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 2015  luglio 04 Sabato calendario

NON AVRAI ALTRO IO ALL’INFUORI DI TE

Non avrai altro Io all’infuori di te. Questo sembra essere il primo comandamento che la Musa asfittica detta di questi tempi allo scrittore europeo di narrativa letteraria. Il secondo è una variazione sul tema del primo: non avrai altro dio (minuscolo) all’infuori dell’Io (maiuscolo). E così lo scrittore, imprigionato nella bolla egoica dell’immanenza a se stesso, si genuflette in adorazione di un tabernacolo consacrato al culto dell’Io che, però, sa esser vuoto. Di sacro in questa religione voracemente eucaristica non è rimasto nulla, nemmeno un’ostia. Il norvegese Karl Ove Knausgård è, al momento, il suo profeta.
La sua autobiografia in sei volumi – tremilacinquecento pagine intitolate La mia battaglia (e di chi altri se no?) – fa proseliti in tutto il mondo (a cominciare dai salotti letterari newyorchesi). In Italia ora possiamo leggere in traduzione il secondo volume, Un uomo innamorato. Qui Knausgård abbandona le solitudini boreali dei villaggi norvegesi per le città opulente e suprematiste dell’Europa scandinava, soprattutto passa dall’infanzia come soggetto del racconto all’infanzia come oggetto. Il tema non è più la morte del padre ma la sua nascita, i protagonisti non sono più il padre e i nonni del narratore, comunque «più grandi della vita» se osservati con gli occhi di un bambino, ma il narratore divenuto padre in una società in cui «ciò che prima apparteneva perlopiù alla sfera privata, adesso veniva strombazzato in pubblico» a cominciare dalla generazione dei figli, in una girandola di «riviste patinate per mamme dove i bambini sono una specie di accessori e libri scritti da padri rimasti a casa in congedo parentale». E a questo stadio dell’evoluzione della specie, non c’è nulla di «più grande della vita». Non c’è nulla, anzi, se non la piccola vita individuale.
Knausgård getta la maschera, scopre la sua aspirazione a scrivere «il libro della vita», vale a dire la sua ambizione a compiere il programma che fu del romanzo europeo fin dalle proprie origini: «Nulla è importante se non la vita… Per questa ragione sono un romanziere. Ed essendo un romanziere, mi considero superiore al santo, allo scienziato, al filosofo e al poeta – che sono tutti grandi esperti di parti diverse dell’uomo vivente, ma che non colgono mai l’intero. Il romanzo è il solo fulgido libro della vita». Questo proclama di D. H. Lawrence potrebbe, infatti, essere posto in epigrafe all’impresa di Knausgård. Si tratta, a modo suo, di un’impresa eroica. Di un’operazione di salvataggio, per la precisione. Schopenhauer una volta scrisse che della nostra vita trascorsa ricordiamo quel che si ricorda di un romanzo letto in un lontano passato. Knausgård intende il romanzo come una battaglia campale contro questa verità filosofica. La sua stenografia del quotidiano, finanche nei suoi aspetti più minuti, prolissi e insignificanti, non è un tentativo di smentire la verità schopenhaueriana riguardo la deperibile, evanescente inconsistenza della trama di rappresentazioni di cui ammantiamo il nocciolo terribile e indicibile dell’esistenza, ma è una protesta contro di essa, una tentativo di porvi rimedio infittendo il velo illusorio delle rappresentazioni, una pratica di risarcimento.
Knausgård, però, parte alla ricerca del tempo perduto nel «tempo della cronaca», cioè in un’epoca in cui le storie dei singoli si trascinano menomate di un orizzonte storico generale o metafisico superiore. Proust, suo modello dichiarato, rievocando in tremila pagine la vicenda individuale del giovane Marcel che diventa scrittore, ci restituisce un’epoca intera – anzi due: il tramonto di un mondo e l’alba, livida, di un altro – Knausgård non ha invece nessuna epoca a cui votarsi, soltanto la cronaca minuziosa, fino all’angoscia, della festicciola di compleanno di bambini svedesi a cui si servono gambi di finocchio in guacamole di avocado biologico invece che dolciumi e bibite zuccherine. Il suo, per dirla con Guido Mazzoni, è l’autobiografismo terminale di chi viene dopo il tramonto dei destini generali, quando «nessun occidentale si aspetta qualcosa di decisivo dalla storia e dalla politica, i grandi avvenimenti sono vissuti come astrazioni, meccanismi o spettacoli e tutto quello che interessa, a cominciare dai conflitti fra legami e piacere, si gioca nel tempo presente e nello spazio del privato».
A questo stadio a-storico della storia, l’Io è l’unico contenuto possibile di una narrazione, la cronaca la sua sola forma residua. Alla dilatazione smisurata dell’Io corrisponde, infatti, l’impossibilità cronachistica di selezionare e ordinare gli eventi secondo criteri di rilevanza o importanza. Contemplando l’infanzia di sua figlia Vanja, l’autore medita sul numero infinito dei momenti obliati della propria e si chiede: «come faccio a sapere che proprio gli eventi che sono rimasti radicati dentro di me sono stati quelli decisivi e non tutti gli altri di cui non so nulla?». Per sottrarsi al rischio di mancare l’essenziale, Knausgård decide di raccontare tutto, minuto per minuto, a cominciare dall’inessenziale. Il risultato spinge a dubitare fortemente riguardo all’esistenza del primo.
Di questo passo, il motto del romanziere otto-novecentesco – «nulla è importante se non la vita» – si estremizza e rovescia in «nulla in questa vita è più importante». Scegliete voi se intenderlo in un senso anti-gerarchico o in quello dell’insignificanza.
Antonio Scurati*, TuttoLibri – La Stampa 4/7/2015

*Scrittore. È nella cinquina del Campiello con il suo ultimo romanzo, «Il tempo migliore della nostra vita».