Marco Pastonesi, SportWeek 27/6/2015, 27 giugno 2015
LA MAGLIA DEL PIRATA
Lo si abbina alla maglia rosa del Giro, lo s’identifica con la maglia gialla del Tour o della Mercatone, la sua squadra storica (più raramente con quella celeste), lo si ricorda anche con la maglia azzurra della Nazionale. Ma forse il colore più adatto a lui è il verde, il verde della maglia di leader nei gran premi della montagna (una sola vittoria finale, nel Giro del 1998), il verde delle Alpi e dei Pirenei, o della sua salita, il Carpegna, in quelle Marche affacciate sulla Romagna, dove Marco Pantani continua – per incantesimo, per memoria, per gioco – a pedalare e a vincere. Nove corridori su dieci, di quella generazione nata tra la fine degli Anni 80 e l’inizio degli Anni 90, hanno cominciato a correre per Pantani. Chi lo ha fatto perché elettrizzato dai suoi attacchi in salita, chi perché affascinato dalla sua figura atletica e ascetica, chi perché scosso dai brividi del ciclismo o contagiato dalle tradizioni familiari o imparentato da ragnatele territoriali. Chi si è poi rivelato passista e chi velocista, chi ha cercato di emularlo sulle montagne e chi ha dovuto limitarsi ai capelli rasati, a un orecchino o a un tatuaggio, e chi ha appeso, oltre alla bici al chiodo, una foto in giallo o un ritaglio in rosa alla parete. Ma quel Pantadattilo (diritti d’autore a Gianni Mura), quell’Elefantino (soprannome che al portatore – c’era da immaginarselo – non è mai piaciuto), quel Pirata (ecco, ci siamo) è rimasto nel cuore, anche se come esempio e modello, tra il doping prima (e quella è stata la prima morte – sportiva – di Pantani: 5 giugno 1999, Hotel Touring, Madonna di Campiglio) e le droghe poi (e quella è stata la seconda morte – fisica – di Pantani: 14 febbraio 2004, Residence delle Rose, Rimini), la storia, anche quella del ciclismo, ne ha proposti di più puri e solidi.
Ma il manifesto di Pantani, così come quelli di James Dean, Jim Morrison e John Belushi, per dirne solo tre che a loro modo hanno pedalato nel cuore di generazioni bruciate o ardenti, rimane attaccato a muri e a ideali, un po’ simbolo e un po’ bandiera, impersonificato ma scorporato, nonostante, oltre, al di là. Sarà stata la sua origine di scalatore marinaio, sarà stata la sua urgenza agonistica e anche agonizzante, sarà stato quel modo di attaccare, quando trasformava la strada in arena e se stesso in torero, e la bandana lanciata in aria era come le banderillas stilettate nel toro. Oppure sarà stata quella sua doppia valenza, forza sulla bici e fragilità a piedi, quella sua doppia animalità, agnello in pianura e aquila in salita, quella sua doppia identità, campione e vittima, quella sua duplicità ma anche doppiezza, altare e polvere, successi ed eccessi, la fuga come supremo atto di coraggio nel ciclismo ma anche come estremo gesto di sparizione e disperazione nella vita di tutti i giorni e tutte le notti.
Dicono: quelli erano gli anni di piombo del ciclismo (ed è vero: oggi l’ambiente è stato bonificato e molto ripulito). Dicono: con o senza. Pantani sarebbe stato comunque il più forte di tutti in salita. Però Pantani rimane. È una storia che non si cancella e non si dimentica, è una tragedia che merita rispetto e pietà, è un artista che può ancora essere ascoltato e deve essere ricordato. E viene ricordato, anche celebrato, ognuno a suo modo. Con una biglia (quella davanti alla Mercatone, a Imola: forse il più bell’omaggio), con un bronzo (quello sul Mortirolo, versante valtellinese: forse il più struggente), con un libro o con il silenzio, con una pedalata in più o una in meno, con una vittoria immortalata con gli occhi socchiusi e il corpo in croce.