Martino Cavalli, Panorama 9/07/2015, 9 luglio 2015
300 MILIARDI DI BUONI MOTIVI PER FARE LA BAD BANK
L’arma decisiva per superare la crisi si chiama bad bank. Un contenitore nel quale riversare decine di miliardi di euro che le banche hanno prestato ai loro clienti, ma che non torneranno indietro, perché la recessione li ha fatti a pezzi. Matteo Renzi a febbraio si era esposto dichiarando: «Sarà all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri il 20 febbraio». E poi ancora, a fine aprile: «Qualche settimana e si fa».
S’è visto. Dopo mesi persi a trattare con la Ue, che teme aiuti pubblici alle banche, la Banca d’Italia ha deciso di farsi aiutare da un consulente, Boston Consulting Group: 379 mila euro + Iva. «Data la complessità del progetto, si è deciso di ricorrere alla consulenza di una società specializzata» sta scritto sul sito della banca centrale. «È stata selezionata la Boston Consulting Group perché in possesso di un’elevata specializzazione in materia».
Dal 2011 al 2014 le banche italiane nel loro insieme hanno perso più o meno 60 miliardi di euro. Sono restate in piedi, ma le ferite sono ancora aperte. Si chiamano sofferenze, crediti incagliati, inesigibili. Sulle loro spalle pesa un macigno da 190 miliardi (le sofferenze lorde) che diventano più di 300 se si allarga lo sguardo ai crediti comunque difficili, che rischiano di non essere restituiti; 123 miliardi di rettifiche (cioè svalutazioni) su crediti dal 2009 a oggi, dei quali la metà negli ultimi due anni; solo l’anno scorso le banche hanno perso 23 miliardi, anche se adesso questo Vietnam pare alla fine perché c’è una (fragilissima) ripresa. Le sofferenze però continuano ad aumentare e le banche quindi non allargano i cordoni della borsa, così le imprese non hanno liquidità, l’economia rallenta e i crediti diventano inesigibili e via e via...
La società di consulenza Prometeia sottolinea che tra il 2015 e il 2017 le banche dovranno fare altre rettifiche sui crediti per 50 miliardi. Una spirale che va spezzata. Per questo il governo ha preso i provvedimenti per velocizzare il recupero crediti e garantire un regime fiscale più favorevole alle svalutazioni, ma ancora manca l’arma finale, la bad bank, partecipata da banche, fondi, hedge fund e altri operatori specializzati, che compra dalle banche i crediti a rischio.
Ma c’è un problema: il loro valore è più basso di quello stimato dalle banche: gli esperti puntano sul 30 per cento, cioè 190 miliardi di sofferenze ne varrebbero solo 60. «Nel momento in cui si cedono crediti alla bad bank questa differenza di prezzo emerge» spiega Lea Zicchino, partner di Prometeia «e vanno accantonati altri miliardi, o portati a perdita». Oppure l’acquirente è disposto a offrire di più. Il governo pensa infatti a una garanzia pubblica per diminuire la rischiosità dell’operazione ed ecco perché si rischia l’accusa di aiuti di Stato. Tra Roma e Bruxelles si continua a negoziare.
«Certo, ci sarà qualcuno che dirà: “Ecco, adesso dobbiamo anche aiutare le banche, dopo tutto quello che hanno fatto (all’estero, ma non in Italia)» dice il presidente dell’Abi, l’associazione delle banche italiane, Antonio Patuelli a Panorama, commentando le decisioni del Consiglio dei ministri, «ma ora che c’è un’Unione bancaria europea dobbiamo per forza avere le stesse regole degli altri, come il trattamento fiscale delle svalutazioni; però ci sono anche interventi che non sono fatti su misura per noi, ma dei quali beneficeranno in tanti: in Italia ci sono tanti furbastri che approfittano dei tempi lunghissimi per recuperare un credito o per una procedura fallimentare e tempi più brevi fanno bene a tutti, a noi come alle imprese come a tanti cittadini».
Quanto alla bad bank, Patuelli non sembra farsi troppe illusioni. «Intanto non è una bad bank perché quella è stata usata in passato per evitare il crac di alcuni Paesi, e non mi pare proprio il caso nostro, ma comunque era uno strumento possibile fino al 3 novembre 2014 (il giorno successivo è entrata in vigore l’Unione bancaria europea, ndr), oggi è diverso, stanno tutti molto attenti perché poniamo un precedente che varrà per tutti nella Ue».
Ma allora non era meglio muoversi cinque anni fa, così oggi la nostra economia correrebbe più forte, magari come quella spagnola? «La storia non si fa con i se» chiosa Patuelli.
«Nel 2013 valutavamo che la situazione fosse dovuta solo al ciclo economico sfavorevole e il tema della bad bank non era così caldo, discutevamo della gestione delle crisi bancarie» ricorda invece a Panorama Fabrizio Saccomanni, economista della Sep School of european political economy della Luiss, che all’epoca era ministro dell’Economia nel governo Letta e prese un primo provvedimento a favore delle banche, portando da 18 anni a 5 la deducibilità fiscale delle svalutazioni sui crediti. «C’era preoccupazione, ma eravamo fiduciosi che il problema delle sofferenze si sarebbe risolto da solo con la ripresa». «Oggi sulla questione della bad bank c’è una contraddizione all’interno della Commissione europea, una Direzione generale spinge e una frena: le regole europee sulla concorrenza impediscono gli aiuti di Stato. Ciò anche se l’intervento pubblico avviene per il tramite di un ente pubblico come la Cassa depositi e prestiti. L’Italia ritiene che in certi casi l’intervento pubblico sia necessario per correggere inefficienze di mercato senza che ciò dia luogo a un aiuto di Stato distorsivo della concorrenza. E un negoziato delicato, ma in ogni sarebbe meglio tener fuori la Cdp perché c’è davvero il rischio che a Bruxelles vogliano rivedere il suo status di banca “particolare”».
Eventualità da evitare come la peste. Ora si tratta di trovare la quadra. Ma se è vero che una soluzione è nell’interesse di tutti, è anche vero che alcuni banchieri si sono comportati bene e altri no, alcuni hanno tenuto i conti a posto e altri hanno aperto voragini. Di questi ultimi, qualcuno è stato mandato a casa (più dalla Bce che dalla Banca d’Italia), ma molti restano avvinghiati alle loro poltrone milionarie. Oltre alla bad bank, bisognerebbe pensare anche ai bad banker.