David Quammen, National Geographic 7/2015, 8 luglio 2015
CACCIA AL KILLER. EBOLA NON SPARISCE MAI. SI NASCONDE SOLTANTO
Nessuno, nel dicembre 2013, poteva prevedere che la malattia contratta da un bambino di Méliandou, un villaggio della Guinea, sarebbe stata il primo caso di un’epidemia spaventosa che avrebbe devastato tre paesi dell’Africa occidentale e scatenato preoccupazione, paura e polemiche in tutto il mondo. Nessuno poteva immaginare che la morte di quel bambino, dopo pochi giorni di sofferenza, sarebbe stata solo la prima di migliaia.
Si chiamava Emile Ouamouno. Accusava sintomi violenti – febbre alta, feci nere, vomito – che però potevano essere indizio di altre malattie, fra cui la malaria. È triste dirlo, ma nei villaggi africani i bambini muoiono fin troppo spesso di febbri e affezioni diarroiche non meglio identificate. Ma di lì a poco morì anche la sorella di Emile, poi la madre, la nonna, una levatrice del villaggio e un’infermiera. Il contagio si diffuse da Méliandou ad altri villaggi della Guinea meridionale. Dovevano passare ancora tre mesi prima che la parola “Ebola”, con il suo carico di orrore, cominciasse a spuntare nelle e-mail scambiate tra la Guinea e il resto del mondo.
Alla morte di Emile, le autorità sanitarie di Conakry, la capitale della Guinea, e i cacciatori di virus che arrivavano dall’estero non erano a Méliandou. Se fossero stati lì, e se avessero capito che quello era il primo caso di un’epidemia di Ebola, forse avrebbero potuto affrontare tempestivamente una serie di incognite importanti: come si era ammalato il bambino? Che cosa aveva fatto, toccato, mangiato? Da dove veniva il virus che l’aveva colpito?
Uno degli aspetti più sconcertanti del virus Ebola è che sparisce per anni. Dalle sue prime manifestazioni riconosciute, nel 1976 – un focolaio di infezione in quello che allora si chiamava Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo) e un episodio simultaneo causato da un virus strettamente imparentato, nell’attuale Sud Sudan – piccole e grandi epidemie di Ebola si sono susseguite con un andamento sporadico. Per 17 anni di fila, dal 1977 al 1994, non c’è stato un solo caso confermato di morte umana dovuta al virus. Ebola non è un microbo subdolo che serpeggia fra la gente causando tutt’al più lievi mal di testa e gocciolii al naso; se in quei 17 anni fosse circolato tra popolazioni umane lo avremmo saputo.
Un virus non può sopravvivere a lungo né replicarsi se non all’interno di una creatura vivente. Ha bisogno di un ospite: almeno un genere di animale, pianta, fungo o microrganismo che gli faccia da ambiente primario e di cui possa cooptare i meccanismi cellulari per replicarsi. Negli animali non umani si annidano virus nocivi che solo di rado si trasmettono all’uomo, causando malattie chiamate zoonosi. Il virus Ebola è una zoonosi particolarmente maligna e difficile da comprendere, che uccide molte sue vittime umane nel giro di qualche giorno, ne porta molte altre in punto di morte e poi scompare. Dov’è che va a nascondersi fra un’epidemia e l’altra, restando zitto e buono senza più farsi vedere?
Non negli scimpanzé, né nei gorilla: le ricerche sul campo mostrano che Ebola uccide spesso anche loro. Più o meno nello stesso periodo e nella stessa zona in cui il virus ha colpito la popolazione umana si sono verificate drammatiche morie di questi primati, e alcune carcasse esaminate sono risultate positive al virus. In effetti, il consumo di carne di animali morti è stato uno dei modi in cui il virus è passato all’uomo. È dunque improbabile che il virus si annidi nelle grandi scimmie africane: le infetta e scatena la malattia anche nel loro corpo. Il suo nascondiglio deve essere altrove.
L’animale in cui un virus zoonotico vive a lungo, di solito senza causare sintomi, viene detto ospite serbatoio. Le scimmie sono ospiti serbatoio del virus della febbre gialla; i pipistrelli della frutta asiatici del genere Pteropus sono serbatoi del virus Nipah, che nel 1998-99 ha ucciso oltre 100 persone in Malesia. In Australia i pipistrelli della frutta ospitano anche il virus Hendra, che può passare ai cavalli, con effetti devastanti, e da loro ad allevatori e veterinari, spesso causandone la morte. Il passaggio di un virus dal suo ospite serbatoio a un altro genere di organismo è detto spillover.
Circola l’idea che i pipistrelli della frutta siano ospiti serbatoio anche di Ebola, ma si tratta di una supposizione troppo spesso presentata come un fatto. Malgrado gli ardui sforzi di alcuni intrepidi scienziati, la fonte del virus non è ancora mai stata rintracciata in natura.
«Dove si nasconde quando non va a infettare gli esseri umani?», si chiede Karl M. Johnson, eminente virologo e pioniere della ricerca su Ebola. Fu lui a guidare l’équipe internazionale che indagò sulla prima epidemia, quella zairese del 1976, e poi il team che, dopo aver isolato il virus in un laboratorio dei CDC (Centers for Disease Control and Prevention, l’istituto di ricerca e prevenzione sulle malattie del governo americano) dimostrò che si trattava di una specie fino ad allora sconosciuta e gli diede il nome di un modesto corso d’acqua dello Zaire: Ebola, appunto. Già allora Johnson cercò di scoprire il nascondiglio naturale del virus, ma con un’epidemia in corso è difficile dedicarsi a una ricerca sul campo di ecologia virale: se sei un abitante di un villaggio africano, non ti fa certo piacere vedere stranieri in tuta da astronauta che si mettono a sezionare meticolosamente piccoli mammiferi mentre le salme dei tuoi cari vengono portate via, avvolte in sacchi neri. Trentanove anni dopo, dice Johnson, cominciamo a capirne di più, ma l’identità dell’ospite serbatoio «è ancora un gigantesco punto interrogativo».
Una pioggia di pipistrelli
Nell’aprile 2014 Fabian Leendertz, ecologo e veterinario tedesco, ha raggiunto la Guinea meridionale dalla Costa d’Avorio, dove lavora da 15 anni nel Parco nazionale Taï per studiare la diffusione di malattie fra gli scimpanzé e altri animali. È arrivato con tre grossi veicoli, carichi di esperti e attrezzature, e due domande: c’era stata di recente una moria di scimpanzé o di altri animali selvatici, che potevano aver infettato esseri umani che si fossero nutriti delle loro carcasse? Oppure il contagio della prima vittima umana era avvenuto per trasmissione diretta di Ebola da un ospite serbatoio, qualunque esso fosse? Leendertz non sapeva ancora nulla del piccolo Emile Ouamouno. Lui e i suoi colleghi hanno parlato con le autorità e con la popolazione locale e perlustrato a piedi due riserve forestali senza trovare alcuna prova di un particolare aumento della mortalità tra gli scimpanzé o altri grandi mammiferi. A quel punto hanno spostato la loro attenzione sul villaggio di Méliandou, dove la gente raccontava una storia molto interessante su un albero cavo pieno di pipistrelli.
Erano pipistrelli piccoli e veloci che cacciavano insetti grazie all’ecolocalizzazione, ben diversi dai grandi chirotteri che volano maestosi all’imbrunire per andare a sfamarsi di frutti. La gente li chiamava lolibelo. Erano graziosi come topolini ma maleodoranti, con una coda sempre in movimento lunga fin oltre le membrane posteriori. I ricercatori capirono che doveva trattarsi dei pipistrelli codalibera dell’Angola (Mops condylurus) che si erano annidati in gran numero dentro un grosso albero cavo ai bordi di un sentiero vicino al villaggio. Qualche settimana prima l’albero era stato bruciato, forse per prendere del miele: dal tronco in fiamme, raccontava la gente, era uscita «una pioggia di pipistrelli». Gli abitanti del villaggio avevano raccolto i pipistrelli morti in cinque-sei sacchi da mezzo quintale e stavano forse per mangiarseli: ma all’improvviso era giunta la notizia che il governo, a causa dell’epidemia di Ebola, aveva vietato di mangiare carne di animali selvatici. Così i pipistrelli erano stati gettati via.
Vicino all’albero cavo, hanno aggiunto gli abitanti, giocavano sempre i bambini del villaggio, e dunque forse anche Emile Ouamouno. Ci entravano, acchiappavano qualche pipistrello e qualche volta lo arrostivano su uno spiedo e lo mangiavano. Consultandosi con un collega esperto di recupero di DNA da campioni ambientali, Leendertz ha scoperto che ai piedi dell’albero poteva essere rimasto materiale a sufficienza per identificare la specie di pipistrelli che vi aveva fatto il nido. «Perciò, armato di provette e cucchiaio, mi sono messo a raccogliere il terriccio», racconta lo studioso. Spediti i campioni a Berlino, il sequenziamento genetico ha confermato la presenza di pipistrelli codalibera dell’Angola. E così questo chirottero – insettivoro, non frugivoro – si è aggiunto all’elenco dei possibili ospiti serbatoio del virus Ebola.
L’autostoppista
I primi segnali di un possibile coinvolgimento dei pipistrelli nel mistero di Ebola provenivano dallo studio di un altro tipo di patologie, quelle causate dal virus Marburg, un parente un po’ meno famoso di Ebola che appartiene allo stesso gruppo, quello dei filovirus. La storia di Ebola è strettamente legata a quella di Marburg, dice Robert Swanepoel, navigato virologo sudafricano che studia da tempo entrambi.
«I due virus sono collegati», spiega davanti allo schermo di un computer nella sua casa di Pretoria, mentre guardiamo alcune foto del suo archivio. Swanepoel ha diretto per 24 anni il reparto Patogeni speciali del National Institute for Communicable Diseases (NICD) di Johannesburg, ma pur essendo andato in pensione fa ancora ricerca ed è pieno di idee e di ricordi.
Nel 1967, nove anni prima che venisse scoperto il virus Ebola, un carico di scimmie destinate all’uso per la ricerca medica arrivò dall’Uganda alle città tedesche di Francoforte e Marburg e a Belgrado, allora capitale della Jugoslavia. Portavano con sé un virus ignoto ma pericoloso, che infettò tecnici di laboratorio di tutte e tre le sedi e da loro passò ad alcuni loro familiari e operatori sanitari. Su 32 casi confermati di infezione, morirono sette persone. Il nuovo virus, che aveva un aspetto filamentoso e sinistro, come un mucchio di spaghetti tossici, fu battezzato Marburg.
Otto anni dopo, uno studente australiano morì di Marburg in un ospedale di Johannesburg dopo aver attraversato in autostop la Rhodesia (l’odierno Zimbabwe). Il ragazzo e la sua fidanzata – che si era ammalata anche lei, ma era guarita – avevano fatto diverse cose che potevano averli esposti al contagio: avevano dormito all’addiaccio in un pascolo, comprato carne cruda di antilope alcina, dato da mangiare ad alcune scimmie in gabbia. E soprattutto avevano visitato le grotte di Chinhoyi, un complesso di caverne e doline della Rhodesia settentrionale che notoriamente, come tanti altri luoghi analoghi in Africa, offriva rifugio ai pipistrelli. Strada facendo, l’autostoppista era stato anche punto da un insetto o da un ragno, e la puntura gli aveva procurato un gonfiore rosso e doloroso sulla schiena. Subito dopo il decesso, le indagini sul suo caso si erano concentrate molto sulla puntura e poco sulle grotte.
Furono altri due casi di Marburg a gettare sospetti sulle grotte e sui pipistrelli che le abitano. Nel 1980 un ingegnere francese che lavorava ai piedi del monte Elgon, nel Kenya occidentale, si avventurò nella grotta di Kitum, un cunicolo che penetra nella roccia vulcanica dove a volte si spingevano gli elefanti in cerca di sale. Fu evidentemente una pessima idea: l’ingegnere morì di Marburg in un ospedale di Nairobi. Poi, nel 1987, durante una vacanza con la famiglia, un ragazzino danese si arrampicò sul monte per andare a esplorare la stessa grotta e morì per gli effetti di un virus (oggi noto come Ravn) strettamente imparentato con Marburg. Infine, nel 1995, scoppiò un’altra epidemia, stavolta di Ebola, che ebbe come epicentro la città di Kikwit, nell’odierna Repubblica Democratica del Congo (RDC). La catena di contagi tra esseri umani, un totale di 254 morti su 315 casi, ebbe inizio da un uomo che coltivava manioca e faceva carbone di legna in una zona boscosa ai margini della città. Swanepoel andò a Kikwit con l’obiettivo di scoprire l’ospite serbatoio, esplorando l’ecosistema in cui l’epidemia era scoppiata nello stesso periodo dell’anno. «Già a quel punto», racconta oggi, «avevo in mente i pipistrelli».
A Kikwit lo studioso e la sua équipe prelevarono campioni di sangue e di tessuto non solo dai pipistrelli ma da una nutrita serie di altri animali, fra cui molti insetti. Analizzando quei campioni nel laboratorio di Johannesburg e non trovando tracce di Ebola, il virologo tentò un approccio sperimentale talmente meticoloso da sembrare quasi maniacale. Lavorando nei laboratori ad alto contenimento del suo istituto (locali al massimo livello di biosicurezza, il BSL-4), iniettò di persona il virus Ebola vivo, prelevato durante l’epidemia di Kikwit, in 24 specie di piante e 19 di animali – tra cui ragni, millepiedi, lucertole, uccelli, topi e pipistrelli – e poi le tenne in osservazione. Nella maggior parte degli organismi il virus non riuscì a insediarsi; in un ragno ne fu riscontrata una pur minima presenza (probabilmente era sopravvissuto ma non si era replicato); ma nei pipistrelli l’infezione da Ebola resse per almeno 12 giorni. Tra essi c’erano un pipistrello frugivoro e un codalibera dell’Angola, lo stesso piccolo insettivoro che in seguito avrebbe catturato l’attenzione di Fabian Leendertz a Méliandou. Se non di fatto, quanto meno in linea di principio era una prova: quegli animali potevano essere ospiti serbatoio.
Diecimila pagliai
Gli eventi di Kikwit misero in luce una differenza importante tra i virus Ebola e Marburg, che da allora è stata confermata: mentre i focolai di Marburg sono localizzati di solito nei pressi di grotte e miniere, le epidemie di Ebola iniziano spesso con un episodio di caccia o di consumo di carne di animali morti, attività che si svolgono nelle foreste. Questo fa pensare che i due virus possano avere due diversi ospiti serbatoio: se sono pipistrelli, rispettivamente una specie che vive nelle grotte e una che fa la tana sugli alberi.
Lo schema si è ripetuto in una serie di epidemie di Marburg, scoppiate tra il 1998 e il 2000 a Durba, una città mineraria della RDC; e poi da una successione di piccoli focolai di Ebola, indipendenti l’uno dall’altro, che hanno colpito alcuni villaggi dei boscosi territori di confine tra Gabon e Repubblica del Congo (a ovest della Rdc, sull’altra sponda del grande fiume). Il contagio ha colpito circa 300 persone, uccidendone quasi l’80 per cento. Nel frattempo si riscontrava anche una moria di gorilla, scimpanzé e cefalofi, piccole antilopi della foresta. Sembrava proprio che le epidemie umane cominciassero sempre con una vittima sfortunata, di solito un cacciatore, entrata in contatto con la carcassa di un animale.
«Morivano persone e morivano animali diversi», dice Janusz Paweska, successore di Swanepoel alla direzione del reparto Patogeni speciali dell’NICD. «Abbiamo pensato: ecco un buon momento per cercare il serbatoio di Ebola».
Reclutati Paweska e altri, Swanepoel organizzò una spedizione assieme a Eric Leroy, un virologo francese che lavorava in Gabon. «Gli ho raccontato a lungo dei precedenti che mi facevano pensare a un legame tra i pipistrelli e i virus Ebola e Marburg», racconta Swanepoel: per esempio la sua équipe aveva trovato frammenti di Marburg nei pipistrelli che vivevano nelle grotte di Durba. In Gabon, comunque, Swanepoel portò con sé anche trappole per roditori, reti per uccelli e altre attrezzature per la raccolta di campioni. «Mi ero fissato con i pipistrelli, è vero, ma ho detto anche che non bisognava escludere nulla»: occorreva anche esaminare una vasta gamma di mammiferi, uccelli, zanzare, moscerini e altri insetti. Alla fine della spedizione l’équipe riportò in Sudafrica un terzo dei campioni, ne spedì un altro terzo ai CDC di Atlanta e lasciò il resto a Leroy. Nel laboratorio di Swanepoel e ai CDC le analisi andarono avanti a rilento, tra mille altri progetti, e diedero risultati negativi.
L’équipe di Leroy, invece, è tornata sul posto. In tre spedizioni nella zona di confine ha catturato e campionato più di 1.000 animali, tra cui 679 pipistrelli (anche Leroy si era fissato). In 16 di quei pipistrelli, appartenenti a tre specie diverse, erano presenti anticorpi che avevano reagito al virus Ebola; in altri 13 pipistrelli frugivori sono stati trovati frammenti brevissimi dell’RNA del virus. Non erano prove risolutive; trovare anticorpi o frammenti di virus è un po’ come scoprire nella neve impronte che sembrano quelle di uno Yeti: non si sa mai se corrispondono a qualcosa di effettivo. Altra cosa sarebbe trovare uno Yeti vero e proprio intrappolato in una tagliola: cioè, fuor di metafora, isolare il virus vivo, facendo moltiplicare particelle di Ebola fresche e contagiose trovate in un tessuto. L’équipe di Leroy non ci è riuscita, ma nel 2005 lo studioso francese, assieme a Swanepoel e Paweska, ha comunque pubblicato su Nature un articolo sui risultati della sua ricerca. Nonostante la grande cautela degli autori, è sulla base di quell’articolo che l’anno scorso molti media, con una sicurezza tanto categorica quanto superficiale, hanno affermato che il virus Ebola risiede nei pipistrelli della frutta. Può essere vero, ma anche no: l’articolo non dava risposte definitive.
«Lei ha provato a isolare il virus vivo?», chiedo a Leroy durante la mia sosta in Gabon. «Sì, ci ho provato molte, molte, molte volte», risponde. «Ma non ci sono mai riuscito, perché il carico virale era molto molto basso». Il carico virale è la quantità di virus presente nei tessuti solidi o nel sangue, e tende a essere molto più basso in un ospite serbatoio che non in un animale o una persona colpiti da infezione acuta.
Ma questo è solo uno dei tre motivi che rendono difficile individuare un ospite serbatoio, spiega Leroy. Il secondo è che, oltre al carico virale basso presente in ciascun animale, il virus può anche avere una bassa prevalenza in una popolazione. La prevalenza è la percentuale di individui positivi in un dato momento: se è pari o inferiore all’uno per cento, «le probabilità di trovare e catturare l’animale infetto sono molto basse». Nella grande biodiversità delle foreste tropicali, la singola specie serbatoio è già come un ago in un pagliaio; ma scovare uno dei pochi individui infetti all’interno di una tra le tante popolazioni di animali che compongono questa immensa biodiversità equivale a trovare un ago in diecimila pagliai.
E qual è il terzo ostacolo che limita la ricerca dell’ospite serbatoio? «Costa tantissimo», mi risponde Leroy.
La vacanza perfetta
Gli alti costi delle spedizioni di ricerca in luoghi sperduti nel fitto della foresta, oltre alla concorrenza di altri progetti che sono riusciti a ottenere fondi dai finanziatori istituzionali, hanno impedito anche a scienziati esperti e prestigiosi come Swanepoel e Leroy di organizzare uno studio continuo e a lungo termine per arrivare a individuare il serbatoio di Ebola. Ci sono state invece spedizioni brevi, allestite in fretta durante un’epidemia o verso la fine di una crisi. Ma fare ricerca sull’ecologia del virus mentre è in corso un’epidemia è un incubo logistico, e in più, come accennavo prima, rischia di offendere le popolazioni colpite. Quindi le spedizioni vengono rimandate. Il problema dei ritardi è che la prevalenza del virus Ebola nella popolazione ospite, il carico virale nei singoli ospiti e la diffusione del virus nell’ambiente sono tutti fattori soggetti a fluttuazione stagionale. Se non si becca la stagione giusta, c’è il rischio di non beccare neanche il virus.
Fabian Leendertz ha provato ad aggirare queste difficoltà organizzando una seconda missione sul campo, più o meno nella stessa stagione del fatale spillover che ha ucciso Emile Ouamouno, ma un anno dopo e nella confinante Costa d’Avorio. I pipistrelli codalibera dell’Angola sono presenti in gran numero anche lì, e fanno il nido sotto i tetti delle case nei villaggi. Proprio la loro nutrita presenza a stretto contatto con la popolazione umana solleva un nuovo dubbio: se è vero che questi piccoli pipistrelli sono il serbatoio del virus, perché gli spillover non si verificano molto più spesso? Leendertz vuole catturare e campionare quanti più pipistrelli possibile per trovare tracce di Ebola. Io e il fotografo Pete Muller partiamo con lui.
Leendertz e la sua équipe di ricercatori, fra cui Ariane Düx, una studentessa in via di specializzazione, si concentrano su due villaggi nei dintorni di Bouaké, una città al centro della Costa d’Avorio. Dopo aver acquistato materiale per costruire trappole nel mercato di Bouaké, dopo aver perlustrato i villaggi in cerca di case con tanti pipistrelli e dopo aver reso omaggio agli anziani del posto, un pomeriggio l’équipe prepara le trappole in vista del crepuscolo, quando i pipistrelli si leveranno in volo. Le trappole sono strutture a forma di cono, costruite alla bell’e meglio con lunghe tavole di legno e teli di plastica trasparente: quando i pipistrelli usciranno da un buco nel tetto dovrebbero catturarli e convogliarli in una vasca di plastica. Incredibilmente il sistema funziona. Alle 18.25 del primo giorno una delle trappole si anima all’improvviso come una macchina per il popcorn: decine di piccoli corpi grigi scivolano lungo il cono di plastica per poi finire nella vasca con un tonfo.
Per la fase successiva, Leendertz e Düx indossano guanti da chirurgo, respiratori, camici e occhiali a maschera e, alla luce di una nuda lampadina appesa sopra un improvvisato tavolo da laboratorio, cominciano a lavorare sui pipistrelli: pesano e misurano ciascun animaletto, prendono nota del sesso e dell’età approssimativa, inseriscono un chip elettronico grande come un seme di cumino per poterlo identificare in un secondo tempo. Soprattutto, prelevano sangue da una vena nel minuscolo braccio dei pipistrelli: basta una piccola puntura con un ago delicato, e spunta una goccia di sangue che viene subito prelevata con una sottile pipetta. Düx e Leendertz lavorano fianco a fianco, dividendosi i compiti con evidente fiducia reciproca. Mi viene in mente che se lei pungesse il pipistrello mancando la vena, e ci provasse una seconda volta colpendo invece il dito dello studioso, potrebbe anche procurargli una ferita infetta dal virus Ebola. Ma non succede.
Il sangue viene raccolto in fialette da congelare all’istante in un contenitore ad azoto liquido per essere poi analizzato a Berlino. Un numero ridotto dei pipistrelli catturati, inoltre, verrà ucciso e sezionato per poter aggiungere ritagli di organi interni – in particolare fegato e milza, dove i virus si concentrano spesso – ai campioni congelati. Gli altri pipistrelli saranno liberati. Se un campione di sangue di un individuo sezionato risulterà positivo agli anticorpi o a frammenti virali, i ricercatori useranno i suoi organi nel tentativo (più pericoloso e costoso, da effettuarsi solo in un laboratorio di massima sicurezza) di isolare il virus Ebola vivo.
Dopo essersi occupato di alcuni pipistrelli, Leendertz si fa da parte e cede il posto a Leonce Kouadio, uno studente ivoriano alto, magro come un chiodo, dai modi gentili. In fondo, oltre che un’indagine scientifica, la missione è anche un’occasione di fare esperienza per i giovani collaboratori dello scienziato. Kouadio è già abbastanza bravo: presto prende il ritmo e comincia a svolgere il suo impegnativo compito all’unisono con gli altri, nella tiepida notte africana. Lo guardo e noto che sotto il camice porta una maglietta con un logo che sembra quello di un resort e una grossa scritta: È LA VACANZA PERFETTA. Forse perfetta per lui, ma non per tutti.
Un ospite strano
Rientrato negli Stati Uniti, parlo con altri esperti. A tutti chiedo perché sia importante identificare l’ospite serbatoio del virus Ebola, e tutti mi rispondono che si tratta di un’informazione essenziale per prevenire future epidemie. Su altri punti hanno vedute diverse. Il commento più inatteso è quello di Jens Kuhn, giovane e brillante virologo che lavora ai National Institutes of Health e che, grazie al suo ponderoso tomo Filoviruses, è probabilmente il massimo storico di Ebola. Fin dalla prima volta che l’ho incontrato, in occasione di una conferenza organizzata da Leroy, so che Kuhn è una fonte sincera ma anche un amico vivace e generoso. Secondo te, gli domando, perché dopo 39 anni il serbatoio di Ebola non è ancora stato identificato?
«È un ospite strano».
«Un ospite strano?», ripeto. Non sono sicuro di aver sentito bene.
«Io la penso così».
Kuhn mi sintetizza a grandi linee un ragionamento molto più complesso. Anzitutto, le epidemie di Ebola sono state abbastanza infrequenti, una ventina o poco più nell’arco di quasi 40 anni. Episodi rari. Quasi tutte erano riconducibili al singolo caso di un essere umano infettato da un animale selvatico, seguito da un contagio tra uomo e uomo. Ciò lascia intendere, prosegue lo studioso, che la sequenza di eventi che ha portato allo spillover sia per forza di cose «inusitata e bizzarra». Circostanze particolarmente insolite, un’improbabile concomitanza di fattori.
In secondo luogo c’è «la notevole stabilità genomica del virus negli anni». Il virus non è molto cambiato, non si è molto evoluto, almeno finché il conto dei casi di infezione umana in Africa occidentale non è salito considerevolmente, fornendogli parecchie occasioni in più per mutare. La stabilità potrebbe riflettere l’esistenza di quello che Kuhn chiama «un collo di bottiglia»: una situazione di costrizione che mantiene bassa la presenza del virus e la sua diversità genetica. Un possibile collo di bottiglia potrebbe essere causato da un sistema a due ospiti: un mammifero, per esempio una specie di pipistrelli, che si infetta solo a intermittenza, quando viene morsa da un certo insetto o da una zecca o da un altro artropode, forse abbastanza raro o distribuito in zone ristrette, che quindi sarebbe l’ospite originario del virus. Un’ipotesi che fa pensare a quell’autostoppista che nel 1975, in Rhodesia, subì una piccola, strana puntura di origine non identificata e poi morì di Marburg. Oppure al ragno studiato nel laboratorio di Bob Swanepoel, che ha tenuto il virus Ebola dentro di sé per due settimane.
Tu che cosa faresti, chiedo a Kuhn, se ricevessi un grosso finanziamento solo per cercare il serbatoio di Ebola? Lui si mette a ridere.
«Dirò qualcosa di impopolare», risponde, «ma io continuerei a cercare fra gli insetti e altri artropodi».
Kuhn non ha un grosso finanziamento, come non ce lo hanno gli altri. Il mistero resta fitto. E la posta in gioco alta. I campioni prelevati in Costa d’Avorio non hanno dato risultati positivi. La ricerca prosegue.