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 2015  luglio 05 Domenica calendario

ZADIE SMITH SONO UNA SLOW WRITER

[Intervista] –
LONDRA
Se dici “NW”, in questa città capiscono subito a cosa alludi: le prime due lettere del codice postale della zona North West. Ma c’è Nord Ovest e Nord Ovest, per dirla all’italiana: tutto dipende dalla cifra che viene dopo le lettere. Hampstead, NW3, è il quartiere dei champagne socialists, come a Londra chiamano i radical chic: quelli di sinistra, intellettuali, con i soldi. Kilburn, NW6, è un quartiere popolare, abitato prevalentemente da immigrati irlandesi e afro-caraibici.
NW è anche il titolo del quarto e ultimo romanzo di Zadie Smith (nella versione italiana, chissà perché, Mondadori ha deciso di mettere un trattino fra le due lettere, pensando forse che senza avrebbe intimorito i lettori), la trentanovenne scrittrice anglo- giamaicana considerata la stella letteraria della sua generazione in Gran Bretagna, e non solo in Gran Bretagna. A NW6, Zadie ci è nata e cresciuta. A NW6 è ambientato il primo romanzo, Denti bianchi , scritto a ventidue anni e diventato istantaneamente un best-seller mondiale, cambiandole la vita. Da NW6 passano anche in qualche modo i due romanzi successivi e ovviamente è il protagonista del quarto. E a NW6 Zadie Smith abita tuttora, avendo comprato una casa in una stradina che sta gradualmente imborghesendosi. Ma i dintorni non hanno nulla di borghese. L’esterno della casa però può trarre in inganno: all’insegna dell’understatement inglese, dentro è più spaziosa, luminosa e attraente di quanto appare da fuori. Dalla finestra dello studio in cui Zadie lavora, al primo piano, invaso di libri e carte (sulla scrivania una guida dello Zambia, una biografia di Fred Astaire, una foto di Virginia Woolf, una stampata di un saggio pieno di correzioni che sta finendo di sistemare, una pila di libri e un computer portatile), si vede il giardino di sotto, con due palme.
«C’è anche un ulivo», dice lei, seduta alla poltroncina da lavoro, con in testa il caratteristico fazzoletto diventato il suo distintivo, maglietta, jeans e scarpe basse, neanche un filo di trucco o un gioiello, e tuttavia non riesce a nascondere una smagliante bellezza da top model. Molto Mediterraneo, osservo, riferito al giardino. «Ma non li ho piantati io quegli alberi, ho trovato tutto così quando abbiamo comprato casa, dieci anni fa».
Il plurale allude al marito, Nick Laird, scrittore e poeta irlandese; ora la famiglia include anche i loro due figli, di cinque e due anni, in questo momento al piano di sotto con la nanny.
È vero che è nata in una “council house”, gli alloggi popolari che lo stato britannico assegna ai poveri e che molti a Londra considerano una specie di inferno?
«Se si sporge dalla finestra, la vede».
Il suo tragitto personale è stato lungo. Quello geografico si potrebbe attraversare in due minuti. Dicono che da piccola volesse ballare il tip-tap, diventare un’attrice, fare la cantante jazz, prima di sentire la chiamata della letteratura: come ha fatto tanta creatività a sprizzare fuori da un luogo che l’immaginario collettivo associa con droga, microcrimine e ragazze-madri?
«C’è molta più creatività nelle council house che nelle case della classe medio-alta. Magari è creatività che non porta al successo, ma i miei compagni di giochi e di scuola erano tutti ragazzini dotati di fantasia e sogni. Quelli delle famiglie borghesi di Londra in genere sognano di fare l’avvocato o il banchiere, e di solito finiscono per farlo. Non il massimo della creatività, mi pare».
Pare anche a me. Comunque come ha fatto, lei, a uscire da una “council house” e approdare a Cambridge, la migliore università d’Inghilterra e la seconda migliore del mondo?
«Studiando. E forse grazie alla fortuna di un po’ di talento».
Innato? Da dove le è venuto l’amore per i libri?
«Dai genitori. Mio padre, inglese, smise di andare a scuola a dodici anni ma adorava leggere, comprava tanti libri di seconda mano. E anche mia madre leggeva. A casa i libri non sono mai mancati. Mentre ricordo un compagno di classe, più agiato, figlio di assicuratori: a casa sua non ce n’era neanche uno».
È bastato leggerne tanti per essere ammessa a Cambridge?
«Devo essergli piaciuta nel colloquio selettivo. In matematica avevo un B (equivalente a un nostro 6,5/7, ndr ). In lettere avevo voti molto più buoni. Hanno scommesso su di me».
E non hanno perso.
«Devo molto all’insegnante di lettere del liceo. Era laureato in letteratura al King’s College di Cambridge, lo stesso a cui mi sono poi iscritta io, ed è venuto ugualmente a insegnare in una scuola media di un quartiere operaio, a ragazzini di colore come me. Era un idealista. Nessuno dei compagni di studi che si sono laureati a Cambridge con me è andato a insegnare in una scuola».
I tempi sono cambiati. Oggi comanda il dio denaro. Com’era Cambridge, quando la fece lei?
«Intanto era ancora gratis, mentre ora costa novemila sterline (dodicimila euro, ndr ) l’anno. Ciononostante ero l’unica nera del mio anno».
In questo, i tempi non sono tanto cambiati: pure a Oxford, l’anno scorso, c’era un solo nuovo iscritto nero. Si chiama classismo britannico.
«Anni dopo la laurea, dopo che mi ero già affermata come scrittrice, sono stata invitata a fare un discorso in una scuola privata di Londra, qui vicino. Era la prima volta che mettevo piede in una scuola privata. Tutto quello spazio, i campi da rugby, gli allievi in uniforme. Mi arrabbiai così tanto che quasi non riuscii a parlare».
Manderà i suoi figli alle scuole private?
«No. E non per una scelta etica, ma perché penso sinceramente che ad andarci perderebbero più di quello che ci guadagnerebbero».
Questa è però anche una società meritocratica, e lei ne è la prova vivente. Ho sentito dire che non ha mai riletto “Denti bianchi” e che non rilegge mai volentieri i suoi libri.
«Credo che pochi scrittori lo facciano. Vedi solo i difetti, le ingenuità, un altro te, qualcuno che non sei più».
Neanche Fellini voleva rivedere i propri film.
«E penso che neppure i musicisti riascoltino tutto il tempo la propria musica».
Fare un centro sensazionale con il primo libro a soli ventidue anni potrebbe anche rivelarsi una maledizione: lei ha mai sofferto un blocco dello scrittore, dopo il successo ottenuto con “Denti bianchi”?
Scuote la testa. Accavalla le gambe.
«Più che una mancanza di ispirazione su cosa scrivere, il problema che sento è trovare la forma giusta. Penso che il romanzo in assoluto sia arrivato a un punto molto avanzato della propria esistenza. Molto è già stato fatto, in questo campo, e molto di buono. Non ho niente contro chi vuole continuare a scrivere secondo modelli già sperimentati. Ma a me non interessa. Perciò sono lenta a scrivere narrativa. Ho un paio di romanzi in fase di gestazione ma sarà ancora molto lunga, devo scegliere a quale dare la precedenza. Vado più veloce con la saggistica».
Ha scritto libri molto apprezzati e venduti proprio sulla morale del romanzo e sulla scrittura. Ha studiato e insegnato lei stessa scrittura creativa anche a Harvard. Com’era?
«Bellissima. Ma costa sessantamila dollari di iscrizione l’anno. Non ci va gente come ero io a vent’anni. O meglio, qualcuno sì, con le borse di studio: Harvard è così ricca che può permettersi di finanziare i meritevoli senza soldi. Non per nulla ci ha studiato Obama, che non veniva certo da una famiglia ricca. Altre università americane non possono. Insegnare a Harvard, in ogni modo, mi ha curato dal mito di Harvard. È una torre d’avorio. Un piccolo mondo chiuso su se stesso».
Vedere un mito da vicino ti aiuta sempre a smontarlo: andare a vivere in Russia come corrispondente, mi avrebbe curato dal mito del comunismo, se mai ce l’avessi avuto.
«Ci sono stata anch’io, in Russia. Nel 1989. Con un programma di scambio scolastico. Le scuole di élite andavano in Francia o in Spagna. La nostra ci spedì per un mese a Mosca. Rimasi scioccata. La famiglia che mi ospitava rimase sconvolta quando vide che ero nera. La gente mi chiedeva se venivo dalla giungla. Trovai un razzismo che non mi sarei mai aspettata. I compagni di classe russi bevevano vodka nella ricreazione, erano già mezzi alcolizzati. E avevano il mito della Thatcher e dei ristoranti McDonald’s, che noi detestavamo. Quando fu il loro turno di venire ospiti a Londra e li portai in un supermarket, si misero a piangere davanti a tutta quella abbondanza».
Dovrebbe scriverci una storia, sul suo mese in Russia.
«Dovrei. Non ci pensavo più da tanto tempo».
Adesso insegna alla New York University.
«Ci passo sei mesi o più all’anno. Abito in un appartamentino dell’università vicino a Washington Square Park».
Meglio New York o Londra?
«Adoro New York e la vita che faccio lì. È meno carica di ricordi e di responsabilità. Ma nei nostri piani ci sarebbe di vivere a Roma, anzi di tornare a viverci. Io e mio marito ci abbiamo passato due anni, prima che nascessero i figli. La scusa era che volevamo imparare l’italiano e un po’ l’abbiamo imparato. Ma la ragione vera è che è quella la città più bella del mondo. Non me ne frega niente se rimani bloccato nel traffico o impazzisci per farti cambiare un telefono: è bellissima lo stesso. Se non ora, ci andrò a stare da vecchia. Ho conservato tanti amici italiani, come Francesco Pacifico e Martina Testa della Minimum Fax. Abitavamo al quartiere Monti. Ci tornerei domani».
Parliamo di scrittori. Dico Charles Dickens, e Zadie cosa pensa?
«La mia infanzia. Un grande, ma non lo rileggerei adesso».
Evelyn Waugh?
«Divertente e arguto, ma con idee pericolose. Se voglio ridere, preferisco Wodehouse».
Jane Austen?
«La regina del romanzo ben confezionato. Ma il suo mondo è troppo stabile».
Non ama più i classici?
«Forse li ho letti troppo all’università. Ma l’anno scorso ho letto per la prima volta Delitto e castigo di Dostoevskij. Il mio prediletto, fra i russi, è Tolstoj».
Virginia Woolf, di cui ha la foto davanti agli occhi?
«Confesso che mi piace tutto quello che scrive, saggi, biografie, lettere, tranne i suoi romanzi».
James Joyce?
«Meglio i Racconti di Dublino che l’ Ulisse , secondo me».
I contemporanei inglesi, Amis, Hornby, Coe?
Fa segno di sì, li legge, ma non sembra proprio entusiasta.
«Michel Faber», dice, indicando uno dei libri nella pila sulla sua scrivania: è l’autore de Il petalo cremisi e il bianco , un super-best seller dallo stile innovativo.
Il suo ultimo “Il libro delle cose nuove e strane”, appena uscito in Italia, arriva dopo sei anni di silenzio.
«È uno slow writer, lento, come me».
Il suo autore della vita?
Ci pensa su. Ci ripensa.
«Nabokov. Quando ero più giovane. Nell’epoca in cui divoravo anche Milton, Shakespeare e la Bibbia».
Italiani?
«Elena Ferrante, molto brava».
L’ultima domanda è sulla Giamaica: che effetto le fa l’isola dei suoi avi?
«La prima volta che ci andai, da bambina, fu uno shock. Ero povera, ma non me ne ero mai resa conto, mi consideravo middle-class. Davanti alla casa natia di mia madre in Giamaica capii da dove venivo, compresi che ero povera davvero. Adesso mi piace da pazzi, è un luogo incredibilmente bello. E le mie radici giamaicane sono sempre più forti, ora che mio padre è morto: i miei avevano divorziato quando ero ragazzina, mia madre si è messa con un giamaicano, è come avere di colpo due genitori neri. La Giamaica mi piace anche per questo, perché c’è gente come me, che mi somiglia, oltre a una fantastica energia nell’aria».
Deve averne importata un po’ a NW6, di quella energia.
Enrico Franceschini, la Repubblica 5/7/2015