Riccardo Ruggeri, ItaliaOggi 9/7/2015, 9 luglio 2015
Tempo fa lessi una breve frase del professor Schönberger (docente di “Internet governance and regulation” a Oxford, consulente del World Economic Forum e di Microsoft) che più o meno diceva “i Big Data causano uno spostamento del valore economico, grazie alla possibilità di un riutilizzo multiplo dei dati”
Tempo fa lessi una breve frase del professor Schönberger (docente di “Internet governance and regulation” a Oxford, consulente del World Economic Forum e di Microsoft) che più o meno diceva “i Big Data causano uno spostamento del valore economico, grazie alla possibilità di un riutilizzo multiplo dei dati”. Mi colpì, volli approfondire. Portava pure alcuni esempi, scelsi il più vicino a quella che fu la mia vita precedente, il business, il management. La Rolls Royce (non l’auto, ma la divisione motori per aerei) da qualche tempo segue una strategia di prodotto che prevede di dotare i suoi motori di una quantità di “sensori” per il monitoraggio, molto superiore a quelli di comune dotazione in uso. Si parla addirittura di 5 gigabyte per ogni volo. Dopo l’atterraggio di ciascun aereo, Rolls Royce inizia l’analisi dell’enorme mole di dati, e arriva così a prevedere quando ciascuno dei singoli particolari componenti il motore si guasterà. (ho pensato a quando mi occupavo di macchine agricole, specie alle mietitrebbie, ferme per 11 mesi all’anno ma durante il raccolto dovevano lavorare 24 ore su 24, i guasti non erano ammessi). Grazie ai Big Data, Rolls Royce ha reso più competitiva nel lungo periodo l’azienda, modificandone la strategia. Ha cioè spostato la redditività dal “prodotto motore” al “prodotto manutenzione”. La manutenzione diventa “predittiva”, cioè impone di sostituire, con certezza assoluta, i singoli componenti prima che si guastino. I Big Data hanno modificato il modello di business di un’attività sofisticata come i motori per i jet: un fatto per me di grande impatto. Il professor Schönberger certifica che la nostra società si sta “datificando” (termine orrendo e inquietante, ma vero), gli Stati e le grandi Corporation sono oggi in grado di gestirne una quantità impressionante e, secondo il professore, questa enorme mole di dati si può descrivere secondo tre concetti: “More”, “Messy”, “Correlation”. “More”, significa che oggi per studiare un fenomeno possiamo raccogliere e analizzare una quantità impressionante di dati, per poi decidere su quali concentrarci. “Messy”, nel senso di confusione che si può verificare quando nella sterminata mole di dati raccolti ci potremmo trovare anche informazioni scorrette. La forza del Big Data sta proprio nella quantità. Quando i dati sono limitati, bastano poche informazioni errate per falsare irrimediabilmente il risultato, nel caso del Big Data ciò è irrilevante. “Correlations”, il concetto per me più affascinante. Sappiamo che il nostro cervello è portato a ragionare in termini di casualità, il nesso ci condiziona, in quanto è “confortante” e al contempo “rassicurante”. I Big Data operano diversamente, sono atti a trovare correlazioni secondo un metodo statistico, cioè ci aiutano a identificare la realtà così com’è. In altre parole, non interessa sapere perché si fanno certe scelte, ma interessa capire che le scelte si fanno e come si correlano ad altre analoghe. E più dati raccogliamo, più emergono correlazioni. L’analisi dei Big Data evidenzia che un certo fenomeno è molto probabile che si verifichi, non perché si verifica, ma ciò è sufficiente per risolvere un problema specifico. Confesso che verso i Big Data provo quello che noi piemontesi chiamiamo volgarmente “sgiai”, un misto di ribrezzo leggero e sofferenza psichica, di durata brevissima ma intensa, semplificando direi un “ictus intellettuale” che i colti liquiderebbero con un banale “dark sides”. Trovo molte analogie col film “Minority report”. Anche il professor Schönberger si pone il problema scrivendo “non è il tema della privacy che mi preoccupa, ma mi impaurisce che il loro abuso possa portare a farci punire un uomo non più per ciò che ha fatto, ma per ciò che i dati prevedono farà in futuro”. Attenti, se mettiamo in pericolo il “libero arbitrio” eliminiamo la responsabilità umana, quindi se qualcuno di noi viene punito perché si pensa che commetterà un crimine, perché allora non dovrebbe commetterlo davvero? E aggiunge “..dobbiamo operare affinché i Big Data non siano in mano a una oligarchia di baroni che possano portarci a una dittatura dei dati”. Altro che “sgiai” ! Grazie Professore. Una riflessione sulla quale tornare. Non è questa versione “tecnologica” dei Big Data che mi preoccupa, ma quella “culturale e politica” che è sottesa, rappresentata oggi dalla oligarchia di baroni fatta di supermanager e di grand commis di organismi sovranazionali: osservate come si muovono, come operano, non so voi ma io provo sgiai. A fronte di loro c’è una classe politica, al potere o all’opposizione, culturalmente miserabile, succube e incapace di opporsi, se non con strumenti antichi. La vicenda greca intesa come processo ce lo conferma. A questa minaccia, vedo solo due sole garanzie: un popolo votante, una magistratura incorruttibile.