantità non trapassa in qualità gradatamente, ma con un salto, con un miracolo; resta se stessa (minoranza) e al contempo diviene altro da sé (maggioranza). Vi è grande differenza tra questa legge premiale e l’effetto maggioritario dei collegi uninominali: mentre questi esprimono la volontà di un corpo elettorale già organicamente modellato in se stesso (in collegi uninominali, appunto) in modo tale da produrre (non necessariamente, certo) una maggioranza, l’Italicum prevede invece una secca aggiunta di seggi rispetto al risultato ottenuto col proporzionale». Ma soprattutto: «vi è la trasformazione della democrazia parlamentare in un premierato che, essendo di fatto privo di contrappesi politici, è in realtà una «democrazia d’investitura rafforzata».
Giorgio Ponziano, ItaliaOggi 11/7/2015