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 2015  luglio 06 Lunedì calendario

Notizie tratte da: Vern L. Bullough, Storia della prostituzione. Dall’antichità agli anni Sessanta, Odoya 2015, pp

Notizie tratte da: Vern L. Bullough, Storia della prostituzione. Dall’antichità agli anni Sessanta, Odoya 2015, pp. 230, 20 euro.

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• La prostituzione è nata con il primo uomo come attesta anche il vecchio detto «il mestiere più antico del mondo».

• Il principe Pietro di Grecia nei suoi studi sul Tibet riferiva che in quel paese non esistevano prostitute. Ammetteva che i tibetani non potevano ignorare completamente una simile istituzione dal momento che erano convinti che il tabacco crescesse con l’aiuto del mestruo di una prostituta, ma personalmente non vide neanche una meretrice e ne dedusse che i tibetani dovevano aver derivato il concetto di prostituzione da un altro paese.

• La prostituzione si è spesso camuffata sotto vari nomi. A Urga (Mongolia esterna) le prostitute erano considerate mogli temporanee.

• Molti popoli primitivi non danno particolare importanza alla verginità e anche questo rende diffcile definire alcuni comportamenti come esempi di prostituzione. Presso molti di questi popoli vigeva l’usanza del matrimonio di prova: la giovane coppia viveva assieme finché la donna non restava incinta. A questo punto il giovane doveva sposare la donna o cessare ogni rapporto con lei. Se l’unione temporanea si scioglieva, i due giovani ritentavano l’esperimento con un altro partner.

• Alcuni scrittori hanno considerato come una forma di prostituzione la tradizionale ospitalità degli esquimesi che offrono una donna, di solito la moglie del padrone di casa, all’ospite.

• Tra i popoli Nupe dell’Africa, la piazza del mercato pubblico si trasforma di sera in un mercato dell’amore e del sesso. Le donne che vi si attardano non sono vestite come le normali venditrici di frutta o di ortaggi, ma indossano i loro abiti più belli dalle tinte tenui e dai ricchi ricami, si adornano con bracciali e orecchini, si truccano gli occhi e si tingono con l’henné dita e mani. Uffcialmente non vendono il proprio corpo, ma noci di cola, merce che soltanto gli uomini possono acquistare. Il cliente, assieme al frutto, si prende anche la donna. Ogni venditrice di solito è circondata da un capannello di uomini con i quali chiacchiera e scherza, quindi, dopo un appuntamento bisbigliato, un uomo se ne va seguito dalla compagna (con la sua noce di cola) che si è scelto per la notte.

• Mesopotamia: dal codice di di Hammurabi apprendiamo che la monogamia era la norma, ma che il marito poteva prendersi una concubina se la moglie era sterile; le concubine vivevano però in una posizione subordinata rispetto alla moglie legittima. Sia l’uomo che la donna avevano il diritto di chiedere la separazione legale, anche se essa era resa più facile al marito che non alla moglie.

• Nell’antichità le relazioni prematrimoniali non venivano condannate, anzi, stando a Erodoto, le tradizioni religiose di molti popoli comportavano necessariamente l’esistenza di relazioni sessuali prenuziali. Lo storico greco racconta infatti che ogni donna si recava, almeno una volta in vita sua, nel tempio della dea Mylitta, come la chiamavano gli Assiri, per prostituirsi a uno sconosciuto. Le donne, appartenenti a ogni categoria sociale, una volta entrate nel tempio non potevano più andarsene finché uno straniero non aveva gettato una moneta d’argento nel loro grembo ripetendo la frase di rito: «Ti convoco in nome della dea Mylitta». La donna non aveva il diritto di rifiutare la moneta, di qualunque valore fosse. Soltanto dopo essersi concessa era libera di tornare a casa alle sue normali mansioni. Stando a Erodoto, le donne che non erano «scelte» subito da uno sconosciuto dovevano rimanere nel tempio finché qualcuno non le «convocava» in nome della dea, per cui capitava che le meno dotate da madre natura fossero costrette ad aspettare pazientemente il proprio turno anche per tre o quattro anni.

• La legge assira imponeva che la prostituta uscisse a capo scoperto a indicare il suo mestiere. Dato che le donne rispettabili portavano un velo e un copricapo e persino le schiave non uscivano a testa nuda anche se non si velavano, se ne desume che la prostituta fosse considerata inferiore alla schiava.

• Tra gli antichi egizi diverse prostitute raggiunsero fama quasi leggendaria, come la figlia di Cheope. Pare che Cheope, vedendo esaurirsi i fondi necessari alla costruzione della sua piramide, in un disperato tentativo di far quattrini mandasse la figlia a lavorare in un bordello incassando tutto ciò che la ragazza guadagnava. Alla nobile fanciulla non importava granché prostituirsi, ma non trovava giusto che soltanto il padre erigesse un monumento alla propria memoria. Per rimediare alla cosa, volle che tutti i suoi clienti, oltre a pagare la tariffa che incassava il padre, le portassero una pietra ciascuno. Con queste pietre si costruì una piramide alta oltre quarantacinque metri.

• Gli antichi lessicografi greci che si dedicavano allo studio delle parole e del loro significato collezionarono letteralmente dozzine di parole che erano sinonimi di prostituta o prostituzione. Generalmente il termine “prostituta” (pornoi) era usato soltanto per la classe più infima delle donne di piacere, o come imprecazione; l’eufemismo “camerata” o “compagna” (etèra) era usato per indicare le meretrici di alto bordo. A questi due nomi si potrebbe aggiungere tutta una serie di appellativi più o meno delicati tra cui donna pubblica, reclusa, lupa, puledra, madia, passeggiatrice e altri.

• La tradizione attribuisce a Solone, l’uomo che dettò le leggi di Atene, l’istituzione delle case di piacere: egli riempì le case di schiave, ne tassò le entrate e con il ricavato costruì un tempio ad Afrodite. Le donne che lavoravano nei bordelli appartenevano al ceto più infimo della società, tanto è vero che erano considerate la feccia della prostituzione stessa. Si presentavano ai frequentatori delle case di piacere vestite soltanto di veli leggerissimi e talvolta addirittura in costume adamitico, in modo che il cliente potesse scegliere meglio il tipo che preferiva. La loro tariffa era irrisoria: un obolo o mezza dracma. È probabile che in qualche postribolo le tariffe fossero anche più alte, ma la concorrenza era talmente spietata che le differenze non potevano essere che minime. Il cliente pagava una specie di biglietto d’ingresso e poi, di solito, faceva un regalino extra alle ragazze.

• Si conserva tuttora un sandalo con la parola «seguitemi» incisa sulla suola, in modo che la prostituta, camminando, lasciasse sul terreno molle delle strade questo messaggio, chiarissimo anche per i più sprovveduti.

• Nell’antica Gracia alcune prostitute, senza neanche prendersi la briga di uscire, si piazzavano dietro a una finestra aperta e cercavano di attirare l’attenzione dei possibili clienti che passavano in strada. Se qualcuno abboccava, la serva della vecchia prostituta si faceva pagare prima di introdurre il cliente nella camera della padrona, dove la luce era così fioca che persino la donna più sfiorita poteva passare per una Venere. Non a torto quindi si diceva che le passeggiatrici potevano deludere e imbrogliare i propri clienti più facilmente che non le donne dei postriboli, soggette a un maggior controllo.

• Al vertice della scala sociale delle prostitute c’erano le etère, che godevano in Grecia di una posizione di assoluto privilegio rispetto alle altre donne. Esse sapevano come incantare le maggiori personalità del tempo: guerrieri, uomini politici, letterati e artisti, oltre a guadagnarsene l’affetto. Erano tra le donne più colte della Grecia e godevano, se non altro nelle menti e nei cuori degli uomini, di un’elevata posizione sociale. Statue di etère venivano collocate nei templi e in altri edifici pubblici, spesso accanto a quelle di valorosi combattenti e di nobili uomini politici.

• Per essere etèra era necessaria una speciale preparazione; in essa i cosmetici avevano un ruolo importantissimo, così come la conoscenza delle varie debolezze e vanità maschili, che consentiva loro di farsi pagare profumatamente dagli amanti: le tariffe erano così elevate da far nascere il detto che non tutti gli uomini potevano permettersi di andare a Corinto.

• La più bella, la più famosa e la più tentatrice cortigiana d’Atene fu senz’altro Frine, protagonista del famoso processo durante il quale il suo difensore, Iperide, nel tentativo disperato di farla assolvere le strappò di dosso la tunica scoprendone il meraviglioso seno. I giudici, affascinati da tanta bellezza, non ebbero il coraggio di condannarla.

• Per i Romani la prostituzione era un mestiere necessario come dimostrava la grande richiesta, ma le donne che lo esercitavano erano prostitute e non sacerdotesse dell’amore o fari della cultura.

• Epitteto consigliava ai giovani di astenersi completamente da ogni esperienza sessuale prima del matrimonio e aggiungeva che, se non si riusciva in questo, si doveva almeno avere il buon gusto di non vantarsene.

• Il matrimonio veniva combinato dai rispettivi padri degli sposi: era il dovere e non l’amore che univa i due giovani, in quanto a Roma non esisteva il concetto dell’amore romantico o della corte dell’innamorato alla fanciulla prescelta. L’età da marito andava per le ragazze dai tredici ai diciannove anni; a vent’anni erano già considerate zitelle. Gli uomini, invece, si sposavano più tardi. Questa scelta semiobbligata del compagno o della compagna contribuì probabilmente all’idea che l’amore e il piacere sessuale andassero ricercati fuori del matrimonio. Il maschio romano esigeva che la moglie fosse fedele anche perché non voleva lasciare i propri beni al figlio di un altro, ma ciò non gli impediva affatto di cercarsi avventure galanti extraconiugali.

• I lupanari, detti anche fornices, si trovavano vicino alle mura della città; erano così maleodoranti che spesso le vesti di coloro che li frequentavano si impregnavano del loro tanfo. In ogni bordello c’erano diverse stanzette, dette cellae, sulla porta delle quali veniva scritto il nome delle occupanti, seguito, a volte, dalla tariffa minima richiesta. Nelle cellae non c’era che un letto, o una coperta stesa in terra, e una lampada. Le ragazze, per maggior sicurezza, si facevano pagare in anticipo. I lupanari non potevano aprire che nel tardo pomeriggio per impedire che i giovani, adescati dalle meretrici, abbandonassero il proprio lavoro o le palestre. Giunta l’ora dell’apertura, le donne si mettevano, in piedi o sedute, in un punto in cui potessero essere scorte dai passanti, donde la parola latina “prostituta”, dal verbo prostituere, ovvero esporre, mettere in vendita. Quando una ragazza aveva un cliente nella propria cella, chiudeva la porta dopo avervi apposto un biglietto con la scritta «occupata»; le porte, di solito, non venivano mai chiuse a chiave, a meno che il cliente non avesse dei gusti un po’ particolari. Alcune case di piacere romane sono ancora ben conservate, specialmente la famosa Casa dei Vettii, a Pompei, le cui cellae hanno le pareti affrescate con raffgurazioni e scritte oscene. La maggior parte dei bordelli di Roma sorgeva nei pressi del Circo Massimo, il che potrebbe suggerire l’idea di un significativo rapporto tra il sadismo e la crudeltà dell’arena e l’eccitazione sessuale degli spettatori che trovava libero sfogo nelle cellae delle prostitute.

• Leno o lena, ossia lenone o mezzana, a seconda del sesso, erano chiamati i tenutari delle case di piacere. Esistevano due tipi di lenoni o di mezzane: il primo affttava stanzette a donne che si può dire lavorassero in proprio, mentre il secondo gestiva case piene di schiave o di liberte, alle quali era data solo una piccola parte di ciò che guadagnavano. Le tariffe delle prostitute variavano da bordello a bordello, ma il prezzo base di molti lupanari era un as. Le prostitute erano spesso indicate col prezzo che chiedevano e c’erano persino povere prostitute, disprezzate dalle loro stesse colleghe, da mezzo as.

• Una donna il cui nonno, padre o marito avesse ricoperto la carica di cavaliere romano non poteva darsi alla prostituzione.

• Crediamo di poter affermare con suffciente sicurezza che pochissime donne, negli strati più infimi della prostituzione, si dessero a quel mestiere di loro spontanea volontà. A parte le prostitute di professione, v’erano altre donne che arrotondavano le loro entrate vendendo il proprio corpo, ma non erano tenute a registrarsi come prostitute in quanto per loro questa era soltanto un’attività secondaria. Potremmo includere in questo gruppo le ragazze che servivano nelle osterie, nelle panetterie e in luoghi simili, dove avevano il compito di divertire i clienti. Nello stesso gruppo andrebbero messe anche le passeggiatrici – chiamate anche “falene” e “guardiane di tombe” – che esercitavano il loro mestiere agli angoli delle vie, nei bagni pubblici, nelle buie viuzze della periferia, in prossimità dei templi e, pare, persino sulle tombe e nei sepolcri. Dilettanti erano anche le attrici, le suonatrici di arpa, le cameriere dei locali pubblici e altre donne che avevano un lavoro uffciale, ma che non disdegnavano di sfruttare le proprie grazie per arrotondare le entrate.

• A Roma non si parla tanto di cortigiane famose, come avveniva in Grecia, ma piuttosto di donne lussuriose. La più celebre di tali donne fu Valeria Messalina, moglie dell’imperatore Claudio. Secondo le descrizioni rimasteci era una donna bruna, più graziosa che bella, e quando divenne la terza moglie dell’imperatore Claudio non era più nel fiore della giovinezza, mentre il marito era già sulla sessantina. Messalina, che è diventata il prototipo della ninfomane sfrenata, non appena ebbe consolidato la sua posizione di imperatrice cominciò a frequentare i postriboli per conoscere anche il piacere dell’amore venale. Il poeta satirico Giovenale racconta che, non appena Claudio si addormentava, Messalina si avvolgeva in un ampio mantello scuro e, celati i capelli neri sotto una parrucca bionda, usciva furtivamente da palazzo e si rifugiava in un maleodorante postribolo dove si era fatta assegnare una camera sotto il falso nome di Lisisca e dove, doratisi i capezzoli, si mostrava impudicamente ai clienti che passavano. Sebbene lasciasse la camera soltanto quando il postribolo chiudeva, si dice che rientrasse a palazzo ancora insoddisfatta. Claudio o non si accorgeva di nulla o era molto tollerante, e così Messalina continuò la sua vita licenziosa finché il marito non la fece uccidere sotto l’accusa di aver ordito una congiura; questo avvenne quando Messalina ebbe l’ardire di portarsi a palazzo un giovane amante, Gaio Silio, che aveva il compito di placare la sua tensione negli intervalli tra una visita e l’altra al lupanare.

• I clienti delle prostitute generalmente erano uomini giovani: è possibile che alla fine del I secolo a Roma vi fossero più uomini che donne, sì che le prostitute diventavano uno sfogo per i celibi accettato dalla società. Oltre agli scapoli frequentavano le case di piacere i soldati, i marinai, piccoli uomini d’affari e i mercanti che viaggiavano molto. I criminali soltanto occasionalmente.

• Le più antiche leggende cristiane sono piene di buoni santi sottoposti a ogni genere di tentazioni: san Gerolamo racconta l’episodio del giovane cristiano che, al tempo delle persecuzioni di Domiziano, venne introdotto in un bel giardino dove un’affascinante cortigiana cercò di sedurlo e di fargli rinnegare la fede. Per resistere agli allettamenti della donna il giovane, piuttosto che macchiare la propria castità, si staccò la lingua con un morso e la sputò in faccia alla cortigiana.

• Per san Tommaso la fornicazione era chiaramente peccaminosa, ma era altrettanto chiaro che non si poteva abolire la prostituzione, paragonabile alle fognature di un palazzo: se si eliminano le fognature, il palazzo si inquinerà immediatamente, proprio come il mondo cadrebbe nella «sodomia» se si abolisse la prostituzione. Il denaro che si dà a una prostituta è speso per un fine illecito, ma di per sé non è illecito il fatto di pagarla e la donna ha il diritto di tenere ciò che le viene dato.

• Le donne, secondo il Corano, devono sottomettersi al parente maschio più prossimo – padre, fratello o marito –, che ha su di esse lo stesso diritto che potrebbe avere su qualunque altra proprietà. Nella tradizione musulmana l’onore della moglie è affdato al marito, che deve badare che esso non venga macchiato.

• Maometto fu poligamo, il che potrebbe spiegare in parte la maggior disinvoltura e serenità dell’islamismo nei confronti del sesso. Molti musulmani considerano il rapporto sessuale uno dei grandi piaceri del mondo, uno dei pochi che siano comuni a ricchi e poveri, uomini e donne. Questo concetto fu ben espresso negli anni Cinquanta dall’ex re Ibn Saud dell’Arabia Saudita, il quale dichiarò di considerare una delle più belle esperienze della vita, e una delle poche per le quali valga la pena di vivere, il poter «mettere le proprie labbra su quelle della donna, il proprio corpo sul corpo di lei, i propri piedi sui suoi». Avere rapporti sessuali con la propria sposa è bene ed è conforme ai voleri della religione; non si devono combattere gli istinti sessuali che vanno anzi stimolati, se necessario, tramite i vari rimedi come diete speciali, hashish e oppio, ai quali si può ricorrere per aumentare la virilità.

• Maometto si sposò quattordici volte, ma sempre con vedove, a parte il caso di Ayesha. La poligamia era per Maometto un modo di aiutare donne rimaste prive di ogni appoggio, ma poiché c’era il rischio dell’abuso, i commentatori del Corano fissarono a quattro il numero delle mogli, sebbene nel testo sacro non si trovino che vaghi accenni in merito. Infatti, oltre a Maometto, anche altri sovrani dell’islam ebbero più di quattro spose. In realtà, nella massa musulmana la monogamia era la regola, mentre erano soprattutto i capi più potenti o i sovrani ad avere diverse mogli. Mogli e concubine, che erano indici di un certo stato sociale, portarono alla formazione dell’harem, che influì su parte della struttura politica islamica.

• L’harem era una prigione i cui guardiani erano quasi sempre eunuchi. Nei grandi harem dei principi, dove erano chiuse centinaia di donne, la vita doveva essere tutt’altro che allegra: i padroni dell’harem non erano sempre amanti giovani e appassionati, spesso erano uomini anziani per i quali l’harem era una necessità sociale, un’ostentazione delle loro ricchezze. Di fronte a questo stuolo di mogli e di concubine, il padrone dell’harem di solito sceglieva una o più favorite e solo di tanto in tanto concedeva i propri favori alle altre donne, che venivano quindi condannate a una specie di forzata castità.

• Mentre il Corano non si pronuncia sul divorzio, il musulmano può dividersi dalla moglie a suo piacimento, anche se si prendono alcuni provvedimenti per salvaguardare i diritti della donna. Mentre l’uomo può disfarsi facilmente della moglie, la donna non ha il diritto di chiedere il divorzio che in casi particolari; la legge islamica concede inoltre al musulmano la facoltà di contrarre un matrimonio temporaneo, chiamato mut’a, che in effetti non è che una forma di prostituzione legalizzata. Scopo di tali matrimoni a breve scadenza non era la procreazione, ma quello di dare una compagna a uomini lontani da casa per il servizio militare, per affari o per altri motivi simili. Il sistema si prestava a tanti abusi e differiva così poco dalla normale prostituzione che ancora oggi i musulmani più ortodossi considerano la mut’a un «matrimonio di piacere».

• L’islamismo, come il cristianesimo, assume un atteggiamento ambiguo nei confronti della comune prostituzione che, seppure fortemente disapprovata, non viene mai abolita del tutto. L’islamismo, permettendo la mut’a, si mostra già più tollerante del cristianesimo, senza arrivare tuttavia ad approvare apertamente la prostituzione. Prima di Maometto gli arabi non ritenevano un disonore frequentare le meretrici, tanto è vero che in molte città esisteva un quartiere isolato per le case di piacere sulla cui porta, come segno di riconoscimento, pendeva una bandiera rossa. Maometto mitigò quest’aperta approvazione del meretricio, sì che dopo di lui l’epiteto «figlio di una prostituta» diventò fortemente dispregiativo.

• L’induismo accetta il sesso e a differenza del cristianesimo non lo considera una cosa impura, né ritiene il celibato uno stato superiore al matrimonio. La verginità non viene particolarmente apprezzata, specie quando dura per tutta la vita, ed è particolarmente sconsigliata alle donne in quanto il paradiso è negato alle persone non consacrate per mezzo di un sacramento, e cioè alle fanciulle nubili. L’ascetismo praticato in India era di solito una disciplina temporanea, un autocontrollo attraverso il quale si mirava ad acquisire poteri sovrannaturali. Il sesso compare persino negli aspetti esteriori della religione indiana, come le statue delle divinità: in tali raffgurazioni antropomorfe vengono inclusi sia l’elemento maschile sia quello femminile.

• In alcuni racconti della letteratura sacra indiana si accenna alla maggiore sensualità della donna: Ila, che è un mese uomo e uno donna, si dedica ai piaceri della carne come donna, mentre passa il mese in cui è un uomo in pia meditazione.

• «La voracità di una donna è due volte quella dell’uomo, la sua furberia quattro volte, la sua sfrontatezza sei volte, e la sua capacità di provar piacere nell’amore otto volte».
[antico proverbio indiano]

• Il matrimonio in India era così importante per una fanciulla che a volte si giungeva a celebrare veri e propri riti nuziali sui cadaveri di donne morte nubili, e questa necessità femminile di partecipare al sacramento del matrimonio spingeva i devoti genitori indù a cercare disperatamente un marito per le loro figlie: come risultato l’età da marito fu sempre più anticipata. Nel periodo vedico, quando al matrimonio non si dava ancora tanta importanza, le fanciulle di solito andavano spose verso i quindici, sedici anni. Ma tra il 500 e il 1000 d.C. molti scrittori raccomandavano il matrimonio prima dei dieci anni, età in cui si riteneva che le bambine raggiungessero la pubertà. Alcune sette erano inclini a matrimoni ancora più precoci, tanto che non era raro trovare spose bambine di cinque o sei anni; questi matrimoni avevano anche lo scopo di assicurare alla bambina un tutore nel caso il padre morisse e la madre decidesse di immolarsi sul rogo con lui (sati).

• Nell’antica India la prostituzione era accettata come un modo di vita ed era indubbiamente uno dei pochi mestieri aperti alle donne. Le prostitute si distinguevano dalle altre donne per le loro vesti rosse, che servivano sia come segno di riconoscimento per gli eventuali clienti, sia a farle evitare dalle donne rispettabili.

• La prostituta di solito apparteneva alle caste più umili; se per caso era nata in una casta nobile, ne veniva espulsa non appena iniziava il suo mestiere. La sua posizione legale non era ben definita, comunque le meretrici generalmente erano trattate con molta umanità. I loro gioielli e abiti non potevano essere confiscati anche quando veniva tolto loro ogni altro avere in quanto i giudici si rendevano conto che quelli erano i loro “ferri del mestiere”, se così si può dire. Se una prostituta veniva affittata da un uomo e poi si rifiutava di seguirlo, veniva multata del doppio della sua tariffa; se si prometteva a un uomo e poi andava con un altro, non solo doveva pagare al cliente offeso il doppio di quello che egli le aveva dato, ma doveva pagare anche una multa alla tesoreria reale; se sorgeva una disputa tra una prostituta e il suo o i suoi amanti, il caso veniva deciso dalla prima cortigiana della città, che ascoltava le ragioni dei litiganti.

• Il popolo indiano per lo più considerava di buon auspicio l’incontro casuale con una prostituta, mentre incontrare una vedova era considerato di cattivo augurio.

• I taoisti venerano la donna perché la ritengono più vicina dell’uomo alle forze primordiali della natura, poiché è nel suo ventre che si genera e cresce la nuova vita: soltanto la donna possiede gli elementi indispensabili per raggiungere l’elisir di vita.

• Il buddismo si differenzia sia dal taoismo che dal confucianesimo: Budda sostiene infatti che la donna è uguale all’uomo.

• Secondo la maggior parte degli scrittori religiosi cinesi il rapporto sessuale ha un duplice fine: scopo primo dell’atto sessuale è il concepimento, specie di maschi, per assicurarsi la discendenza; secondariamente l’atto sessuale è importantissimo ai fini di aumentare la vitalità dell’uomo attraverso l’assorbimento dell’essenza yin della donna e, nello stesso tempo, di assicurare alla donna un beneficio fisico stimolandone la latente natura yin.

• Gli uomini ricevono lo yin soltanto quando la donna raggiunge l’orgasmo, e quindi ogni volta che compiono l’atto sessuale devono cercare di non lasciare insoddisfatta la donna. L’uomo, però, deve controllarsi nel raggiungere l’orgasmo solo occasionalmente, e formarsi quindi una scorta di yang da usare quando c’è la probabilità di provocare una gravidanza.

• All’epoca della dinastia Zhou (circa 1120-222 a.C.) si era stabilito un numero fisso di compagne necessarie per nutrire e rinvigorire il re, che aveva una regina, tre consorti, nove mogli di secondo rango, ventisette mogli di terzo rango e ottantuno concubine. Si erano stabilite queste cifre in base a un sistema in cui i numeri dispari indicavano le forze positive della natura, il maschio e la potenza virile, mentre i numeri pari erano passivi, simbolo della donna e della fertilità femminile. Tre, il primo numero dispari dopo uno, aveva un significato di grande potenza, mentre il nove, tre volte tre, indicava la potenza sovrabbondante. Moltiplicando nove per tre, si otteneva ventisette, e ventisette per tre ottantuno, da cui il numero delle compagne necessarie.

• Secondo la tradizione, i bordelli cinesi fecero la loro comparsa nel VII secolo a.C. per volere dello statista e filosofo Guan Zhong, che aveva bisogno di aumentare le entrate dello stato.

• Le prostitute erano organizzate in associazioni di categoria in modo da poter essere meglio controllate: in cambio della tassa che le tenutarie delle case e le donne pagavano al governo, veniva loro data la stessa protezione garantita a qualunque altra impresa commerciale dell’antica Cina.

• Le prostitute venivano classificate in base alle loro doti: quelle che dovevano puntare soprattutto sulle proprie attrattive fisiche costituivano la classe più umile, anche se vi erano delle eccezioni. La prostituta di basso rango doveva vivere con le colleghe in un’unica stanza e sotto la rigida sorveglianza della tenutaria. Uno scalino più su erano le ragazze che sapevano suonare o danzare o comporre versi: costoro avevano quasi tutte una camera e un salottino personali e, entro certi limiti, potevano scegliersi i clienti. Il tenutario della casa aveva tutto l’interesse a incoraggiare le ragazze più richieste a non concedersi con troppa facilità, poiché ciò faceva aumentare le tariffe. Inoltre, una volta che una cortigiana era diventata famosa, le sue probabilità di essere comprata da un ricco protettore aumentavano, il che andava a vantaggio sia suo che del tenutario della casa, al quale la ragazza apparteneva.

• Marco Polo, il famoso viaggiatore del XIII secolo, riferì che a Pechino vi erano oltre ventimila donne che vivevano prostituendosi, mentre a Hang-Chau erano in quantità tale che egli rinunciava a calcolarne anche approssimativamente il numero.

• Negli harem più numerosi si segnavano meticolosamente la data e l’ora di ogni unione sessuale, oltre ad alcuni dati somatici di ciascuna donna. Nell’VIII secolo si imprimeva sul braccio delle donne che avevano avuto rapporti intimi con l’imperatore un marchio indelebile con il motto, indubbiamente appropriato, «vento e luna [coito] sono sempre nuovi»; questo marchio aiutava l’imperatore a ricordarsi delle donne che aveva posseduto.

• Attrice e prostituta diventarono sinonimi e tutte le persone legate in qualche modo alla vita di teatro si fecero una pessima reputazione. Finché Giustiniano non cambiò la legge, gli aristocratici bizantini non potevano sposare un’attrice o una donna del suo livello. In linea con la tradizione cristiana, non si negava che le attrici potessero emendarsi, ma solo se lasciavano le scene.

• A Parigi le prostitute vivevano quasi tutte in una zona chiamata il Clapier, nome derivato dal termine clap (con clap si indica, in gergo, un tipo di malattia venerea.). Col tempo le prostitute furono costrette, in quasi tutta l’Europa, a vivere in speciali quartieri, a indossare particolari abiti o una banda al braccio, spesso a tingersi i capelli: a distinguersi insomma in un modo o nell’altro dalle matrone rispettabili.

• Il concetto di cortigiana restò limitato alle classi ricche. Per cortigiana in origine si intendeva colei che serviva a corte, ma la parola diventò presto sinonimo di amante di corte o prostituta di lusso: la cortigiana riservava i propri favori esclusivamente ai ricchi. Andrea Cappellano, codificatore dell’amor cortese, rispecchiava la mentalità dell’aristocrazia. Per lui l’amore era un’emozione riservata ai nobili: riteneva molto improbabile che il popolo potesse avere le virtù necessarie per l’amore.

• A complicare e a favorire il mutato atteggiamento religioso nei confronti della prostituzione contribuì il rapido diffondersi delle malattie veneree; la sifilide fece sì che anche i cattolici più ortodossi cominciassero a discutere la condizione della prostituta, che veniva sempre più indicata come fonte dell’infezione.

• Per Lutero i voti di castità erano nati dalla convinzione che ci si potesse guadagnare il favore divino osservando discipline che l’uomo si autoimponeva; ciò, a suo avviso, era un’illusione. Nella sua argomentazione basata sulla salvezza, la continenza non dipendeva dalla volontà dell’uomo più di quanto dipendessero da lui altre grazie divine; l’elemento essenziale per salvarsi è la fede, e non le buone opere, ammesso che la castità potesse considerarsi tale.

• L’inglese Philip Stubbes, autore dell’opera Anatomia degli abusi (1583), avrebbe voluto che tutte le meretrici venissero marchiate a fuoco sulle guance, sulla fronte e su altre parti visibili del corpo e deplorava che i tutori della legge tollerassero la prostituzione. Stubbes era evidentemente un estremista: riteneva anche il ballo, almeno come era praticato allora, un «invito alla prostituzione, un avvio al libertinaggio, una provocazione alla impudicizia e l’inizio di ogni forma di lascivia».

• A Londra le case di malaffare furono chiuse nel 1546, a Parigi nel 1560. L’editto del 1560, registrato soltanto nel settembre del 1561, proibiva a tutti i cittadini di alloggiare e ricevere nelle proprie case persone senza lavoro per più di una notte, e ordinava la chiusura di tutte le case di tolleranza. Persino Roma fu contagiata dai nuovi fermenti del tempo e con un editto del 23 luglio 1566 ordinava a tutte le prostitute di lasciare la città. Quando venticinquemila persone, incluse le donne e le loro piccole corti, iniziarono i preparativi per andarsene, la città fu presa dal panico e il papa fu indotto ad abrogare il decreto il 17 agosto dello stesso anno.

• Nell’antica Cina si sconsigliava alle cortigiane amanti di ricchi clienti di avere rapporti con uomini di ceto inferiore, per timore delle infezioni veneree.

• Se una forma di malattia venerea esisteva fin dall’antichità, una forma nuova e più violenta si manifestò verso la fine del XV secolo, preannunciata in un primo tempo dal formarsi di un’ulcera sulla parte esterna dei genitali. Quest’ulcera non era dolorosa, e finiva con lo scomparire da sola, ma dopo un po’ in chi ne era stato colpito comparivano eruzioni cutanee, piaghe in bocca e profonde ulcere o lesioni (gumma) alle gambe e in altre parti del corpo. I primi casi di questa malattia vennero riscontrati tra i soldati dell’esercito francese che assediava Napoli nel 1495, la malattia fu chiamata morbus gallicus, mal francese.

• I francesi, per una sorta di orgoglio nazionale, cercarono di attribuire la paternità della malattia a qualche altro paese; cominciarono così a chiamarla mal de Naples, ma gli italiani e gli inglesi restarono fermi alla prima denominazione. I turchi la chiamarono mal cristiano, i cinesi mal portoghese e non mancarono le definizioni di mal tedesco, americano, spagnolo, siriano, egiziano e inglese, oltre a centinaia di altri nomi a parte questi derivati dalle varie nazionalità.

• Il primo a dare all’epidemia il nome di sifilide fu Girolamo Fracastoro di Verona (1484-1553), medico, poeta, fisico, geologo e astrologo, che nel 1530 pubblicò un poema intitolato Syphilis sive de morbo gallico, dove si racconta come una terribile siccità affliggesse l’isola di Haiti, uccidendo animali e uomini. Un pastore di nome Sifilo, ritenendo che la siccità fosse una crudele punizione degli dèi, si ribellò al dio Sole, Sirio, e diventò improvvisamente devoto di re Alcitoo, un comune mortale. Alcitoo, inebriato da questa improvvisa venerazione, decretò che gli dèi potevano tenersi il cielo, ma che lui era re della terra. Per punire quest’empietà Sirio inviò sulla terra una nuova pestilenza e Sifilo fu il primo a esserne colpito, in quanto era stato il primo a ribellarsi agli dèi. Il successo del poema di Fracastoro fu tale che la nuova malattia finì per essere chiamata sifilide.

• Particolarmente famoso era l’accabussade, un tipo di punizione ancora in uso a Tolosa nel XVIII secolo. Qui una donna accusata di prostituirsi veniva condotta davanti al tribunale cittadino dove il boia le legava le mani dietro la schiena, le infilava in testa un berretto di pan di zucchero adorno di piume e infine le attaccava sulla schiena la scritta “prostituta”. Così combinata veniva fatta sfilare per la città tra beffe e motteggi del popolo; raggiunte le rive della Garonna, il boia e i suoi aiutanti trasportavano la poveretta su uno scoglio in mezzo al fiume, la costringevano a spogliarsi e la mettevano quindi in una gabbia di ferro; gabbia e prostituta venivano immerse tre volte nel fiume, rimanendovi finché la donna non era quasi affogata. Dopo la terza immersione, la gabbia veniva lasciata sullo scoglio in modo che la prostituta, mezza tramortita, potesse essere vista dalla plebaglia che passava sul lungo fiume. Alla fine veniva trascinata all’ospizio di carità dove avrebbe terminato di scontare la sua pena.

• Esisteva una discreta gamma di case di tolleranza specializzate: una aveva come clientela soprattutto membri del clero, un’altra aveva stanze speciali per evitare che le attività extraclericali di questi gentiluomini venissero scoperte. Un bordello era specializzato in prostitute nere e un altro in vergini, anche se la verginità della maggior parte delle ragazze probabilmente era fittizia; un altro infine si vantava di reclutare le sue ospiti soltanto tra le classi sociali più elevate.

• In Inghilterra la prostituta trovò ruoli di rilievo nel mondo del teatro. Fu soltanto l’8 dicembre 1660 che una parte femminile fu interpretata da una donna sulle scene londinesi, sebbene le donne, seguendo l’esempio italiano, fossero già apparse da tempo su quelle francesi. Il ruolo interpretato era quello di Desdemona.

• Fin dal 1724 Bernard Mandeville chiedeva il riconoscimento del meretricio nel suo libro A Modest Defence of Publick Stews: egli riteneva che il male peggiore strettamente connesso con la prostituzione fosse il diffondersi delle malattie, troppo spesso trasmesse a mogli, mariti e bambini innocenti. Riteneva quindi che non ci fosse altra soluzione che quella di autorizzare l’esistenza di case di tolleranza pubbliche. Mandeville aveva elaborato il suo progetto in tutti i particolari: proponeva che a Londra si aprissero almeno un centinaio di case di tolleranza, capaci di ospitare duemila donne, e un numero proporzionale in ogni cittadina. Doveva esserci una direttrice ogni venti donne, e un’infermeria con almeno due medici e quattro chirurghi per regolari visite di controllo. La supervisione dell’insieme doveva essere affdata a tre commissari che si sarebbero occupati delle eventuali lamentele sia delle donne che dei loro clienti. In ogni casa dovevano esserci quattro categorie di prostitute, scelte in base alla loro bellezza o ad altre doti, con una tariffa diversa per ogni gruppo. La prima categoria, che era quella delle prostitute meno dotate, doveva essere composta di otto donne, con tariffa mezza corona; la seconda, sei donne con tariffa una corona; la terza, quattro donne, tariffa mezza ghinea; la quarta, due donne riservate a “persone di rango” che potevano permettersi di pagare una ghinea. Le donne per queste case di tolleranza si sarebbero reclutate tra coloro che praticavano già la prostituzione; non sarebbe stato male inoltre importare donne dall’estero, il che avrebbe contribuito a mantenere più oneste le ragazze inglesi e nello stesso tempo avrebbe soddisfatto, senza bisogno di andare all’estero, la curiosità della gente sulle donne straniere.

• Jonas Hanway, riformatore inglese, sosteneva che una delle cause della prostituzione fosse l’obbligo da parte delle ragazze di portare una dote quando si sposavano: molte fanciulle povere, non potendo permettersela, si davano alla prostituzione. Egli chiedeva dunque che la famiglia reale inglese facesse la dote a un certo numero di fanciulle povere ogni volta che nasceva un principe reale.

• Nel 1789 venne affdato a due medici privati l’incarico di visitare le prostitute parigine, con l’obbligo di denunziare alla polizia tutti i casi di infezione. Nel 1802 fu creato un dispensario e la polizia cominciò a registrare le prostitute, obbligandole a sottoporsi a visite di controllo quasi settimanali.

• Una ragazza sana della classe operaia tra i quattordici e i diciott’anni era venduta a venti sterline più le spese; una ragazza della borghesia sulla stessa età costava circa cento sterline; e una bella bambina, preferibilmente nobile e al di sotto dei dodici anni, veniva venduta a quattrocento sterline.

• Dai registri della chiesa di Groton, nel Connecticut, risulta che tra il 1761 e il 1775 dei duecento presbiteriani appartenenti a quella comunità, sessantasei confessarono di essersi resi colpevoli di fornicazione prima del matrimonio; tra il 1789 e il 1791 sedici coppie nuove entrarono a far parte della comunità e di esse nove confessarono di aver avuto rapporti preconiugali.

• A New York, nel 1855 il dottor W.W. Sanger faceva riempire a circa duemila prostitute dei moduli in cui veniva chiesta loro età, luogo di nascita, condizioni economiche e le ragioni che le avevano spinte a quella vita. Risultò che di 2000 prostitute, 1238, ossia il sessantuno percento, erano nate all’estero. La percentuale più alta, circa 706, era di origine irlandese, e in quel periodo infatti erano gli irlandesi ad arrivare in America in maggior numero. Al secondo posto c’era la Germania, con 257 donne, mentre soltanto una era italiana, tre polacche, e un’austriaca. Tra le prostitute interrogate, nessuna risultava proveniente dalla Russia o dall’Europa sudorientale. Un numero sorprendente di prostitute nate in America veniva dal New England, probabilmente da quelle città in cui vi era un’eccedenza di donne.

• La sola New York nel 1912 aveva centoquarantadue case di piacere, mentre cinque anni dopo pare non ne esistessero più di tre.

• La più famosa prostituta della prima parte del XIX secolo fu Harriette Wilson, amica di re, duchi, baroni oltre che di personaggi assai meno altolocati. Harriette era una ragazza allegra, radiosa di bellezza e piena di salute: il suo lavoro le piaceva ed ella riuscì a incantare una nutrita schiera di uomini. Nel periodo di maggior splendore fu corteggiata da poeti, statisti, eroi nazionali, aristocratici, e tutti speravano di essere visti con lei o notati da lei. Avvicinandosi alla maturità, tuttavia, cominciò a perdere parte del suo fascino e, spinta dal bisogno di denaro, decise di vendere le sue memorie. Piuttosto che esporre i suoi antichi amanti a una spiacevole notorietà, Harriette, da vera gentildonna, li avvertì che per 200 sterline a testa avrebbe omesso di ricordarli nel suo libro. Alcuni pagarono, sollevati di cavarsela così a buon mercato, ma altri non ne vollero sapere. Il duca di Wellington fu uno di questi e quando Harriette gli mandò una lettera in cui gli proponeva di pagare le 200 sterline, egli vi scarabocchiò su a inchiostro rosso: «Pubblicate e andate all’inferno».

• Si dice che Lord Hertford offrì a Virginia Oldoini, più nota come la contessa di Castiglione, 40.000 sterline per una notte, un prezzo che lei accettò. Pare però che Lord Hertford chiedesse tanto in cambio, da costringere la povera contessa a passare poi tre giorni a letto per rimettersi.

• Nel 1792 Mary Wollstonecraft pubblicava il suo famoso A Vendication of the Rights of Women, esortando le sue simili a rinunciare alla loro passività. Mary ebbe molte seguaci, non solo in Inghilterra, ma anche all’estero. Le donne cominciarono a chiedere il diritto di essere istruite, di votare, di bere, di fumare. Alcune giunsero a chiedere la stessa libertà dell’uomo nei rapporti sessuali.

• Uno dei primi anticoncezionali fu il condom, ossia una guaina protettiva messa sul pene. Tali guaine, già in uso presso i popoli primitivi, sono raffgurate nelle antiche statue egizie e ricordate nella letteratura romana. Gli storici sono quasi tutti concordi nel ritenere che il loro scopo principale fosse quello di proteggere dalle malattie veneree, e non d’impedire il concepimento.

• Il nome condom deriva da un medico inglese, un certo Condom, che preparava guaine con sottilissime membrane dell’intestino cieco di giovani agnelli. Il primo a usare il termine fu Daniel Turner, nel 1717, ma niente prova la reale esistenza di un dottor Condom e gli storici sono ancora incerti sull’origine della parola.

• Un’infermiera socialista, Margaret Sanger, ebbe il coraggio di sfidare la legge che proibiva la propaganda dei metodi antifecondativi. La Sanger diventò famosa in seguito alla pubblicazione di una serie di articoli intitolati “Ciò che ogni ragazza dovrebbe sapere”, apparsi nella pagina dedicata alle donne del quotidiano The Call, il più importante giornale socialista di New York del tempo. La Sanger vi trattava i problemi della pubertà e dell’adolescenza, i cambiamenti fisici che subisce il corpo di una ragazza, la funzione delle ovaie, delle tube di Falloppio, dell’utero, della vagina e infine la causa delle malattie veneree e le misure preventive da adottare contro di esse. La Sanger descriveva inoltre gli orrori dell’aborto, che potevano essere eliminati mettendo a disposizione di tutte le madri gli antifecondativi. Affermava che il «corpo di una donna appartiene soltanto a lei» e che «la maternità forzata è la peggiore negazione del diritto di una donna alla vita e alla libertà».

• Alexandre Jean-Baptiste Parent-Duchâtelet è uno dei primi medici a raccogliere dati statistici sulla prostituzione. Ecco il ritratto della prostituta parigina degli anni intorno al 1830: non ha ancora vent’anni o li ha passati da poco, è analfabeta, povera, spesso illegittima o appartenente a una famiglia sbandata, ed è disposta ad abbandonare la prostituzione se le si offre qualcosa di meglio. Delle 5154 prostitute cui pose la domanda del perchè si prostituissero, 1441 risposero di essersi date alla prostituzione di propria volontà per guadagnarsi da vivere; altre 1255 erano state o scacciate di casa o abbandonate dai genitori e avevano trovato nella prostituzione l’unico mezzo di sostentamento; 60 dissero che erano state costrette a darsi alla prostituzione per mantenere i genitori o altri parenti; 280 erano arrivate a Parigi dalla campagna e, prive di mezzi, avevano scoperto che il meretricio era l’unica via che non fosse loro preclusa; 404 dissero di essere state portate a Parigi da altra gente e di essersi date alla prostituzione per sopravvivere; 289 erano ex domestiche sedotte dai padroni e quindi abbandonate, mentre 1425 erano amanti o concubine abbandonate dai loro uomini.

• Alcuni studiosi hanno accettato il concetto di latente omosessualità delle prostitute, ma pochi sono arrivati alle conclusioni di Frank Caprio che affermava che la prostituzione è un meccanismo di difesa contro i desideri omosessuali: la prostituta aveva preferito scegliere una pseudoeterosessualità piuttosto che darsi a un’aperta attività omosessuale.

• “Vedrete, iniziando a leggere questa lettera, che essa non è indirizzata espressamente a voi. Ma io la indirizzo a una donna – una donna ancora molto giovane – che era nata per essere felice e ha vissuto miseramente; che innanzi a sé non ha che dolore, e alle proprie spalle soltanto una giovinezza sciupata; che se mai è stata madre, ha provato vergogna anziché orgoglio per aver dato alla luce una creatura infelice. Voi siete in queste condizioni, o questa lettera non sarebbe ora nelle vostre mani”.
(Opuscolo scritto da Charles Dickens e distribuito alle prostitute nelle prigioni e per le strade nel 1874).

• Nel secolo XIX la prostituzione poteva ancora fare la sua comparsa nella letteratura, ma solo se accompagnata da seri ammonimenti e frequenti condanne. I romanzieri che toccavano anche di sfuggita l’argomento prostituzione dovevano badare che la prostituta soffrisse e morisse; se si aveva l’impressione che le prostitute potessero aver fortuna e diventare ricche come Fanny Hill, allora gli autori si trovavano nei guai. Ciononostante vale la pena di notare che, più l’opinione pubblica condannava uffcialmente qualunque accenno al sesso o a situazioni erotiche nella letteratura, più il mercato dei libri erotici venduti sottobanco aumentava.