Cristina Giudici, il Venerdì 10/7/2015, 10 luglio 2015
PROFESSIONE SCAFISTA
PALERMO. Appena si siede in un bar di una strada polverosa e accecata dal sole, si guarda intorno, sospettoso, e poi, con un sorriso beffardo, chiede: «Se non parlo, mi fai arrestare?». Mohammed ha 30 anni e da diverso tempo è un confidente della polizia. Fa la spola fra l’Egitto, dove vive la sua famiglia, che appartiene all’aristocrazia dei trafficanti di esseri umani, e la Sicilia, dove ha trovato un lavoro stabile e soprattutto l’agognato permesso di soggiorno. Dopo settimane di esitazioni, di ripensamenti, ha accettato di raccontare la sua storia al Venerdì. È arrivato in Sicilia, a bordo di una carretta fatiscente, nel 2011, ed è stato arrestato come membro dell’equipaggio che aveva portato un carico di «merce»: 300 migranti. Cugino del capo di un’organizzazione molto potente, durante il suo primo viaggio, è stato individuato da un interprete arabo, anche lui egiziano: Ahmed. È stato lui, Ahmed, a intuire durante l’interrogatorio il suo disagio: la voglia si affrancarsi dalla famiglia, il desiderio di trasferirsi in Italia, di vivere nella legalità.
Così Mohammed ha accettato di aiutare una squadra di poliziotti impegnati nella lotta al traffico dei migranti. Una delle tante squadre miste formate da poliziotti e interpreti arabi, che affrontano l’esodo umanitario a mani nude nella trincea mobile dei porti siciliani. Ottenuta la garanzia di non pubblicare il suo nome né il luogo in cui oggi vive, in Sicilia, Mohammed spiega: «Nel mio villaggio, sul delta del Nilo, sono tutti pescatori e trafficanti. E ora si sono riorganizzati. Ogni settimana parte una barca, che fa finta di uscire a pescare per evitare i controlli della Guardia costiera egiziana e poi, una volta in mare aperto, recupera da un’altra nave centinaia di persone da portare in Italia. Ti spiace se continuiamo domani?» domanda, ora nervoso.
Il primo approccio con Mohammed non è stato facile: incontrarlo a pochi centinaia di metri dal ristorante in cui lavora non è stata una buona idea. Mohammed osserva i passanti con uno sguardo timoroso e poi indica l’interprete, che ha fatto da tramite per convincerlo a concedere l’intervista. «Lui lavora per la questura, se qualcuno mi vede, capisce che sono una spia» dice agitato. Così decidiamo di rivederci in questura, il giorno dopo, dove si sente più protetto. Ed è solo davanti al commissario che lo ha salvato dal carcere, che improvvisamente comincia a parlare in italiano. E con calma racconta tutti i dettagli della sua nuova vita, iniziata nel 2011. Dopo aver denunciato il cugino. Con lui c’è l’interprete che lo ha reclutato perché nel backstage dei porti, dove sbarcano i migranti, la lotta al traffico si fa così: si dividono i buoni dai cattivi, i profughi dagli scafisti. Chi scappa da una guerra o da un regime militare dai pregiudicati da rimpatriare. Con un occhio vigile verso chi potrebbe aiutare la polizia ad avere informazioni sui trafficanti in cambio di un trattamento di favore, di un aiuto a trovare un lavoro, il permesso di soggiorno. «Voi giornalisti pensate che il traffico ora sia organizzato solo dai libici, ma non è così. L’Egitto fa finta di collaborare con le autorità italiane. In realtà la polizia, corrotta, aiuta i pescatori-trafficanti a uscire dai porti e ad arrivarein Italia» racconta. E ha ragione, perché, mentre tutti i riflettori sono puntati su ciò che accade in Libia, le rotte marine si sono moltiplicate. Come ci conferma un altro commissario, Carlo Parini, responsabile del Gicic, il Gruppo interforze di contrasto all’immigrazione clandestina della procura di Siracusa: «La rotta egiziana è di nuovo operativa» osserva Parini. «Fra gli organizzatori ora ci sono anche molti siriani, che vivono in Egitto. Partono dal delta del Nilo, come avveniva prima dell’operazione Mare Nostrum. E passano vicino a Creta per poi dirigersi verso l’Italia. I viaggi sono lunghi, durano in media dieci giorni, e costosi: tremila dollari a testa. Ma sono più sicuri. In Libia c’è la guerra, chi può permetterselo segue altre rotte, meno controllate. Gli ultimi scafisti che abbiamo fermato, infatti, sono tutti egiziani». Esattamente come racconta Mohammed, che è tornato in Egitto per raccogliere informazioni sull’attività di suo cugino, che è stato tre anni in carcere in Italia, e ora è tornato a essere operativo. «Ha comprato quattro navi da pescatori e ha ricominciato a fare il trafficante. Suo padre, mio zio, è stato ucciso da una banda avversaria e ora è suo figlio, mio cugino, a gestire tutto il traffico nel mio villaggio. Mio cugino è spietato come suo padre, che è stato ammazzato. Ci sono volute tre raffiche di mitra per ucciderlo e siccome ancora rantolava, lo hanno finito a bastonate» racconta con acrimonia.
Mohammed è appena rientrato dal suo paese, dove è andato per rivedere la moglie che sta per partorire due bambine e per raccogliere informazioni sulla rotta egiziana, rimasta silente per mesi. Il commissario, che lo ha salvato dal carcere tre anni fa, annuisce. Suo cugino non sa di essere finito in carcero per colpa sua, che è stato lui tre anni fa a dare la soffiata dello sbarco notturno, prima che ci fosse Mare Nostrum, quando le barche arrivavano fino in Sicilia, senza chiedere soccorsi alla Marina Militare o alla Guardia Costiera. Mohammed è un valido aiuto per chi lo ha ingaggiato, per tenere sotto controllo i viaggi che partono di nuovo dall’Egitto, ma la sua collaborazione non è sufficiente. Ora gli investigatori stanno vigilando anche sulla rotta turca. Dalla Libia si riesce a partire, pagando meno: 1.000 dollari, a volte anche meno, perché i trafficanti-pirati libici usano soprattutto gommoni e non si curano se si ribaltano per il peso eccessivo, si sgonfiano, si inabissano. Facendo annegare centinaia di esseri umani. A loro interessano solo tanti soldi, maledetti e subito, da riscuotere alla partenza. Talvolta vendendo persino il posto viaggio a seconda dello spazio richiesto. Per un metro quadrato, si riesce a partire anche solo con la «modica» somma di 500 dollari. Perciò i siriani ora temono la Libia, dilaniata dalla guerra: hanno paura che il mare li ingoi. E per non finire la loro esistenza nei fondali del mare, in un cimitero senza lapidi né fiori, i più facoltosi preferiscono partire dalla Turchia. Dal porto di Izmir. O persino da una meta insospettabile: la costa turistica nei pressi di Antalya, da dove recentemente è partito un caicco pieno di siriani. La rotta turca è considerata quella più «lussuosa»: si parte addirittura a bordo di velieri e si arriva a pagare seimila dollari, ma si ha la certezza di arrivare vivi. Dopo aver attraversato indisturbati il Mar Egeo, perché i greci spesso voltano le spalle e aspettano che arrivino gli italiani a soccorrere i profughi. Mohammed ascolta le osservazioni del «suo» commissario sulle rotte. In questi anni lui ha aiutato questa squadra di poliziotti ad arrestare decine di scafisti, a individuare le cellule di trafficanti in Egitto. Con le sue soffiate, è riuscito persino a individuare un basista che, nel 2012, aveva sequestrato un gruppo di adolescenti maghrebini, tenuti segregati in una serra vicino a Vittoria. A pochi chilometri dalla terra scenografica del commissario Montalbano, uscito dalla penna di Camilleri. Il commissario che lo protegge spiega che ora i pescatori-trafficanti partono persino dalla Tunisia e puntano verso Marsala e Mazara del Vallo. Mohammed, incalzato dalle domande, si confonde, esita, non vuole dire come fa a raccogliere le informazioni. Poi ammette: «Se per la banda di mio cugino mi affido a canali e reti familiari, per le altre bande faccio così: pago dei ragazzini che vanno al porto, per conto mio, e quando sentono di un nuovo viaggio per l’Italia, mi chiamano e mi dicono: domani il tempo è bello. E io vengo qui, a dire chi parte, a dare i numeri dei telefoni dei trafficanti da intercettare».
Alla fine della conversazione non si capisce cosa pensi davvero del traffico di esseri umani. Mohamed è arrivato in Italia dopo un viaggio di 12 giorni e la paura di non farcela. «È sbagliato» ammette con un tono disincantato, «ma se non ci fosse stato il traffico, io ora sarei ancora in Egitto. E invece ho un lavoro, il permesso di soggiorno e posso mantenere la mia famiglia».
Mohammed si alza perché deve tornare al lavoro. E resta solo il tempo per un’ultima domanda: «Hai paura?». «Certo che ho paura» sorride con mestizia. «In Sicilia lavoro e cammino sempre da solo, per evitare le domande dei miei connazionali. Nella casa dove vive mia moglie qualcuno ha appiccato un rogo, qualche mese fa, ma io voglio sdebitarmi con chi mi ha aiutato».
Prima di andarsene, Mohammed confabula con l’interprete, quasi sussurrando, poi si decide a parlare e dice, abbassando lo sguardo: «Commissario, mio cugino ha una sua foto, nel soggiorno di casa, per ricordarsi che prima o poi si vuole vendicare, perché lei lo ha arrestato e ha sgominato la sua banda». Il commissario sbuffa: «Magari venisse a cercarmi, così stronchiamo le gambe un’altra volta alla sua organizzazione» dice con tracotanza e un’espressione che però tradisce anche un sentimento di fatalismo misto a una sorta di rassegnazione.
Perché, nonostante le centinaia di scafisti arrestati, il commissario-tutor di Mohammed è anche un uomo stanco, dopo molti anni di lotta ai trafficanti. E sa bene che, smantellata un’organizzazione, ne nasce un’altra. Come tutti gli investigatori siciliani che vivono nei porti di approdo di migliaia di migranti ogni settimana, sa che la battaglia contro i trafficanti è una guerra già persa in partenza.
Cristina Giudici