Alberto Crespi, l’Unità 6/7/2015, 6 luglio 2015
IL CAIMANO E IL CINEMA: UN AMORE AMBIGUO
Che la sinistra italiana sia stata ossessionata da Silvio Berlusconi è indiscutibile. Che Silvio Berlusconi abbia fatto di tutto per ossessionarla è altrettanto certo. Nel caso di chi scrive fin dal 1986, quando divenne proprietario del Milan (non è stato facile vivere da interisti/comunisti a cavallo tra anni ’80 e anni ’90). Ma la domanda forse più interessante è un’altra: quanto Silvio Berlusconi sia stato ossessionato dal cinema, da lui sicuramente identificato come un mondo “di sinistra” che sarebbe stato divertente comandare, da padrone del vapore, ma che era assai recalcitrante ad obbedire.
Nel 1989, in occasione di un’edizione del Mifed (il mercato del cinema e della televisione che si svolgeva alla Fiera di Milano), fummo testimoni della conferenza stampa in cui Berlusconi e Cecchi Gori annunciarono la nascita della Penta. Era una società congiunta per produrre film (con il know-how della famiglia Cecchi Gori: era ancora vivo Mario, il papà di Vittorio, l’unico che di cinema ne capiva davvero) e per sfruttarne integralmente i passaggi tv. L’Unità fece, al pezzo che scrivemmo, un titolo giusto e abbastanza ovvio: “Il cinema italiano ha fatto trust”. La sensazione più forte, davanti a quella conferenza stampa dove due uomini di cinema, uno anziano e uno giovane, sedevano accanto al nuovo magnate della tv privata era però diversa: non si trattava di un trust, ma del primo atto di un rito cannibalico. Ed era molto facile, credeteci, indovinare chi avrebbe mangiato chi.
Il paradosso su Fellini
La fine dell’esperienza Penta e la natura profonda del rapporto ossessivo Berlusconi/cinema è tutta in un nome: Federico Fellini. Solo un anno dopo, nel 1990, Mario Cecchi Gori produsse l’ultimo film di Fellini – La voce della luna – anche per levarsi uno sfizio da “cinematografaro” puro: non aveva mai lavorato con il più grande regista italiano di sempre. In quel film c’era una scena ambientata in una mega-trattoria-discoteca dove, su una porta basculante, c’era un ritratto di Berlusconi. Fellini spiegò a un divertito Walter Veltroni in visita sul set: «Ogni volta che i camerieri devono aprire quella porta e hanno le mani impegnate dai piatti, gli danno un calcio nel culo». Fellini aveva promosso e sposato la campagna veltroniana contro gli spot pubblicitari nei film trasmessi in tv: questa sovraesposizione politica, per altro insolita, di un artista così immenso provocò a Berlusconi robusti travasi di bile. Ma l’imprenditore ha avuto la sua rivincita sul genio: sapete di chi sono, oggi, i diritti di numerosi film di Fellini incluso il capolavoro La dolcevita? Avete indovinato: di Medusa, quindi di Mediaset. Chi vuole usare un frammento di La dolce vita in un documentario può sentirsi chiedere anche 5-10.000 euro per un minuto. Gli stipendi ai giocatori del Milan li paga, in parte, Fellini. Se lo sapesse!
Ignoriamo se Berlusconi ami il cinema da spettatore, ma sicuramente lo odia da imprenditore e da politico: ci ha messo le mani dal punto di vista economico ma non ne ha mai conquistato la stima. Tutti comunisti, questi cineasti? Per carità! Molti lo sono stati, molti non lo erano e non lo sono affatto (a cominciare da Fellini) ma pochi riescono a sopportare l’ingerenza della mentalità televisiva “made in Cologno Monzese”, e non è solo una questione di spot. Naturalmente l’oppositore più radicale è sempre stato Nanni Moretti, anche prima del Caimano: ha coprodotto tutti i suoi film con la Rai e nessun suo fotogramma è mai andato in onda sulle reti Mediaset. La stessa cosa non si può dire di Roberto Benigni: che nel suo epocale spettacolo Tutto Benigni ’95-’96, scritto con Vincenzo Cerami e divenuto anche film, fece Silvio letteralmente a pezzi contribuendo alla vittoria dell’Ulivo (la canzone tormentone dello show iniziava così: “Quando penso a Berlusconi / Mi si sgonfiano i coglioni“), ma che poi, nel 2002, fece uscire Pinocchio con Medusa, unica distribuzione in grado di garantirgli le quasi 1.000 copie del primo weekend.
Gli ultimi atti di questa ossessione sono andati in scena a Venezia 2014: La trattativa di Sabina Guzzanti e Belluscone di Franco Maresco. Quest’ultimo è un film fantastico, ossessivo e quasi invisibile: degno finale (per ora) di una storia ancora piena di omissis.