Oscar Giannino, Il Messaggero 5/7/2015, 5 luglio 2015
QUANDO DECIDONO I POPOLI: SULLA UE GIÀ 40 REFERENDUM
Uno dei luoghi comuni più triti della polemica sull’evoluzione europea è che si sia trattato di una scelta calata dall’alto fin dall’origine, mai sottoposta alla scelta popolare diretta, ma oscuramente elaborata da tecnici e burocrati non eletti, appartenenti a élite e componenti di quella che poi nella storia europea è diventata la Commissione, guardiana dei Trattati. Il referendum che si tiene in Grecia oggi sarebbe dunque una salutare irruzione nella storia europea della sovranità popolare, una rivincita della democrazia “vera”. Ammettiamolo: è colpa nostra, dell’informazione, se vive questo luogo comune. Perché, udite udite, dal 1972 oggi, per aderire o meno alla Cee e poi all’Unione Europea e all’euro, di referendum popolari nei paesi candidati o già membri dell’Europa se ne sono tenuti la bellezza di 39, diventano 40 se si tiene conto anche di uno avvenuto in Svizzera, e quello greco è dunque il 41esimo. Se ne sono tenuti anche sull’euro, e c’è chi ha detto no al suo ingresso.
Il referendum greco ha solo un temibile primato: quello di essere il primo per uscire dall’euro dopo averne fatto parte, al di là del testo su cui oggi si vota la scelta popolare sarà su questo ed è di per sé molto discutibile, pretendere chiarezza quando il quesito non è sull’euro ma su un piano di aiuti già superato. Le conseguenze del voto greco pongono ovviamente problemi inusitati e delicatissimi. Se vince il no, entro un paio di giorni la Bce dovrà assumere decisioni senza precedenti, per la Grecia e per noi tutti. Ma che i popoli siano stati costretti e non si siano espressi no, bisogna ricordare con forza che non è vero, è storicamente una fesseria. O meglio: non è vero in Europa, è vero solo in Italia.
I RISULTATI
Vediamo allora brevemente la storia delle 40 consultazioni popolari che oggi sembrano dimenticate. I referendum cominciano ad avere la propria importanza sin dalla prima estensione rispetto alla vecchia Europa dei 6 paesi fondatori, quando nel maggio 1967 arriva la domanda di adesione all’allora Comunità Europea da parte di Gran Bretagna, Irlanda, Danimarca e Norvegia. Ma entreranno solo le prime tre dal ’73, la Norvegia no perché nel ’72 i suoi cittadini in un referendum popolare bocciano la proposta col 53,5% dei voti. Anche i danesi scelsero con un referendum, ed è il sì alla Ce nell’ottobre ’72 a vincere col 63,2%. Ma nel ’72 – sorpresa – anche la Francia decide di chiedere ai suoi cittadini se sono favorevoli a meno a nuovi ingressi nella Ce, e il problema sono chiaramente i britannici: i francesi dicono sì al 68%, ma l’affluenza è bassa per i tempi, solo il 60%. E i britannici, ai quali oggi Cameron propone per l’anno prossimo un referendum per la permanenza nella Ue, ne hanno già votato uno con la stessa domanda anche se 40 anni fa, nel 1975. Allora vinsero seccamente i sì, con il 67,2% su un’affuenza di due terzi degli aventi diritto.
E c’è chi è uscito dall’Europa per referendum, sissignore. La Groenlandia, che era entrata a seguito del referendum danese, nel 1982 convoca un referendum popolare in cui vince il no alla permanenza nell’Unione, e dal 1985 l’effetto giuridico sarà di divenire solo territorio associato, con diritto di non riconoscimento delle direttive e regolamenti Ue su alcune cruciali materie.
Arriviamo al 1989, ed ecco l’unico referendum italiano: solo consultivo, con una leggina costituzionale ad hoc visto che la Costituzione vieta i referendum sui trattati internazionali. E il quesito è del tutto inoffensivo, sul rafforzamento dei poteri del parlamento europeo. Gli italiani dicono sì all’88%, con un’affluenza altissima dell’80%. Altri tempi, rispetto ai sondaggi italiani odierni sull’Europa, verso la quale la fiducia è scesa a picco. Nel 1992 una nuova raffica di referendum, perché nel frattempo nasce l’Unione Europea, il Trattato di Maastrihct e i primi vincoli comuni di finanza pubblica. In Francia al referendum il sì passa davvero per un soffio, col 51% sul 69% dei votanti. Ma altri dicono no. In Danimarca, vince il no al 50,7% sull’83% di affluenza. Il governo s’impunta e ripete il referendum nel 1993, quando il sì vince al 56,7% sull’86% dei votanti. Sempre nel 1992 la Svizzera fa domanda d’ingresso nella Ue a maggio, ma a novembre in un referendum gli svizzeri dicono no persino alle sue premesse.
Nel 1994 raffica di referendum nei paesi che chiedono agli elettori il via libera per aderire alla Ue. Vince il si in Austria al 66%, in Finlandia al 56%, in Svezia al 52,8%. Ma i norvegesi dicono no come avevano detto no alla Ce vent’anni prima, questa volta il no alla Ue ottiene il 52%. Nel 1998 i danesi tornano a votare sul Trattato di Amsterdam, ulteriore evoluzione dell’Unione, e vince il sì al 55%. Ma nel 2000 ecco che i danesi puntano i piedi: sull’ingresso nell’euro dicono no, al 53,2% sull’87% di affluenza, un dato alto a testimonianza che la scelta mobilita spacca il paese.
GLI ULTIMI VOTI
Nel 2003 tocca agli estoni dire sì nel referendum all’ingresso nell’Unione europea, con un sonante 66% di consensi. E nello stesso anno c’è la raffica di referendum nei nuovi paesi aderenti alla Ue. Vince il sì in Lettonia al 66%, in Lituania stesso risultato, a Malta la lotta è più accesa perché il sì vince al 53%, in Polonia invece è altissimo al 77%, anche se vota solo metà dell’elettorato. E poi ancora referendum in Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Ungheria. E di nuovo Francia, Olanda Spagna, Lussemburgo, Croazia, e il caso dell’Irlanda che ha votato praticamente su tutte le novità europee che ne mettevano in discussione la Costituzione. E qui ci fermiamo, ma solo per assenza di spazio.