Dario Di Vico, Corriere della Sera 4/7/2015, 4 luglio 2015
LA DOPPIA LEZIONE E L’INDUSTRIA
In extremis il governo ce l’ha fatta e il tormentato decreto che permetterà a Ilva e Fincantieri di andare avanti nei loro programmi è stato varato. C’è voluto del tempo e della pazienza perché Matteo Renzi voleva evitare una contrapposizione frontale con la magistratura, che con due distinti provvedimenti presi in sede locale aveva bloccato, a Taranto dopo la morte di un operaio, l’altoforno 2 e ordinato il sequestro di un capannone nei cantieri di Monfalcone. Con il decreto verranno adeguate le norme e di conseguenza o saranno superate di fatto le obiezioni avanzate dai giudici o si darà tempo all’azienda di adeguare le misure di sicurezza. Un ottimista potrebbe commentare la vicenda ricorrendo alla saggezza dei classici secondo i quali «oportet ut scandala eveniant» ovvero grazie all’intervento a gamba tesa delle toghe sono state ricucite le maglie del diritto. Un pessimista obietterà che è abbastanza singolare che il governo della Repubblica debba agire in fretta e furia alla stregua di un artificiere per disinnescare un dispositivo che mette a repentaglio, senza una vera emergenza, migliaia di posti di lavoro. Volendo capitalizzare il meglio di entrambi i punti di vista sarà meglio chiederci cosa impariamo da questi due casi e cosa dobbiamo fare perché non si ripetano.
L’ampia reazione che è seguita al sequestro Fincantieri dimostra come il futuro di una delle aziende italiane che sfida la competizione globale non è un tema corporativo, che riguarda solo la casta degli industriali, i burocrati sindacali e i dipendenti che vi lavorano. No, è un tema che investe tutti perché riguarda il futuro di questo nostro complicato Paese. L’industria italiana avrà anche cento colpe ma per l’essere esposta totalmente alla competizione internazionale ha dovuto giocoforza crescere culturalmente e operativamente. Non abbastanza? Ci vuole un maggiore impegno in campo ambientale? Discutiamone senza remore e battiamoci perché ciò avvenga, ma per onestà intellettuale provate a immaginare che qualità della pubblica amministrazione avremmo anche in Italia se lo Stato erogatore di servizi fosse esposto, come la manifattura, alla concorrenza di tedeschi e coreani.
La seconda lezione che dobbiamo trarre dalle vicende Ilva e Fincantieri ci riporta al dialogo (che non c’è) tra economia e magistratura. Mi è capitato già di sollevare il tema e di invitare le parti a riempire il vuoto. Qualcosa si sta, seppur lentamente, muovendo e sicuramente segnaleremo le novità sapendo anche che finora i timidi tentativi realizzati non hanno partorito granché. Ai giudici non si chiede di abdicare al proprio ruolo e di diminuire la propria potestà ma di ampliare la ricognizione sui mutamenti della struttura economica, sulle discontinuità che la Grande Crisi ci lascia e quindi di accrescere il grado di consapevolezza degli effetti di questa o quella interpretazione della stessa norma. L’unica cosa che non si può accettare è che a questo invito si risponda, come mi è capitato di sentire, «il giudice meno ne sa e più è libero di applicare la legge senza i condizionamenti del mercato».