Riccardo Sorrentino, Il Sole 24 Ore 11/7/2015, 11 luglio 2015
ATENE: TANTI SACRIFICI, POCHI RISULTATI
Se lo meritano? Quanti sacrifici hanno fatto? I discorsi sulla vicenda greca sono ormai tristemente intessuti di moralismi. Anche diversi noti economisti, che per professione dovrebbero fare un calcolo di costi e benefici - non solo monetari - si sono lanciati in simili argomentazioni.
I dati non confortano però l’idea di un paese che abbia continuato a vivere spensieratamente, dopo lo scoppio della crisi. Si pensi al governo, alla fonte - secondo una certa oleografia, non necessariamente falsa - di tutti gli sprechi. Le spese pubbliche, in valore assoluto sono calate, e tanto: da un massimo di 128.3 miliardi del 2008 sono passate a 88.4 miliardi nel 2014. È una flessione del 31%: la spesa primaria, secondo la Commissione Ue, è rimasta a lungo al di sotto dei tetti massimi concordati .
In valore assoluto - in termini dunque di “sacrifici” - nessun altro paese di Eurolandia ha fatto tanto. Nello stesso periodo l’Irlanda ha tagliato le spese del 9.5%, la Spagna del 6.6%, il Portogallo del 3.8%. Altrove - anche a Cipro e persino, sia pure di poco, il 2.7% in Italia - sono aumentate.
È ovvio che, di fronte a una flessione molto veloce dell’attività economica, il peso di queste uscite pubbliche sul pil sia rimasto molto elevato, creando problemi di sostenibilità. “Dietro” quel calo del 23% del prodotto interno lordo c’è poi anche una flessione dei redditi e della domanda, e non può sorprendere allora che siano scese anche le entrate fiscali - soprattutto imposte sui redditi e imposte sui consumi - passate da un massimo di 98 miliardi a 82 miliardi. La sostenibilità del debito è dunque peggiorata, e dal punto di vista della scienza economica è questo che conta.
Non si può dire però che questi tagli non abbiano creato disagi, come invece un certo “calvinismo economico” cerca di mostrare. Il settore pubblico nel suo complesso impiegava nel 2009 907mila persone, nel 2014 erano 651mila. Il taglio degli impiegati “ordinari” è stato un po’ meno incisivo (110mila persone) ma ha comunque reso molto meno efficiente lo stato greco. Questa almeno era la valutazione della Commissione Ue: «È ora essenziale - spiegava l’ultimo rapporto di Bruxelles sul programma di risanamento - assumere nuovi impiegati in modo tempestivo, per consentire la necessaria qualità dei servizi» e anche in modo meritocratico.
Anche il settore privato ha fatto la sua parte. Il costo del lavoro è calato a un ritmo superiore al 2% annuo dal 2008 a oggi, mentre dalla fine del 2009 a oggi - grazie anche all’andamento dell’inflazione e dell’euro - la competitività internazionale della Grecia è aumentata del 30% circa. I risultati non sono stati generosi: la produttività, soprattutto nei servizi, non è aumentata e le esportazioni non sono state avvantaggiate. È un’ulteriore prova del fatto che riforme e riduzione dei costi sul mercato del lavoro non hanno efficacia se mancano - e in Grecia sono mancate - riforme dei mercati dei prodotti e dei servizi: «Le flessioni dei prezzi - spiegava nel suo ultimo rapporto il Fondo monetario internazionale - non sono state commisurate ai cali nei salari e questo riflette rigidità sui mercati dei prodotti e dei servizi». I greci, quindi, hanno visto calare i prezzi meno dei salari: hanno perso potere d’acquisto.
Non sempre, inoltre, i salari sono stati conservati. La disoccupazione nel paese è aumentata fortemente: nel 2008, i senza lavoro erano stati - in media durante l’anno - 388mila, mentre nell’anno concluso ad aprile erano saliri a 1,253,000.
La conclusione è allora immediata: molto si può dire sui difetti del modello greco e del piano di salvataggio, è più arduo dimostrare che non siano stati fatti sacrifici.