Paolo Marchetti, l’Espresso 10/7/2015, 10 luglio 2015
CI SALVERA UNO STRUZZO
Le scarpe décolleté di quello stilista francese che è adorato da Carla Bruni-Sarkozy, al modico prezzo di 1.565 dollari. Ma anche la borsa di quella nota azienda veneta, che si porta a casa con 9.500 euro. Oppure quello smartphone per ricconi, che una compagnia anglo-svedese specializzata in cellulari di lusso ha messo l’anno scorso sul mercato a quasi 10 mila dollari. Che cosa hanno in comune? Sono fatti con una delle ultime frontiere del lusso, molto apprezzata dagli amanti dell’esotico: la pelle di struzzo. Dimenticate le vecchie piume, che fanno un po’ burlesque. È la pelle il vero oggetto del desiderio di quello che è il più grande dei pennuti.
Ma il lungo viaggio che fa finire lo struzzo (o quello che ne rimane) ai piedi di una dama newyorkese o sotto il braccio di una "nouveau riche" di Shanghai inizia quasi sempre in un posto umile. Come la "Malai Ostrich Farm", una fattoria thailandese nella provincia di Ratchaburi, poco distante dalla capitale Bangkok. Fondata nel 1999, alleva tanti animali, come pecore, conigli e cammelli, che rappresentano anche delle attrazioni per le scolaresche. Ma a rendere famosa la "Malai Farm" sono appunto i quasi tremila struzzi che ne fanno uno dei primi cinque allevamenti di questo tipo nel Paese.
Le principali destinazioni delle pelli qui prodotte sono l’Italia e il Giappone, ma ultimamente si è assistito a un netto cambio di tendenza. La domanda è talmente in crescita in Thailandia che gli allevamenti nazionali si stanno concentrando sempre di più sul mercato interno. Così per loro l’esportazione sta divenendo un’attività secondaria.
La pelle di struzzo è in competizione con quella di coccodrillo e di pitone come materiale più costoso dell’industria del lusso. La si usa anche per portafogli, stivali e persino scarpini da calcio, ma a entrare nel business è stata da un po’ di tempo anche l’industria automobilistica, che la utilizza per i sedili, i cruscotti e gli interni degli sportelli.
Ma perché è tanto richiesta la pelle di struzzo?
Anzitutto è considerata eccezionalmente forte e resistente, al punto che si dice che i suoi prodotti durino molto di più. Allo stesso tempo però si piega facilmente ed è molto ricettiva nel processo di tintura. Il prestigio le viene da queste sue qualità e dal prezzo, dovuto soprattutto al fatto che al mondo ne esiste una produzione limitata.
La prima fattoria commerciale venne fondata in Sudafrica intorno al 1860, con l’obiettivo di raccogliere le piume, ogni sei o otto mesi. Col tempo ne vennero aperte altre in Egitto, Australia, Nuova Zelanda, Stati Uniti e Argentina, e nel 1913 si contavano infatti nel mondo più di un milioni di struzzi. La prima e la seconda guerra mondiale assestarono tuttavia un colpo durissimo a questo mercato. Addio Belle Époque, addio cappelli con le piume.
L’industria si conservò in pratica soltanto in Sudafrica. Qui con i decenni si rilanciò perché al mercato delle piume si aggiunsero quelli della carne e soprattutto del pellame, sempre più richiesti dal mondo della moda, specialmente a partire dagli anni Settanta, sia in Europa sia negli Stati Uniti (in quest’ultimo caso anche per gli stivali da cowboy).
Nel 1986 Pretoria esportava un record di 90 mila pellami di struzzo solo negli Stati Uniti. Le sanzioni economiche anti-apartheid stravolsero poi tutto. Il crollo delle esportazioni dal Sudafrica fece impennare i prezzi, ma dall’altra parte incoraggiò il rilancio degli allevamenti in altre parti del mondo. Così gli struzzi, nel 2003, erano già tornati ad essere 500 mila, 350 mila dei quali in Sudafrica.
Peraltro gli allevamenti, sostengono gli esperti, sono molto vantaggiosi. Lo struzzo è un animale che non soffre il caldo e si adatta a molti climi. Tutto merito delle ali. Perché, se è freddo, la notte lo aiutano a coprire le gambe. E, se è caldo, le agita velocemente e gli fanno da ventaglio. L’unico vero problema sembrerebbe essere il suo caratteraccio. Per il resto non ha nemmeno bisogno di grandi terreni, come invece le pecore o il bestiame, e si riproduce presto.
Quella più richiesta dall’industria del pellame è la parte anteriore, dove il lungo collo incontra il corpo: è detta "diamante" per la sua forma a rombo. È lì che stanno i follicoli, le cavità epidermiche nelle quali crescono le piume. Sono questi "pois" i punti più prestigiosi, perché rendono il pellame dello struzzo immediatamente riconoscibile. Coprono però soltanto un terzo della pelle, e questo significa che i tagli devono essere chirurgici, per evitare di sprecare meno materiale possibile.
Dello struzzo, inoltre, è apprezzata anche la carne. Piuttosto tenera, meno grassa del tacchino, ha il sapore e l’aspetto del manzo. Ne parlava nel libro sesto delle sue ricette anche Apicio, gastronomo romano del tempo di Tiberio, che consigliava di farlo bollire con pepe, menta, cumino abbrustolito, seme di sedano, datteri, carote e miele.
Neanche l’Italia si è sottratta alla moda. Se negli anni Ottanta lo struzzo era ancora una esotica curiosità da zoo, in pochi anni sono sorti un po’ in tutte le regioni oltre un migliaio di allevamenti (c’è chi dice che fino a pochi anni fa erano oltre 1.400, con 40mila capi). Ce ne è uno per esempio a Salvirola, in provincia di Cremona, e si chiama "Il Cascinetto". Organizza visite didattiche, e d’estate permette di assistere alla schiusa delle uova, dentro le incubatrici. La filosofia è "dal produttore al consumatore", perché nella loro boutique vendono scarpe, ciabatte, borse, portafogli e cinte, e nel ristorante la cuoca Alessandra serve la carne di struzzo in forma di salsiccia, roast-beef, carpaccio, pâté e nel ragù.
Una cucina che in Italia deve piacere, visto che è segnalata più di una sagra estiva, come quelle che si svolgono a San Francesco di Cava de’ Tirreni (in provincia di Salerno), Governolo (Mantova), Tavella di Fiume Veneto (Pordenone) o Manciano (Arezzo), tutte giunte ormai almeno alla 14esima edizione.
Oggi spesso guardiamo con simpatia, se non con ironia, a questo strano animale (protagonista anche di una commedia di Paolo Virzì del 1999, "Baci e abbracci", in cui il protagonista mette su un allevamento in una cascina). Sarà il suo strano aspetto, quel collo lungo e quelle zampe che lo fanno correre fino a 70 chilometri l’ora. Sarà la leggenda secondo cui nasconderebbe la testa sotto la sabbia (che è appunto una leggenda).
Eppure, come visto, non solo è estremamente serio e pregiato il mercato che lo coinvolge oggi, ma è tutta la storia dei suoi rapporti con l’uomo a meritare rispetto. Una storia che inizia con l’antico Egitto. Ai faraoni, come dimostrano le scene ritratte nella tomba di Tutankhamon, spettava il privilegio della caccia allo struzzo e sempre in quell’antica civiltà le sue piume, che sono tutte della stessa lunghezza, erano sinonimo di giustizia e verità.
Nel 1574 Monsignor Paolo Giovio, vescovo e storico, raccolse una serie di simboli e motivi allegorici che volle ideare per le imprese di signori e capitani. Per quelle di Girolamo Mattei, condottiero che gli chiedeva un emblema «significante ch’un valoroso cuore hà forza di smaltire ogni grave ingiuria», Giovio scelse proprio uno struzzo. E Giulio Einaudi si ispirò a questa storia quando scelse il logo della sua casa editrice.