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 2015  luglio 04 Sabato calendario

“HO FATTO SCUOLA DI FEROCIA NEI BASSIFONDI DI BARI”

[Intervista a Nicola Lagioia] –
Cinque anni di grandi rinunce senza mai fare una vacanza. Senza sabati e senza domeniche. E anche la notte, tutti e due svegli, immersi nelle atmosfere gotiche e notturne che più ci piacciono». Già, proprio così: parla al plurale Nicola Lagioia, 42enne barese, neovincitore del premio Strega con La ferocia, fresco di nomina e di emozioni. Al Ninfeo di Villa Giulia, quando ha saputo di aver distaccato di ben 56 voti il secondo arrivato, Mauro Covacich, ha fatto un gesto che ha stupito l’affollata «vasca» cinquecentesca dove si era svolta la tenzone. Ha chiamato sul palco la moglie Chiara, rosso-vestita - lui era abbigliato in nero con cravattino sottile -, e l’ha invitata a brindare perché senza di lei il libro «non ci sarebbe mai stato».
Un ringraziamento irrituale, il suo? Di solito i vincitori non omaggiano piuttosto la casa editrice? Anche perché per lei si sono mobilitate sia l’Einaudi sia la galassia Mondadori in cui rientra lo Struzzo.
«Non sono assolutamente irriconoscente. Ma Chiara avrà letto la Ferocia una quarantina di volte, quasi quanto la mia editor einaudiana. Si è parlato molto delle grandi manovre messe in atto a Segrate. Ma io credo che a conquistarsi lo Strega sia stato proprio il mio libro. A votarmi, per esempio, sono stati i 60 lettori forti che fanno capo alle librerie indipendenti. Sono giurati assolutamente inavvicinabili, che fanno di testa loro. Inoltre la schiera dei circa 400 Amici della domenica che scelgono il vincitore è composta in larga parte da elettori autorevoli e con le idee assai chiare: è assai improbabile che qualcuno riesca ad orientare il suffragio di personalità come il professor Stefano Rodotà, per esempio, o come il vincitore dello scorso anno, il mio amico Francesco Piccolo, che non ha mai nascosto la sua predilezione per il libro di Elena Ferrante».
Il racconto dell’ascesa e della decadenza dei Salvemini, una famiglia di costruttori pugliesi, mescola noir e tematiche forti come la sete di profitto e di potere, la corruzione, la distruzione dell’ambiente, i rapporti conflittuali tra genitori e figli. Per tutto ciò e per il suo linguaggio intenso, qualche critico l’ha definito troppo oscuro e barocco.
«Le vendite, però, fino a oggi sono andate piuttosto bene: ho superato le 20 mila copie. E sta per essere venduto all’estero. Nei parecchi mesi trascorsi dall’uscita del mio romanzo, in occasione di presentazioni e pubblici dibattiti, mi sono piuttosto reso conto che è un’opera divisiva, o conquista e appassiona oppure respinge. E’ inevitabile quando si parla di vite difficili. Come del resto è stata la mia».
In che misura «La ferocia» è un libro autobiografico?
«In parte lo è ma non tanto quanto Riportando tutto a casa. Sa qual è una delle parole che sentivo più di frequente da ragazzo, a Bari: “Ciue”, ovvero “Cosa vuoi?”. Alla fine degli anni Ottanta suonavo in un gruppo rock e frequentavo il quartiere Japigia. I locali erano pochi ma le band numerose, era una lotta farsi spazio. Circolava di tutto, a partire dalla cocaina. Venivo da una casa dove c’erano solo tre libri, Divina commedia inclusa. Mio padre preparava corredi per le future spose. Naturalmente frequentavo la scuola pubblica. Nei banchi accanto al mio c’era il figlio del fruttivendolo e quello dello spacciatore. Quest’ultimo, per l’entusiasmo di un’inaspettata promozione, ruppe con la testa il vetro della bacheca con i risultati».
E’ in quegli anni e in quel mondo duro che fa apprendistato di «Ferocia» e si delinea il suo ritratto impietoso del Mezzogiorno?
«Si può dire così. Ma il mio variegato Sud mi ha reso soprattutto un curioso dell’alterità, dei diversi ambienti sociali, dal mondo della malavita a quello dei ricchi borghesi corrotti, come gl’imprenditori del mio romanzo. Altre esperienze singolari le ho fatte arrivando a Roma, dopo la laurea in legge. Quella delle piccole case editrici era una realtà vivacissima, ne spuntavano come funghi: Voland, Minimum Fax che è diventata la mia seconda famiglia, Nottetempo, Fandango e Castelvecchi. Anche queste enclave apparentemente tranquille celavano spesso un far west: lavoravo per una minuscola casa e fui mandato dal tipografo. Questi mi chiuse a chiave in una stanza perché il mio boss era insolvente. Lo chiamai al telefono e lui se la cavò consigliandomi di scappare dalla finestra. Roma mi è piaciuta proprio per questi suoi aspetti sorprendenti e un po’ selvaggi».
Già scriveva, all’epoca?
«“Il primo libro, come diceva Calvino, è quello che bisognerebbe buttar via. Per dieci anni ho solo letto e cestinato tutto quello che scrivevo. La mia opera d’esordio appare l’11 settembre del 2001, il giorno dell’attentato alle Twin Towers: ho perso subito ogni speranza di avere qualche recensione».
Che impressione ha avuto dello Strega – delle molte voci di inciuci, traffici e pastette – lei che è un esploratore di umanità eccentriche e pure tenebrose?
«Come ho già detto, mi è parso un territorio dove la qualità delle opere fa premio. Naturalmente non posso escludere che nelle segrete urne si compiano anche vendette e tradimenti. Ciò di cui non si può parlare bisogna tacere, come diceva il filosofo».
Mirella Serri, TuttoLibri – La Stampa 4/7/2015