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 2015  luglio 10 Venerdì calendario

PAURA E DELIRIO A MAGALUF


MAGALUF (MAIORCA). Quando pure gli eccessi del secolo in corso vi appassionassero perdutamente, avreste tutto il diritto di non sapere che accidenti siano certe nuove bischerate giovanili chiamate balconing, mamading o pubcrawling. Perciò un glossarietto è d’obbligo. Dicesi balconing la –parecchio dubbia – prodezza di chi per sbruffoneria o scommessa si lanci dal balcone di un hotel alla volta di un balcone prospiciente oppure nella piscina sottostante. Verrebbe da rubricarlo tra gli sport estremi, se non fosse che al grande salto bisogna arrivare rigorosamente dopati. Da alcol o peggio.
Altro neologismo, il mamading (anglicizzazione dello spagnolo mamar: succhiare, poppare) è invece la fellatio multipla. Cioè sesso orale praticato a rastrelliera su una robusta quota di partner e davanti a un pubblico di tifosi che incoraggiano l’operazione in delirio. Anche questa attività presenta qualche elemento agonistico, perché viene cronometrata da un giudice arbitro – o comunque si voglia definire quel figuro – e perché in palio c’è un premio, che normalmente consiste in un giro di bevute gratis offerte al concorrente dal bar nel quale si tiene il certamen.
Quanto al pubcrawling (letteralmente, strisciare per pub) non è che una rivisitazione in chiave più razionalizzata e cruda del vecchio andar per osterie. La differenza è che qui si paga un forfait anticipato per trincare a volontà in un tot di pub consorziati, e l’obiettivo è darci dentro fino all’autospegnimento.
Oltre a una certa concezione dell’esistere, ad accomunare queste smodatezze c’è un luogo geografico, che si chiama Magaluf e sta a una decina di minuti da Palma di Maiorca. Quattromila abitanti fuori stagione, oltre ventimila d’estate, Magaluf non ha l’esclusiva di simili mattane – ormai quasi routinarie in diverse stazioni balneari – ma ha finito per diventarne giocoforza la località eponima. Da queste parti il balconing cominciò a raccogliere volontari cinque o sei anni fa. Da allora, seppur con gli inevitabili alti e bassi, non passa estate che non ci scappino morti o ricoveri d’urgenza per lesioni al midollo, trauma cranico, fratture assortite. Data cerniera del mamading fu invece il luglio 2014, quando – per un pugno di cocktail – una diciottenne irlandese elargì fellazioni a 23 avventori di un pub nel tempo record di due minuti e trenta secondi. L’exploit fu naturalmente consegnato alla posterità dagli smartphone e sul web divenne, almeno per alcuni, una di quelle cliccate a cui è irrealistico resistere.
Vi raccontano Magaluf come una Sodoma balneare. Ma più che una mecca del vizio, la diresti un supermarket dello svacco a prezzi da discount. Stracciati, rispetto a quelli della vicina Ibiza. Una pinta di birra, un euro. Quasi tutti i peccati che il posto ha da offrire si sgranano lungo i quattrocento metri in pendio di calle Punta Ballena. È la main street dei pub, dei peep show, dei lupanari, dei laboratori tattoo, degli store alcolici coi lotti di whiskaccio, vodkaccia, tequilaccia, incellophanati a falange in grossi cubi; o i negozietti di souvenir che vendono apribottiglie e portachiavi a forma di fallo, magliette con su scritto Mi piace il cazzo; la fica; le ammucchiate... Un filo più esoteriche, altre t-shirt proclamano: Quanto succede a Magaluf deve restare a Magaluf. Oppure giurano solennemente: Uniti finché vomito non ci separi. Tra i teenager nordeuropei venire qui a deragliare per una settimanella è diventato una specie di rito di passaggio, di prova iniziatica, un’esperienza di quelle che temprano. Se non ti sei tuffato almeno una volta nella vita dentro il cerchio di fuoco di Magaluf vuol dire che sei un quaquaraquà.
A forgiare questa religione dello sballo sono stati principalmente i britannici, che qui rappresentano il novanta per cento della clientela giovanile e controllano anche un bel po’ del business. Scherzava un commentatore: «Noi inglesi dovremmo smetterla di litigare con gli spagnoli per Gibilterra e avanzare una buona volta rivendicazioni territoriali su Magaluf». Boys and girls arrivano per lo più dalle città operaie, o ex operaie: Manchester, Leeds, Sheffield, Liverpool, Bristol... Quando i voli diretti delle compagnie low cost li depositano all’aeroporto di Maiorca, sono già ciucchi. In media rimangono sei notti. Impacchettati in formule All Inclusive che stanno all’antico concetto di pensione completa come una 44 Magnum a una pistola a spruzzo. Ci sono hotel che vi sfamano ad libitum per la durata del soggiorno e soprattutto vi dissetano erogando birra e sangria h 24. Con 400 euro puoi farti la vacanza. In loop, te ne resti sbronzo per 144 ore, senza dover proferire una sola parola in spagnolo e spiando inebetito il mare dal balcone. Poi te ne ritorni a Manchester, Leeds, Sheffield...
A Magaluf, il Tutto compreso s’è pappato una discreta fetta dell’offerta alberghiera, ma sta facendo imbufalire un sacco di gente. Baristi e negozianti smadonnano: i turisti non mettono più piede fuori dagli hotel e gli affari languono. «Questo tipo di All Inclusive puoi praticarlo sulle navi da crociera o se ai Caraibi hai un albergo senza niente intorno. Se lo fai qui è concorrenza sleale» sintetizza José Tirado, presidente dell’associazione commercianti. Ritorna da un summit emergenziale a cui hanno preso parte il sindaco, le forze dell’ordine e i rappresentanti del comparto turistico. Si è parlato specialmente di sicurezza. Decidendo, tra l’altro, il divieto di girare nudi e smerciare alcolici per strada tra le 22 e le 8. Tirado sorride nervoso: «La moda di dipingere murales orinando sui muri sembra tramontata. Ma di animaladas, di bestialità, ne inventano sempre di nuove. Una settimana fa due inglesi si sono legati all’uccello le estremità di una corda. E hop! Ci facevano stillare un’amica davanti a tutti. Le pare che si possa continuare così?».
Vuoi per tentato balconing, vuoi più spesso per risse, schiamazzi o bicchierate che trascolorano in partouze, ogni anno centinaia di esagitati finiscono nella black list che dovrebbe radiarli sine die dagli hotel dell’isola. Ma finora il cartellino rosso non sembra aver indebolito più di tanto il livello di ferinità ambientale. Su bar e alberghi che fomentano el desmadre, le sfrenatezze, pendono multe salatine. Però con le proibizioni bisogna andarci cauti. Sapete com’è, disincentivano l’utenza. Di divieti ne ho già abbastanza a casa mia, ti argomenta il teenager. Se mi alitate sul collo, ci metto un attimo a fare le valigie.
In arabo Magaluf voleva dire acqua sporca, quella dei pantani salmastri. Invece il mare è bellissimo. Certo, i ragazzoni se lo godono poco. Tutt’al più durante i cosiddetti Boat party. Che all’incirca funzionano così: se sganciate cinquanta euro, vi caricano in duecento su un barcone e vi portano al largo per tre ore. Il sole manganella e i decibel non ne parliamo. La bumba scorre dall’open bar e, se va bene, magari ci scappa pure l’orgetta. Provo a imbarcarmi su una di queste crociere. Ma procurarsi un biglietto è impensabile se non hai prenotato con buon anticipo. Non essendo stato abbastanza previdente, resto a terra a guardarmi la fila. Ordinatamente incolonnati, sembra che si stiano avviando verso un’ilare deportazione. Uno indossa un costume da fallo, un intero gruppo sale invece a bordo mascherato da banana. A Magaluf il tasso di travestitismo goliardico è elevatissimo. Vedi comitive in tenuta da collegiale, da golfista, da tennista anni Settanta – la maglietta Fila di Borg o la Sergio Tacchini di McEnroe. Tre ore dopo mi ripresento al molo per assistere al ritorno del Party boat. Sono le stesse persone di prima, però molte stenti a riconoscerle. Forse hanno sottovalutato le insidie del mix alcol-sole-navigazione, ma è come se la faccia gli fosse stata rimaneggiata da un pittore cubista. Appena a terra, due tizi si abbattono annientati sull’arenile. Un terzo viene condotto via a braccia da due compari che sbarellano peggio di lui.
Di giorno a Magaluf succede questo e poco altro. Chi è reduce da notti estreme dorme fino a tardi, poi si mangia una polpetta o un uovo fritto e si ributta nella bolgia. Punta Ballena non si riaccende mai prima dell’una. I neon hanno gli stessi colori dei cocktail e la moltitudine ci striscia in mezzo senz’altro obiettivo apparente che non sia il mero struscio alcolico. Per strada l’apartheid sessuale è abbastanza marcato: salvo occasionali commistioni, maschi e femmine si muovono in branchi distinti. Ma egualmente ebbri. Nella notte lanciano in coro alti barriti da stadio.
Ciò detto, non siamo nel peggiore bar di Caracas. Benché la crapula di eccitanti possa sempre degenerare in bagarre, l’atmosfera è piuttosto bonacciona. Alla fine, le uniche noie ti vengono dai buttafuori. Detestano i giornalisti. Se ti beccano a prendere appunti o, figuriamoci, a carpire immagini, vieni subito individuato. Ti fotografano col telefonino e diramano l’identikit ai colleghi in zona. Un energumeno allunga la manona sull’obiettivo del fotografo Guido Fuà e gli sbarra la strada a muso duro: Vattene. Non ci piacciono i reporter. Dicono bugie, ringhia in inglese. Inutile fargli notare che a sputtanare le notti di Magaluf – casomai ce ne fosse il bisogno – non sono stati i cronisti, ma al limite gli scatti rubati con smartphone tipo il suo.
«El desmadre è cominciato negli anni Ottanta e da quel dì non si è più fermato. È vero, ogni tanto qualcuno svalvola, ma si tratta di incidenti. Dammi retta, è stata l’amplificazione dei social network a incasinare la faccenda» minimizza Vicente. È l’uomo tuttofare del Mambo’s Terrace, un bar all’aperto ora zeppo di ragazzine svedesi con corone floreali tra i capelli. Ninfe botticelliane: «Festeggiano l’arrivo dell’estate. Tenere, no?» dice Vicente. Anche lui ci ha immediatamente inquadrato come giornalisti, ma per neutralizzarci ha adottato un’altra tattica: ci ha offerto da bere. «Fate tutte le foto che volete. Basta che non ci siano dentro le ragazze». Si riferisce alle quattro lapdancer che si contorcono in cima ad altrettante torrette.
Il Mambo’s è un concentrato della fauna magalufiana. Ti fai largo tra mangrovie di tatuaggi: facce da balconer fatti e finiti: hipster con cranio rasato, occhiali da nerd e barbe salafite; entraineuses che distribuiscono shottini bomba serviti in comode fiale e sbarbine inglesi agghindate quasi tutte allo stesso modo: capelli platinati allo stremo, short jeans molto scoscesi tra gli inguini, infradito su piedino smaltato, occhi sottolineati da grossi tratti di matita scura. Genere Amy Winehouse buonanima, per capirci.
Nella baraonda, osservo una coppia seminuda in groppa a quell’aggeggio, e mi dico che c’è ancora tanta gente che si diverte un mondo a farsi strapazzare la carcassa dal rodeo meccanico. Sto per annotarlo quando un tizio con barbetta fulva e l’aria assai bevuta mi si siede davanti per fissarmi con smorfia di sfida. Non è un buttafuori, giusto un attaccabrighe.
«Che scrivi?» ruggisce.
«Niente».
«Come, niente».
«Una poesia».
Alla parola poesia, annuisce intensamente. Poi si alza e se ne va.
A Magaluf c’è sempre qualcosa da imparare. Mentre te ne servi, scopri che sopra ogni orinatoio del Mambo’s hanno affisso un’utile tabella sinottica con la traduzione del vocabolo fica in dieci lingue. Il popolo di Twitter ha molto apprezzato, eleggendo il Mambo’s miglior bar dove pisciare di tutto il litorale. L’impressione è che la fosca reputazione libertina di Magaluf si riduca in buona parte a queste scurrilità carnascialesche.
Vuoi scopare? chiede ai passanti un nanerottolo inglese che potrebbe essere mio figlio. Inclinando la testa, allude a tre o quattro signorine est-europee che ciondolano fuori da un pub con espressioni tra l’annoiato e l’affranto. «Niente a che vedere con il racket delle nigeriane. Più che prostitute sono ladre. E schiave. Con ogni sorta di magia le addestrano a depredare i clienti ubriachi» mi viene spiegato.
L’aria sa di piastra da hamburger e di gente che ha appena rigettato. Sono gli odori dominanti delle notti magalufiane. L’aroma di canne mi pare pressoché assente. E sembrano destinati a rimanere episodici casi tipo quello del britannico che l’estate scorsa aggredì a morsi alcuni bagnanti, in preda alla foga carnivora della cosiddetta Droga cannibale, ossia la nuova sostanza che manderebbe in pappa i freni inibitori risvegliando l’antropofago giacente in sonno dentro ognuno di noi. Forse è un’altra di quelle bufale mediatiche che dovrebbero annerire la nomea di Magaluf, ma in realtà ne potenziano il richiamo.
È notte alta. Lungo i marciapiedi di Punta Ballena siedono giovanotti sul limitare del coma etilico. Keep calm and see the doctor, datti una calmata e fatti visitare, esorta il cartello di uno fra gli innumerevoli ambulatori privati ad uso esclusivo degli inglesi che costellano la città. È un business succulento pure questo. Ti dicono che qui, per via dei muscolosi interessi in gioco, il modello vacanziero Sex, Booze and Drugs, Sesso-Alcol-Droga, non andrà mai in crisi. Eppure, bighellonando, qualche segnale di declino lo avverti. A trasmetterlo sono i nuovi baretti chic, gli hotel pluristellati o i club sciscì tipo il Nikki Beach che hanno cominciato a spuntare sul lungomare. Posti dai quali il turista-cannibale gira alla larga. Troppo esosi e perbene. Il maxi-gruppo Meliá ha investito 25 milioni di euro per riqualificare le strutture alberghiere della zona nel senso di una gentrificazione normalizzatrice. «Vede, qui ospitiamo adesso 1.800 persone a tariffa All Inclusive.Ma sono tutte coppie o famiglie. E guardi che pace» esulta il presidente degli albergatori Sebastián Darder nella hall dell’Hotel Mirlos Tordos, di cui è direttore.
Non sarà domani, ma per la working class della deboscia potrebbero prepararsi giorni amari. Perché sì, i ragazzacci porteranno pure quattrini, però agli occhi della Grande Correttezza imperante sono brutti, sporchi e cattivi. E in giro cresce la voglia di spazzarli sotto il tappeto.
Scommettiamo che andrà a finire così la guerra dei balconing?