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 2015  luglio 09 Giovedì calendario

UNA CIVILTÀ COSTRUITA SULLA SABBIA

I killer percorsero lentamente il vicolo angusto, tre uomini in sella a un’unica motocicletta. Erano passate da poco le 11 del mattino del 31 luglio 2013, e il sole picchiava forte sui modesti edifici residenziali che fiancheggiavano una strada secondaria nel villaggio indiano di Raipur Khadar. L’aria era impregnata da un odore di spezie, polvere e fogna. Gli uomini fermarono la moto davanti alla porta arancione di una casa a due piani. Due di loro smontarono, aprirono la porta e sgusciarono nella camera da letto sull’altro lato, immersa nella penombra. Avevano la faccia coperta da fazzoletti bianchi. Uno di loro impugnava una pistola.
Nella camera da letto Paleram Chauhan, agricoltore di 52 anni, stava facendo un sonnellino dopo aver pranzato presto. Nella stanza accanto la moglie e la nuora facevano le pulizie, mentre Ravindra, figlio di Paleram, giocava con il nipote di tre anni. Nella casa echeggiarono colpi di arma da fuoco. Preeti Chauhan, la nuora di Paleram, si precipitò nella stanza, e alle sue spalle c’era Ravindra. Attraverso la porta aperta videro gli assassini saltare sulla moto e fuggire a tutto gas.
Paleram giaceva sul letto, il sangue gli usciva gorgogliando dall’addome, dal collo e dalla testa. «Si sforzava di parlare, ma non riusciva», racconta Preeti, con voce rotta. Ravindra si fece prestare l’auto da un vicino e portò di corsa suo padre in ospedale, ma era troppo tardi. Paleram ci arrivò che era già morto.
Nonostante i visi coperti, la famiglia non aveva dubbi su chi ci fosse dietro l’omicidio. Per un decennio Paleram aveva tentato di convincere le autorità locali a neutralizzare una potente banda di criminali che aveva il suo quartier generale a Raipur Khadar, e che depredava il villaggio di una risorsa assai ambita, uno dei beni economici fondamentali del ventunesimo secolo: la sabbia.
Proprio così. Paleram Chauhan è stato ucciso per la sabbia. Non è stato il primo e non sarà l’ultimo.

La civiltà è letteralmente
costruita sulla sabbia. La sabbia è fin dall’antichità un elemento fondamentale delle costruzioni. Nel quindicesimo secolo un artigiano italiano scoprì come trasformarla nel vetro trasparente che rese possibili i microscopi, i telescopi e le altre tecnologie che guidarono la rivoluzione scientifica del Rinascimento (e permise di avere finestre a prezzi accessibili). La sabbia è un ingrediente essenziale in detergenti, cosmetici, dentifrici, pannelli solari, chip di silicio, ed edifici; ogni struttura in cemento è composta essenzialmente da sabbia e ghiaia cementate insieme.
A parte l’acqua e l’aria, la sabbia è la risorsa naturale più consumata dagli uomini. Ogni anno usiamo oltre 40 miliardi di tonnellate di sabbia e ghiaia. Quella del deserto, plasmata dal vento, è troppo tondeggiante per legare e non va bene nelle costruzioni. In effetti, solo la sabbia lavorata dall’acqua è utilizzabile. E il boom edilizio mondiale degli ultimi anni – le megalopoli che crescono come funghi, da Lagos a Pechino – ne sta divorando quantità senza precedenti. L’estrazione è un’attività che nel mondo vale 70 miliardi di dollari. A Dubai i progetti di bonifica di terreni e la costruzione di grattacieli arditissimi hanno dato fondo alle risorse vicine, quindi costruttori insaziabili ora stanno cercando altri luoghi di approvvigionamento. Gli esportatori australiani oggi vendono sabbia agli arabi.
Via via che le cave e i letti dei fiumi si esauriscono, i cavatori di sabbia si rivolgono sempre più ai mari, dove le navi risucchiano dal fondale enormi quantità di materiale. Tutto ciò devasta l’ecosistema. La Suprema Corte dell’India ha recentemente ammonito che l’estrazione della sabbia dalle rive dei fiumi sta minando la stabilità dei ponti e uccidendo uccelli e pesci in tutto il paese. Ma la regolamentazione è scarsa e manca la volontà di irrobustirla.
Dal 2005 a oggi, l’estrazione della sabbia ha cancellato due dozzine di isole indonesiane. Il materiale è in larga parte finito a Singapore, che ha bisogno di quantità titaniche di sabbia per proseguire nel programma di crescita artificiale del territorio. La città-stato negli ultimi anni si è aggiunta circa 130 chilometri quadrati costruiti ex novo, e sta crescendo ancora: è di gran lunga il maggior importatore di sabbia del mondo. Il danno ambientale è stato così grave che Indonesia, Malesia e Vietnam hanno ristretto o vietato le esportazioni di sabbia verso Singapore.
Il risultato è il fiorire del mercato nero, in tutto il mondo. Si stima che metà della sabbia usata dall’edilizia in Marocco sia stata cavata illegalmente. Uno dei più noti gangster israeliani ha cominciato la sua carriera rubando sabbia dalle spiagge pubbliche. Nel 2010 decine di funzionari malesi sono stati accusati di aver accettato mazzette e favori sessuali per chiudere un occhio sui traffici di sabbia verso Singapore.
Sull’isola di Bali, nell’interno, lontano dalle spiagge dei turisti, vado a visitare una miniera di sabbia. Sembra Shangri-La dopo la caduta di un meteorite. Nel mezzo di una bella vallata, circondata da giungla e risaie, c’è un buco di una sessantina di metri quadrati con sabbia e roccia a vista. Sul fondo del buco, uomini in calzoncini e infradito impugnano mazze e badili e spingono sabbia e ghiaia nelle macchine separatrici. «Chi ha il permesso di scavare deve poi pagare la bonifica ambientale del territorio», dice Nyoman Sadra, ex componente dell’assemblea legislativa regionale. «Però il 70% dei cavatori di sabbia opera senza permessi».
La lotta per la sabbia è più violenta che mai in India. Negli ultimi anni i conflitti tra le bande mafiose della sabbia e le operazioni contro di loro hanno provocato la morte di centinaia di persone – compresi ufficiali di polizia, funzionari governativi, e comuni cittadini come Paleram Chauhan.


La zona di Raipur Khadar era prevalentemente agricola. Però Delhi, che si trova a meno di un’ora di viaggio, in direzione nord, si espande rapidamente. Guidando lungo una strada a scorrimento veloce a sei corsie, passo davanti a una serie infinita di cantieri, con nuovi edifici che schizzano verso il cielo. Oltre a un numero incalcolabile di centri commerciali, condomini, e palazzi di uffici, stanno costruendo anche una “Città dello Sport” di oltre 20mila metri quadrati, che comprende parecchi stadi e una pista di Formula 1.
Il boom edilizio si è messo in moto una decina di anni fa, e la mafia della sabbia anche. «L’estrazione abusiva c’era anche prima», dice Dushynt Nagar, capo di un’organizzazione locale che si batte per i diritti degli agricoltori, «ma non su una scala così vasta, con furti di terra e omicidi, come oggi».
La famiglia Chauhan vive in questa zona da secoli, ci dice Aakash, figlio di Paleram. È snello, con grandi occhi scuri e capelli neri, un po’ stempiato, indossa un paio di jeans, una felpa grigia e un paio di infradito. Ci siamo accomodati sulle seggiole in plastica piazzate sul nudo pavimento in cemento del salotto di casa, a pochi metri da dove il padre di Aakash è stato ucciso.
La famiglia possiede circa 40mila metri quadrati di terra e ha in condivisione con il villaggio un po’ meno di un chilometro quadrato. O meglio: aveva. Circa dieci anni fa un gruppo di “gorilla” locali, così lì definisce Aakash, capeggiati da Rajpal Chauhan (nessuna parentela, è un cognome diffuso) e dai suoi tre figli assunse il controllo dei terreni comuni. Asportò gli strati superficiali e cominciò a cavare la sabbia depositata da secoli di esondazioni dello Yamuna. A peggiorare le cose, la polvere sollevata dalle operazioni iniziò a rallentare la crescita dei raccolti.
Come membro del panchayat, il consiglio del villaggio, Paleram si mise alla testa di una campagna per la chiusura della cava di sabbia. In teoria avrebbe dovuto essere semplice. Nel 2013 una commissione di inchiesta federale scoprì in tutto il distretto la presenza di «un’attività palese, indiscriminata e abusiva di scavo».
Ciò nonostante Paleram e gli altri abitanti del villaggio non riuscirono a farla bloccare. Presentarono istanze alla polizia, al governo e all’autorità giudiziaria, per anni. Senza risultati. Le voci che girano dicono che molte autorità locali intascano mazzette oppure sono direttamente coinvolte nelle cave.
Per quelli che non si lasciano corrompere dalla carota, la mafia ha pronto il bastone. «Organizziamo operazioni contro i cavatori abusivi», dice Navin Das, il funzionario responsabile delle attività di estrazione del distretto. «Però è molto difficile, ci attaccano e ci sparano addosso». Negli ultimi tre anni, i cavatori non autorizzati hanno ucciso almeno tre poliziotti e ne hanno aggrediti molti altri, come hanno aggredito funzionari, giornalisti e informatori.
Stando agli atti giudiziari, Rajpal e i suoi figli sono autori di minacce nei confronti di Paleram e della sua famiglia, oltre che nei confronti di altri abitanti del villaggio. Aakash conosce uno dei figli di Rajpal, Sonu, fin da quando i due erano bambini. «Era un ragazzo simpatico. Ma quando è entrato in quell’affare della sabbia e ha cominciato a fare soldi in quantità ha sviluppato una mentalità criminale ed è diventato assai aggressivo». Nella primavera del 2013, la polizia arrestò Sonu e sequestrò alcuni camion del gruppo. Fu rilasciato subito, dietro cauzione.
Una mattina Paleram raggiunse in bicicletta i campi di famiglia e ci trovò Sonu. Secondo quanto riferisce Aakash, Sonu disse a Paleram: «Sono finito in galera per colpa tua». «E così io dissi a mio padre di lasciar perdere». Invece Paleram andò dalla polizia a lamentarsi. Fu ucciso pochi giorni dopo.
Sonu, suo fratello Kuldeep e Rajpal furono arrestati, ma ora sono tutti fuori. Ad Aakash capita di incontrarli. «Il nostro è un villaggio piccolo», dice.


Il fiume Thane, largo e limaccioso, appena fuori Mumbai pullula di barchette di legno. Le rive sono fiancheggiate da mangrovie, alle cui spalle svettano dei palazzoni. Nell’aria c’è un leggero sentore salmastro che si mescola all’odore di nafta.
Ogni barca ha a bordo un equipaggio di sei-dieci uomini. Uno o due di loro si tuffano sul fondo, riempiono un secchio di sabbia e riemergono. Altri due, scalzi su tavole che sporgono oltre la fiancata, issano i secchi con delle corde. I loro corpi snelli e muscolosi farebbero l’invidia di ogni fanatico delle palestre, se non fossero il frutto di una fatica tremenda.
Pralhad Mhatre, 41 anni, dice che ogni giorno si immerge circa 200 volte. Fa questo lavoro da sedici anni. Riceve una paga quasi doppia rispetto a quelli che tirano su il secchio – circa 16 dollari al giorno. Mhatre vuole che suo figlio e le sue tre figlie facciano un altro lavoro; è convinto che tra poco il Thane si esaurirà. «Quando ho cominciato, dovevo immergermi per soli sei metri», racconta. «Adesso i metri sono 13. Noi riusciamo ad arrivare al massimo a 15 metri di profondità. Se il letto del fiume si abbassa ancora, perderemo il lavoro».
I fiumi sono un posto eccellente, per trovarci la sabbia. Secondo la scala di misurazione Udden-Wentworth, lo standard geologico più usato, si definisce sabbia qualsiasi materiale duro i cui granuli abbiano un diametro compreso tra gli 0,0625 e i 2 millimetri. Ma circa il 70% di tutta la sabbia è costituito da quarzo.
Il quarzo – una forma di biossido di silicio, detto anche silice – è uno dei minerali più comuni sulla Terra. E questo è un bene, perché la silice è incredibilmente utile. Mescolata con acqua, cemento e ghiaia dà origine a un ottimo cemento. In natura il quarzo si trova sempre mescolato ad altri materiali. Per prodotti commerciali raffinati occorre filtrare la sabbia, o partire da un elevato contenuto in silice. La sabbia della zona di Fontainebleau, in Francia, è costituita per oltre il 98% di silice. I vetrai migliori d’Europa hanno potuto contare per secoli su questa sabbia.
Corning possiede a Fontainebleau il più grosso centro di produzione di vetri oftalmici del mondo; per le lenti, la sabbia deve essere purificata fino a contenere il 99,7% di silice. Il silicio per l’elettronica deve essere raffinato almeno fino al 99,999999999% di purezza: nove 9 dopo il decimale.
Il giorno successivo alla mia visita al fiume Thane, Sumaira Abdulali, una delle principali attiviste indiane della campagna contro l’estrazione abusiva di sabbia, mi accompagna a vedere un tipo di cava diverso. Abdulali, 54 anni, fa parte della borghesia di Mumbai, è di voce e modi gentili. Da anni gira nelle zone più remote a bordo della sua berlina con gli interni in cuoio e un autista al volante, e scatta fotografie delle imprese della mafia della sabbia. Le hanno sfondato i vetri dei finestrini, l’hanno insultata, minacciata, bersagliata di pietre, inseguita, e le hanno dato un pugno tanto forte da spaccarle un dente.
Abdulali ha iniziato a occuparsi della faccenda quando i cavatori di sabbia hanno cominciato a smembrare una spiaggia nei pressi di Mumbai che la sua famiglia aveva frequentato per generazioni. Nel 2004 presentò la prima denuncia da parte di un cittadino contro l’estrazione di sabbia in India. La notizia arrivò sui giornali, e questo suscitò un’ondata di chiamate di altre persone. Abdulali da allora ha aiutato a presentare decine di denunce nei tribunali.
Abdulali mi accompagna nella cittadina rurale di Mahad, dove un giorno i cavatori di sabbia le hanno danneggiato l’automobile. In quest’area l’estrazione è vietata perché siamo in prossimità di una zona costiera protetta. Ciò nonostante, tra queste colline coperte dalla giungla, non lontano dalla città, arriviamo a un fiume dalle acque verdastre, in mezzo al quale, sotto gli occhi di tutti, ci sono barche che succhiano sabbia dal fondo, grazie a pompe a nafta. Le rive sono disseminate di mucchi di sabbia, che gli operai caricano sui camion.
Tornati su una strada principale, ci troviamo alle spalle di un convoglio di tre autocarri pieni di sabbia. Passano indisturbati davanti a una camionetta della polizia ferma sul ciglio. Un paio di agenti oziano nei pressi. Un terzo sta facendo un pisolino dentro la vettura di servizio, sul sedile reclinato in orizzontale. Davvero troppo per la signora Abdulali. Accostiamo. Un ufficiale apparentemente responsabile – l’uniforme khaki ha delle stellette sulle spalle – se ne sta lì spaparanzato nel furgone, si è tolto le scarpe. «Non avete visto passare qualche istante fa quegli autocarri carichi di sabbia?», chiede Abdulali.
«Stamattina abbiamo segnalato alcuni casi», risponde cordiale il poliziotto. «Adesso siamo in pausa pranzo».
In seguito faccio qualche domanda in proposito a un funzionario governativo. «La polizia è pappa e ciccia con i cavatori», dice il funzionario, che chiede di rimanere anonimo. «Quando io chiamo la polizia per farmi avere una scorta in occasione delle irruzioni nelle cave clandestine, loro avvertono i cavatori del nostro arrivo». Nessuno è stato condannato, nemmeno nei casi che sono arrivati a giudizio. «La sfangano sempre, grazie a qualche cavillo».


Tornato a Raipur Khadar, dopo che ho finito di parlare con la famiglia di Paleram Chauhan, Aakash acconsente a mostrare a me e al mio interprete Kumar Sambhav la terra di cui la mafia si è impossessata. Abbiamo noleggiato un’auto a Delhi, e Aakash fornisce indicazioni all’autista. È difficile non vedere la cava: dall’altra parte della strada che arriva nel centro del villaggio c’è una distesa di terra sconvolta, segnata da crateri profondi tre o sei metri e da cumuli di sabbia e pietre. Gruppetti di uomini stanno spaccando le pietre con delle mazze, e caricando la sabbia sui camion. Si fermano a osservare la nostra auto mentre passiamo lentamente lungo la strada dissestata che attraversa la cava. Aakash indica un tizio robusto in jeans e camicia con il colletto: è Sonu.
Poco dopo, nel cuore del sito, scendiamo a scattare qualche fotografia a un cratere particolarmente vasto. Dopo qualche minuto Aakash avvista quattro uomini, tre dei quali brandiscono delle vanghe, venire con decisione verso di noi. «Sta arrivando Sonu», mormora.
Torniamo verso la macchina, sforzandoci di sembrare indifferenti. Ma siamo troppo lenti. «Stronzo!». Sonu è a pochi metri da noi, e grida contro Aakash. «Che ci fate voi qui?».
Aakash rimane in silenzio. Sambhav borbotta che siamo solo dei turisti, e intanto saliamo in auto. «Adesso vi faccio fare un bel giro, teste di cazzo», dice Sonu. Spalanca la portiera del nostro conducente e gli ordina di scendere. L’autista obbedisce; siamo costretti a seguirlo. Aakash saggiamente non si muove.
«Siamo giornalisti», dice Sambhav. «Siamo venuti a vedere come procede l’estrazione di sabbia». (Tutta questa conversazione si svolge in hindi; Sambhav la tradurrà più tardi a mio beneficio).
«Estrazione?» dice Sonu. «Qui non stiamo estraendo nulla. Che cosa avete visto?».
«Abbiamo visto quel che abbiamo visto. E adesso ce ne andiamo».
«No, non ve ne andate», dice Sonu.
Lo scambio continua per un paio di minuti, c’è tensione, finché uno dei bravacci di Sonu non fa notare la presenza di uno straniero, che sarei poi io. Questo fa sì che Sonu e i suoi uomini si fermino per un istante. Fare del male a un occidentale potrebbe portare un sacco di guai. Cogliamo l’occasione propizia per filarcela. Sonu ci guarda andare via, con occhi inferociti.
Il processo contro Sonu e i suoi familiari si sta facendo faticosamente strada nel sistema giudiziario indiano. Le prospettive non sono entusiasmanti. «Nel nostro sistema con il denaro compri facilmente qualsiasi cosa: testimoni, polizia, funzionari amministrativi», mi dice un professionista che lavora sul caso, e che mi parla dietro la garanzia dell’anonimato. «E quella gente ha fatto un mucchio di soldi, con l’estrazione della sabbia».
Aakash si tiene in contatto con gli inquirenti e ha cercato il sostegno della Commissione indiana per i diritti umani. Sua madre lo scongiura di lasciar perdere, specie da quando l’anno scorso l’altro figlio, Ravindra – il testimone numero uno del caso – è stato trovato morto lungo i binari, in apparenza travolto da un treno.
L’India sta intraprendendo passi per mettere sotto controllo l’estrazione della sabbia. Il Tribunale Verde Nazionale, una sorta di forum per le questioni ambientali, raccoglie le proteste dei cittadini contro gli scavi illegali. Il governo ha coinvolto l’agenzia spaziale indiana chiedendole di fornire immagini prese dal satellite, per monitorare gli scavi nei fiumi. Gli abitanti dei villaggi hanno bloccato le strade per fermare i camion di sabbia e quasi ogni giorno un funzionario locale o statale dichiara l’intenzione di combattere contro il fenomeno. Il nuovo magistrato del distretto di Raipur Khadar quest’anno ha confiscato decine di camion ed effettuato parecchi arresti. Ma l’India ha centinaia, se non migliaia, di scavi abusivi.
E la popolazione mondiale è in crescita. La gente ha bisogno di case, uffici, fabbriche, centri commerciali, e di strade che colleghino tutte queste cose. «Il problema fondamentale è l’uso massiccio di costruzioni a base di cemento», dice Ritwick Dutta, influente avvocato ambientale indiano. «Ed ecco perché la mafia della sabbia è cresciuta in questo modo tentacolare». Lo sviluppo economico come lo conosciamo noi richiede cemento e vetro. Richiede sabbia.