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 2015  luglio 09 Giovedì calendario

RISTABILIAMO IL DISORDINE: È SEMPRE UN, DUE, TRE CASINO!


25 giugno. Stadio San Siro, Milano, ore 11
Davanti ai cancelli, nel grande piazzale, ci sono già i ragazzi seduti sotto il sole. Alcuni hanno dormito lì. Entro allo stadio. I fulmini sopra il palco si allungano in tre lingue aliene sul pratone, centinaia di persone come formichine assennate si muovono per dare gli ultimi ritocchi a un quadro complesso – gli show di Lorenzo non sono esattamente essenziali. Nella zona catering ci sono lui e sua moglie, Francesca, che stanno mangiando qualcosa. Mi siedo con loro.
Lorenzo subito mi dice che deve parlare poco – ha tre date di fila. Dice sempre che deve parlare poco Lorenzo, poi è talmente appassionato che non si frena. Mi parla di Ancona, della prima data, parliamo dei costumi, passa a trovarci “Pinaxa”, il suo fonico di studio, che lui ha deciso di portare anche al live e che ha piazzato i subwoofer pure in alto, così i bassi potranno fare più strada – i bassi sono potenti, ma hanno meno resistenza, si fermano prima. I bassi sono degli sprinter. A 30 metri dalle casse sono già assorbiti dal petto del pubblico delle prime file. E invece no. Hanno studiato e pure qui si sono inventati una roba aliena. Sorrentino, il manager, racconta delle denunce disperate dei ragazzi a cui hanno rubato i biglietti – una cinquantina – e del tutto esaurito delle tre date di San Siro, in effetti un risultato alieno. Tutto è un po’ fantascientifico qua.
Andiamo nel camerino di Lorenzo a scegliere la foto per la copertina. Manca poco al soundcheck. Nella stanza, allestita come una specie di tenda tuareg 2.0. tutta bianca, sembra di essere lontani anni luce dalle 150mila persone che verranno a vedere i tre show di Milano e dall’incessante brulichio che c’è là fuori. Comincia il soundcheck e mentre Lorenzo urla alla folla solo immaginata – ma i ragazzi fuori dallo stadio sentono e cominciano già a ballare – io chiudo gli occhi e quando li riapro è già sera e comincia lo show. E lo show comincia con un film, una specie di Ritorno al futuro in versione Lorenzesca, con tanto di Ornella Muti nelle vesti di dea dell’universo, che dall’anno 2184 spiega a Lorenzo che deve tornare indietro nel tempo. E allora torniamo indietro nel tempo anche noi – ma solo di un mese – e attraversiamo l’Oceano.



Un mese prima, da qualche parte intorno a Lower Manhattan, New York
Cammino nei dintorni di Lower Manhattan, dove non lontano dalla Bowery c’è un caseggiato come tanti altri. Al terzo piano, uno stanzone; entrando, si nota una parete di finestre con i vetri smerigliati, attraverso i quali si indovina il profilo di una scala antincendio. Dentro lo stanzone c’è di tutto – principalmente colori e carta, ma anche qualche strumento musicale, un divano IKEA e un bordello creativo che sta a metà tra l’atelier di un disegnatore e la sala giochi di un ragazzetto. Lorenzo cerca di fare un po’ d’ordine, non gli riesce molto bene. Alla fine prendiamo il divano e lo giriamo a favore di luce – stiamo per videoregistrare una conversazione. Mentre i filmaker fanno quel che devono, io e Lorenzo cerchiamo di rendergli il lavoro difficile continuando a spostare il divano. Lorenzo mi dice di Ornella Muti, star del cortometraggio che aprirà il concerto e mandante immaginaria del mio piccolo viaggio nel tempo. Stupore generale. In un attimo Ornella Muti mi scatena una regressione totale nel mondo fatato del mistero puberale, quando manco sapevi dove si trovasse l’origine dell’universo da un punto di vista anatomico. Mi viene in mente Postalmarket – il catalogo di vendita per corrispondenza e la sua mai abbastanza rimpianta sezione sulla biancheria intima. Lorenzo, come ogni brava persona della nostra generazione, non può non avere un sussulto.


«Io mi ricordo proprio la montagnetta, la montagnetta sulle mutande».
Ah, quel mondo misterioso! Cosa c’era lì dietro? Il paradiso! Il mistero. Oggi, con tutto il porno online, secondo me i ragazzini pensano di sapere tutto, mentre non sanno niente. Si trovano costretti a imitare.
«Però si ribalta il piano del mistero. Per cui il ragazzino dirà, cos’è questo sentimento che sto provando? Cos’è questa cosa? Perché questa ragazza mi piace e non posso fare a meno di lei? Questo succederà – non pensi più a dove, cosa, come da un punto di vista fisico».
Eravamo innamorati di Madonna, perché era irraggiungibile.
«E desideravamo quella con il culo bello del terzo banco...».
Ora i belli li vedi continuamente.
«Non esistono più le racchie! Nella mia generazione esistevano le racchie».
Le racchie esistono ancora.
«Non è vero».
Volevo giusto parlarti degli anni del liceo.
«Io ho fatto lo scientifico. Anche tu?».
Sì.
«Siamo dalla stessa parte».
Tu al liceo com’eri? Eri un figo? Uno sfigato? Una via di mezzo?
«Ero uno sfigato figo. La bella a scuola non me la sono mai fatta, quelle che desideravo non mi cagavano. Superavo il problema, cercando di rimuovere, e mi facevo le seghe».
Ah, il salubre passatempo adolescenziale.
«Avevo la musica. Lavoravo alla radio e ci mettevo tutto quello che avevo. Uscivo da scuola all’una e mezza e correvo a Radio Antenna Musica e stavo lì fino alle 9 di sera. I compiti li facevo la mattina presto. Avevo rimosso totalmente il problema sentimentale ed esternavo tutto in quella zona lì protetta che era la radio, dove non mi vedevano».
Perché eri timido? Eri uno di quelli che non stava nella cumpa?
«No, non ero timido per niente. Ero un cazzone mostruoso. Ero super comico, facevo le caricature dei professori. Ero preso dalle cazzate. Però ero solitario, avevo due amici, Fabio e Stefano. Fabio aveva un bello stereo. Poi, quando sono arrivate le canne, io ero già dentro la musica, per cui è diventata una scusa la musica, per non far parte dei gruppi, per non andare alle feste, per non fare un cazzo. A un certo punto, sono diventato come un calciatore, pensavo solo a quello, a come farcela con la musica».
Direi che ce l’hai fatta. Quando ti ho visto per la prima volta in uno stadio, ho pensato che tu fossi la via italiana al pop contemporaneo, con lo spettacolo che hai messo in piedi. Eppure il momento in cui capisci che uno ce la sta facendo è quando c’è silenzio, luce a occhio di bue, chitarra e voce.
«Sono d’accordo. Benedico il giorno in cui ho preso una chitarra in mano».
Il tuo approccio eclettico è abbastanza unico in Italia.
«Per me l’ha fatto Celentano».
Sei un molleggiato anche tu. Zompi tutto il tempo, non stai mai fermo.
«Mai! Io sono agitato. Li ammiro quelli che riescono a stare fermi».
No, rimani agitato ti prego!
«Io sono proprio forsennato!».
Qual è il primo disco che hai ascoltato?
«American Graffiti. Me lo portò mio fratello che andò in Canada da mia zia, a Montréal. C’era una cameriera in copertina. Lo mise su, io ero piccolo. E mi piacque da morire. Il primo pezzo se non sbaglio, era proprio Rock Around the Clock».
Il primo che hai comprato?
«Ti amo, il 45 giri di Umberto Tozzi. Lo vidi in televisione».
Ciao arrivederci non ci vediamo mai più. Dovevi dirmi una cosa più figa.
«Eh, ho capito, ti dico la verità!».
Ma sto scherzando!
«Lo so. Mi piaceva di brutto! Però vedi, Ti amo è un pezzo che ha già dentro tutto quello che poi a me è piaciuto della musica».
Uno di quei pezzi che non potevi ammettere che in realtà ti piaceva.
«Ha tutti gli elementi che poi sono diventati importanti nella mia musica. Intanto non ha un cambio, non ha uno sviluppo armonico, è sempre uguale. Non ha un bridge. Poi ha questa roba del “ti amo” che ritorna come A te. La frase ricomincia sempre da lì, cioè senza saperlo mi piaceva di brutto quel pezzo lì. Noi in Italia non abbiamo capito il pop. E quindi siamo indietro di 100 anni rispetto a tutto il resto del mondo. A Londra c’era il pop, pensa alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Danny Boyle».
Quello è il pop!
«Quando io ho visto quello, ho detto: capite perché questi governano il mondo con il loro immaginario e noi no?».
Loro hanno inventato il pop e il suo impero vero, noi siamo un’altra cosa. Chissà cosa, poi.
«Noi non sappiamo cos’è il pop, l’abbiamo rifiutato. Adesso ascoltiamo quei pezzi lì e li rivalutiamo. Io già li amavo».
Lo sdoganamento, grande arte dell’intellighenzia italiana. Tu ne sei un esempio perfetto. Dopo Totò, sei quello che ha avuto il maggior numero di sdoganamenti intellettuali. Sei stato sulle palle a tutta l’intellighenzia di sinistra per almeno 10 anni.
«Mi dispiaceva solo perché dispiaceva ai miei. A mia sorella che ha fatto Lettere, il centro sperimentale... ecco, che non fosse fiera di essere mia sorella, mi dispiaceva. Invece mio fratello Umberto, quello che è morto qualche anno fa cadendo con l’aereo, no. Lui era un mio fan sfegatato. Non aveva bisogno di trovare conferme nel mondo rispetto alle cose che gli piacevano. Gli piaceva Bombino e gli piaceva suo fratello contemporaneamente, gli piaceva Leonard Cohen e mi approvava in maniera incondizionata. Che è quello che vuoi che faccia un familiare».
Almeno uno, diciamo!
«Eh sì, è importante. Quando c’era il primo hip hop, quello dei centri sociali, io capivo che quella roba lì aveva le gambe cortissime, però vedevo che veniva esaltata da un pubblico che l’avrebbe abbandonata in sei mesi. Il mio pubblico non mi avrebbe abbandonato in sei mesi, perché non c’era nessun artificio in quello che io facevo, non lo facevo perché stavo in quel centro sociale, o perché avevo il cappello di una parte politica, o di un’altra, la gente mi comprava, e mi seguiva, in totale libertà. Non era neanche cool dire che ti piacevo. Questo mi metteva al riparo da qualsiasi problema di autenticità».
Io mi chiedo come uno possa sentirsi ad avere prodotto dei meme così forti – le canzonette che ti si attaccano al cervello. Ogni volta che faccio il pieno alla moto i miei neuroni attaccano a cantare “La puzza di benzina / mi fa girar la testa”...
«Lì c’è la mia formazione. Ho avuto il culo di aver letto poco da ragazzino, non avevo un’idea di narrazione, a me interessavano sempre le cose appuntite. Io mi sono formato con le pubblicità. Dal Dolce forno al Lievito Bertolini e la mucca Carolina...».
La differenza è che tu hai quell’universo lì, e sei diventato Lorenzo, io che ho avuto una vita un po’ diversa sono cresciuto con la pubblicità del Rotowash, che è una macchina industriale per pulire...
«Me lo ricordo il Rotowash».
Arrivava all’improvviso mentre tu tentavi di fare delle cose guardando un canale privato all’una e mezza del mattino. Proprio quando arrivava l’idraulico e c’era la tipa tutta svestita, sul più bello, zac: “Gira, gira, gira scegli Rotowash”. Non so come ho fatto a rimanere vivo. A me ancora oggi turba vedere macchine per pulizia industriale. Lasciamo perdere, va’. Torniamo alla musica. Immagino che la prima canzone che hai strimpellato alla chitarra non sia stata Smoke on the Water come tutti.
«No, è stata Supermarket di Battisti, perché aveva un accordo solo. Me l’aveva fatto sentire Claudio, quel disco lì. Così ho cominciato a suonare pezzi su un accordo solo prima di impararli tutti. Il primo è stato il La maggiore».
Quando hai scoperto l’incredibile possibilità di mettere almeno due accordi in una canzone?
«Io con un accordo solo ho scritto I numeri. Poi, a ogni accordo nuovo che ho imparato, ho scritto una canzone nuova. Adesso li conosco più o meno tutti, faccio più fatica a fare una tredicesima...».
Quanto sei cool – che sei qua tranquillo a dire che non riesci a fare l’accordo difficile. Senti, andiamo ancora con le prime cose. Cosa hai comprato con i primi soldi guadagnati con la musica?
«Dischi».
Hai reinvestito? Un vero capitalista saggio! Di che colore è stata la tua adolescenza?
«È stata contrastata, due colori insieme, azzurro e arancione. Colori complementari».
Niente nero?
«Io ho avuto un gran culo, Massimo, mi ero innamorato della musica. Non ho avuto l’adolescenza, come i calciatori. I calciatori non hanno avuto un’adolescenza. Non avevo bisogno di farmi accettare dagli altri, la musica era il mio mondo. Cercai nell’elenco le radio private, ne chiamai una: posso venire a fare un provino? E loro mi fecero fare un provino e mi dissero: vabbè dai, registra una mezz’ora. Io registrai e mi dissero: va bene, domani vai in onda. Gratis. Io accettai subito. Mi ricordo un momento storico della mia vita, un sabato pomeriggio andai a via Cola di Rienzo, dove c’erano i negozi dei piumini, dei paninari. C’era un piumino che volevo comprarmi, ma non avevo il grano per comprarlo. Però lo guardavo – mi vengono i brividi a pensarci – e sentii me che parlavo alla radio. Sembra la scena di un film. Questa roba è pazzesca! Mi stavo sentendo alla radio!».
Volevo finire un discorso che avevamo iniziato in privato, quando hai fatto quella divertentissima presentazione del disco. Hai messo in piedi uno show, al posto di metterti lì, fare l’annoiato e rispondere alle domande. Hai fatto un monologo di 30 minuti che io avrei mandato in televisione subito. Forse per la prima volta in una situazione molto pubblica, hai, con grande agio, mostrato che puoi anche andare un po’ sotto. Non sei solo quella cosa colorata, invincibile, fighissima. Però non ho visto titoli su questo.
«No, però mi hanno fatto una domanda sull’ISIS! Capito? Pensavo che parlassero dell’ISEF! Io ho risposto: certo, mio zio ha fatto l’ISEF! Ma appunto non era L’ISEF ma L’ISIS! No, veramente, vuoi che io ti dica qualcosa sull’ISIS? Che cazzo ne so io dell’ISIS!?».
Questa è buona! L’ISEF! Vogliono sapere tutto, ogni cosa che dici è un potenziale titolo e io mi chiedo come tu faccia ad aver raggiunto questo status, non dividi più, le tue parole pesano come meteoriti scagliati sulla terra.
«Ma no! Divido tantissimo, che cazzo dici! Tantissimo! Forse non divido le persone intelligenti! Io ho una presunzione, io penso che se a te non ti piace quello che faccio vuol dire che non capisci niente. È scienza!».
Ecco il titolo! Se non ti piace quello che faccio...
«...vuol dire che non hai capito un cazzo!».
Ah ah ah. Senti, torniamo al liceo. Avevi la tipa, come si dice?
«No. Avevo dei desideri, ma non...».
Non avevi voglia di farti lo sbattimento, come si dice a Milano?
«Avevo carenze fondamentali – non ho mai avuto la scarpa giusta o il motorino giusto. Avevo un califfo rosso. Dovevo lasciarlo a 200 metri lontano da scuola. Non potevo arrivare a scuola col califfo. Io un po’ la soffrivo quella roba, e quindi mi ero costruito questa specie di identità da super eroe che veniva fuori in radio. Facevo cose assurde. Per esempio, registravo dalle radio grandi le pubblicità importanti, tipo la Coca Cola e le mettevo nella mia radio locale, che al massimo aveva la pubblicità del macellaio all’angolo. Mi dava prestigio. Oppure salutavo quelli di Milano che non mi sentivano, per cui non potevano lamentarsi. Mentre chi mi sentiva a Roma, dava per scontato che mi sentissero anche a Milano, giusto?».
Questo prima di conoscere Cecchetto? Queste sono delle Cecchettate, eh!
«Totali, sì!».
E lì eri un ragazzino. Ora sei un uomo di una certa esperienza, diciamo. Che rapporto hai oggi con i momenti difficili, con le tue fragilità le tue insicurezze...
«Io vivo costantemente in una condizione di fragilità, è il fiume che scorre sotto terra no? Mia moglie mi dice sempre: non ti godi mai un cazzo. Vivo costantemente con questa sensazione di essere sempre un po’ inadeguato, sempre un po’ al di sotto delle mie aspettative».
Una cosa come: prima o poi mi scoprono!
«Sì. Non è che io sia negativo. Alla base di tutto, forse, c’è proprio l’essere persone educate. Non mi piace mettere le persone in difficoltà, non mi piace essere quello che crea problemi. Io li risolvo i problemi, non li creo».
Creiamone uno, invece. Chi ha portato il rap in Italia?
«L’ho portato io il rap in Italia! Jovanotti for President è di fatto il primo disco rap italiano. Il disco che ha fatto la differenza è stato Licensed to Ill dei Beastie Boys. Che erano bianchi. Il rap nero potevi ascoltarlo, ma non emularlo. No Sleep till Brooklyn, Fight for Your Right. In quei pezzi c’era un uso della voce che mi assomigliava. Mi piaceva che il rap fosse una roba da ragazzini. I Beastie Boys mi hanno cambiato l’esistenza. Erano ragazzini ebrei di Brooklyn, avevano un’idea distaccata rispetto alla loro musica, mentre la cultura nera è una cultura di rappresentanza. Loro dicono represent, no? I Beastie Boys invece non erano represent, erano inventori. Infatti la loro raccolta si chiama The Sounds of Science! Erano scienziati, sperimentatori».
Tra i rapper italiani di oggi, chi ti piace?
«Ma non gliene frega niente a nessuno di chi mi piace!».
Si, vabbè, ciao. Gliene frega a tutti.
«Non è male il disco di Fibra. È figo. Clementino è bravo. Salmo è ovvio, suona pure ai miei concerti. Poi mi piace Marracash, il suo flow. A me piace quando c’è anche un’idea musicale interessante. La parola deve suonare. Sai cosa manca nell’hip hop? Manca un’industria. Manca il manager, mancano i rompicoglioni, mancano i Cecchetto. Perché un artista da solo non può fare niente. Manca il Vaticano, rispetto agli artisti ai quali dava le committenze no? Pensa se a Caravaggio il Vaticano non avesse detto di dipingere le Madonne, probabilmente avrebbe dipinto solo prostitute».
Questa è buona e giusta. Facciamo un appello, visto che si dice che Bergoglio sia abbastanza rock&roll. Lanciamo la Vatican Records!


Sulle risate che seguono all’invenzione dell’etichetta discografica più aliena mai concepita (e alla quale ci impegniamo formalmente a dar seguito) si passa a parlare del live. Ma le parole contano poco, perché ormai ci siamo. Saltiamo in avanti, ancora una volta, nel futuro-futuro del live di Lorenzo.



25 giugno, Stadio San Siro, Milano, ore 21.15
Il concerto più atteso dell’anno inizia con un film. Son tutti lì pronti a urlare e invece parte quella specie di Ritorno al futuro, proiettato sullo schermo a fulmine. Penso che per essere contemporanei oggi si debba venire dal futuro, o almeno è quello che vuole dirci Lorenzo, bulimico di cose, colori, vestiti assurdi, grafiche, cartoni animati, chitarre, basi elettroniche, riflessioni sbilenche e geniali su dove siamo e, mentre guardo Ornella Muti che lo invita a tornare nel passato-futuro di questa sera, penso che le canzonette siano ormai l’occasione per costruirci intorno un mondo, caotico e contraddittorio, ma di una potenza inacciuffabile e stupefacente. Il film non fa che alzare la soglia del desiderio. Quando esce Lorenzo, il boato somiglia davvero a quello di un gol di Van Basten, al quale va il mio pensiero ogni volta che metto piede a San Siro. E del resto, questo caos organizzato rispecchia il diktat della fata-Muti: torna nel passato e ristabilisci il disordine. Ecco, questo mi piace. Ristabiliamo il disordine, per dio!
Bastano pochi minuti e la convinzione di trovarsi di fronte allo spettacolo pop definitivo diventa una certezza. C’è tutto, un bombardamento di stimoli di ogni tipo e al centro lui, l’idolo della folla, che, saltando, urla canzoni che tutti conoscono, che tutti cantano, come se fossero lì da sempre, nate con noi e dentro di noi. Scoperte, e non inventate. Quando urla “Mandiamoli a cagare / (...) gli indignati di mestiere” ho quel brivido lì, quello della canzonetta, che dice una cosa seria e non importa nulla di chi se ne accorge, l’importante è urlarlo. Il mondo è tuo, canta Lorenzo, coi suoi stivaletti alati venuti dal futuro passato del rock&roll – dal dio Mercurio a David Bowie si arriva qui. Il suono è potente davvero e arriva bene dappertutto, quando attacca Non m’annoio con una base old school che spacca davvero, anche i più renitenti si alzano a ballare, a battere il tempo col pugnetto in aria sui bassi elettronici e la tastiera scratchata che compone una base scarna e potentissima. Poi si mette a parlare col palco (?!), che gli spiega come la più grande invenzione degli italiani sia l’estate. E sembra una cosa ovvia, mentre Saturno al basso fa un giro di Abbronzatissima mixato con Enola Gay, per far divertire anche quelli che riconoscono le canzoni. Quello che succede sullo schermo a trifulmine è spettacolare: grafiche e disegni animati, tutti semplicemente perfetti, ognuno diverso, nessuno gratuito. C’è un libro illustrato (Dialogo tra la bionda e il gorilla di Toffolo) e immagini del film Louisiana di Minervini e mille grafiche e disegnini animati che non vorresti più uscire. Un mondo a parte, un trip vero, che diventa un rito laico quando Lorenzo attacca Le tasche piene di sassi e le lucciole del terzo millennio si illuminano sugli spalti, 70mila telefonini accesi e per la prima volta non rimpiango i tempi degli accendini. Siamo nel futuro dopo tutto e il futuro è indiscutibile. Poi si balla ancora, c’è un accenno di Pump Up the Jam e una Tensione evolutiva molto Chemical Brothers – infatti appaiono sugli schermi forme geometriche da pc anni ’8o, onde di frequenza a due bit. Una tipa che mi sta accanto mi offre un marshmallow e a quel punto inizio a pensare che a breve un’elefantessa rosa mi chiederà se voglio sposarla e partire con lei verso Marte.
What a trip! Lorenzo estrae la copia di Topolino che gli hanno dedicato (Paperotti!) e gioca spensierato, fradicio di sudore, prima di attaccare Ragazzo fortunato e buttarsi tra il pubblico: “Di dieci cose fatte / te n’è riuscita mezza /e dove c’è uno strappo / non metti mai una pezza”. A risentirlo oggi mi chiedo come sia possibile che così pochi si fossero accorti al tempo che Jovanotti cantava pure la ribellione e il fancazzismo; una versione pop degli Skiantos, così mi aveva detto lui una volta, rispetto alle sue intenzioni. E ora 70mila persone urlano con lui la bella ribellione dei ragazzini, la ribellione contro il già previsto e il già detto, contro la condanna del dover essere. Quando scende tra i ragazzi, lo schermo moltiplica la sua immagine in una specie di mise-en-abyme, in cui c’è un Lorenzo per ognuno di loro e ognuno di loro sta pensando davvero che Lorenzo esiste solo per lui, o per lei. E in qualche mondo parallelo è davvero così. Alla fine è stravolto, gli occhi gli ridono, la faccia di quello che è arrivato in fondo alla maratona ed è felice di essere vivo. Ha dato tutto, come si dice, e si vede. Ha pompato più energia di una centrale atomica in Texas. Il ragazzo non si risparmia, si fa un culo mostruoso e ce la fa di brutto.
Dopo il bis, ancora un po’ rintronato, penso che San Siro è stato costruito nel 1925. Penso che, più o meno, tra partite e concerti in questo stadio ci saranno entrate 200 milioni di persone nel corso di quasi un secolo. E mi dico che se fossero state tutte qua stasera, beh, sarebbero state tutte felici, almeno per una sera, prima che il vento si porti via tutto.