Goffredo Pistelli, ItaliaOggi 4/7/2015, 4 luglio 2015
DA NOI COMANDA SOLO LA BUROCRAZIA
[Intervista a Vito Tanzi] –
«Qui, Vito Tanzi parla». Sono passati moltissimi anni, quasi 50, da quando questo economista, che è stato ai vertici del Fondo monetario internazionale, dove fu uno dei 15 direttori centrali, ha lasciato il Bel Paese e parla un italiano che a volte suona americano e altre volte pugliese, essendo nato a Mola di Bari (Ba) nel 1935.
Laureato ad Harvard, poi docente alla George Washington e alla American University, Tanzi, pur vivendo nella capitale statunitense, torna ogni anno nella casa paterna. Lo raggiungiamo a Torino dove, su invito dell’Istituto Bruno Leoni, ha presentato il suo ultimo libro: Dal Miracolo economico al declino? Una diagnosi intima, edito dalla newyorchese Jorge Pinto Books.
Domanda. Tanzi, che cos’è questa «diagnosi intima» sul destino del nostro Paese?
Risposta. Come racconto nel libro, in queste decine di anni, non ho mai perso contatto con l’Italia.
D. Anche quando era al Fmi?
R. Assolutamente sì. Ogni anno sono venuto in Italia, anche nei 27 anni in cui sono stato direttore al Fondo.
D. Dove era il capo di Carlo Cottarelli...
R. Esatto, per 20 anni abbiamo lavorato assieme. Però un anno, era il 1974, ed ero ancora professore a Washington, trascorsi qui un intero un anno sabbatico, finanziato da Bankitalia. Ne parlo nella prima parte del libro.
D. Nel bel mezzo della crisi petrolifera
R. Precisamente, ed è a partire da quella stagione che si comincia ad aumentare la spesa pubblica per compensare quei maggiori costi.
D. Poi è tornato ancora?
R. Molte volte, su invito di Mario Monti in Bocconi, di Romano Prodi, di Gianni De Michelis. Sono venuto anche come capo delegazione Fmi. E si è parlato spesso di spesa pubblica e di riforma fiscale.
D. Finché non l’hanno addirittura convinta a spendersi personalmente: sottosegretario all’Economia del secondo governo di Silvio Berlusconi. Come fecero a farle dire sì?
R. Mi faceva piacere fare qualcosa per il mio Paese, le dico la verità.
D. Però, dopo due anni, se ne andò?
R. Fu un’esperienza interessante ma tutt’altro che semplice.
D. Spieghiamola.
R. Beh, innanzitutto non facevo parte di nessun gruppo politico.
D. E questo, diciamo, non ha aiutato.
R. Però vorrei precisare che con Giulio Tremonti, il rapporto era cordiale, cortese, non abbiamo mai avuto problemi a livello personale.
D. Però qualcosa non andò bene. Che successe?
R. Innanzitutto non avevo una delega specifica, né una responsabilità chiara. E questo significava che la macchina ministeriale non aveva nessun obbligo nel passarmi le informazioni: mi ritrovai in un vacuum informativo.
D. E cosa faceva, mi scusi?
R. Andavo in commissione bilancio, rispondevo alle domande di parlamentari, sulla base delle informazioni che mi davano all’ultimo minuto: una paginetta prodotta dai dirigenti, poco prima dell’incontro. Comico, non le pare, che uno con le mie competenze fosse usato come un postino?
D. In effetti...
R. A un certo punto feci un passo indietro.
D. Che cosa aveva imparato da quell’esperienza che, poc’anzi, ha definito interessante?
R. Ero venuto a far parte di un governo di centrodestra, pensando che avesse più fiducia nel mercato, magari in un mercato corretto con qualche buona regola.
D. E invece?
R. A poco a poco, mi ritrovai in mezzo a un esecutivo che teorizzava i dazi all’importazione.
D. Questo però era Tremonti
R. Ma Tremonti non c’entrava con l’aumento della spesa pubblica, per esempio.
D. Che ci fu
R. Lui però cercò di frenare poi, poco a poco, perse la battaglia. Così come anche la riforma fiscale andò a monte.
D. Sulla burocrazia italiana cosa imparò?
R. Che i politici non ne hanno l’appoggio. I ministri possono predisporre quanti disegni di legge vogliono, dopodiché se l’amministrazione si mette di traverso, no c’è niente da fare.
D. Berlusconi disse che gli remavano contro...
R. Quel governo ne fece almeno 300, di leggi, e non cambiò niente. In America lo chiamano «red tape», nastro rosso, e segnala il peso, la zavorra, la resistenza dell’apparato.
D. Loro come si regolano?
R. Si difendono con lo spoil system: a ogni cambio di amministrazione, il nuovo presidente si porta dietro 4mila persone. Qui non cambia nulla. Anzi mi colpì enormemente un fatto.
D. Quale?
R. Che Tremonti, subentrando a Vincenzo Visco, di cui era stato strenuo avversario, ne avesse mantenuto il capo di gabinetto.
D. Sa che questo tema ha caratterizzato tutto l’inizio del governo di Matteo Renzi? Che, appena arrivato a Palazzo Chigi, condusse una polemica violenta contro il cosiddetto potere dei parrucconi?
R. Anche Monti, se non sbaglio, aveva posto il problema. Ma nel periodo a cui lei si riferisce ero in giro, per alcune conferenze, e le confesso che ho seguito poco. E metto le mani avanti: non sono in grado di dare giudizi su questo governo. Dico solo che è presto e che ci vuole tempo. Sono contento, però, che vogliano fare molti cambiamenti.
D. Cos’altro ha imparato, Tanzi, da quella esperienza governativa?
R. L’assoluta indifferenza alla puntualità.
D. Prego?
R. Sì, l’abitudine a non rispettare gli orari, a non rispondere alle email. Non ricordo neppure un politico, in quel momento, che abbia fatto un riferimento pubblico a questo malcostume. Rammento invece, nel 1967, che il presidente coreano Park, un dittatore, cominciò a parlare ossessivamente di questo vizio dei suoi connazionali e, alla fine, cambiò loro la mentalità.
D. Le regole sono importanti.
R. Le regole e il loro rispetto. Diceva uno storico dell’economica che la modernizzazione di un Paese comincia da lì. In un’economia moderna e competitiva non si può non rispettare le regole.
D. Cos’altro frena questo Paese?
R. Le differenze.
D. Vale a dire?
R. L’Italia è un enorme Paese, stretto in un piccolo spazio. Abbiamo 8mila municipi, 8mila dialetti, 8mila cucine, abitudini, differenze culturali.
D. E non è una ricchezza?
R. Sì, ma economicamente crea problemi. Se lei va negli States, può percorrere chilometri e chilometri e non cambia quasi nulla: trova gli stessi McDonald’s e gli stessi Starbucks. Là, l’economia di scala è possibile, qui in Italia no. Se le fa il confronto anche con la Svizzera, troverà che noi abbiamo tantissimo tipi di formaggi più, chessò, qualche migliaio di case editrici.
D. Ma qualcosa ha prodotto questa multiformità?
R. Certo, artigianato di alta qualità, moda. Ma non possono bastare.
D. Eppure c’è stata un’epoca in cui questo Paese è cresciuto, lei nel suo libro.
R. Una crescita incredibile: dal 1945 al 1975, ogni anno, il Pil ha fatto mediamente il 6% in più, fino a portare l’Italia nel G7. Poi, di dècade in dècade, perché si tratta di una maratona e non di una corsa da 100 metri, le cose sono cambiate. Per effetto del debito pubblico e delle tasse crescenti, che servivano a far fronte alla spesa. Così negli anni ’80 si è passati a 2,5%.
D. Pare impossibile.
R. Lo so. Anche l’Argentina era uno dei Paesi più ricchi al mondo, nel Dopoguerra, ed è finita nel default.
D. Noi abbiamo la crisi greca in arrivo. Che ne pensa?
R. Le dirò che mi preoccupa più l’alternativa all’uscita dall’euro della Grecia.
D. Vale a dire?
R. Che per evitare la crisi si chiudano gli occhi. L’ho scritto anche tre anni fa: sarebbe meglio che Atene uscisse, per come stanno le cose.
D. Torniamo all’Italia, Tanzi. Da dove si può ripartire?
R. In copertina del libro c’è una foto scattata da mia moglie, tempo fa. Mostra una trattoria italiana con l’insegna: «Antichi sapori».
D. Che cosa dobbiamo vederci?
R. Il nostro ancoramento al passato. Nel libro cito Jorge Luis Borges, quando dice «Troppo memoria schiaccia il presente».
D. Siamo così attaccati al bel tempo andato?
R. In Italia, qualsiasi cosa voglia fare, saltano fuori comitati a ogni angolo, pronti a dire che non si può.
D. La sua Puglia dice di no al gasdotto Trans Adriatico.
R. Nel libro faccio un altro esempio.
D. Quale?
R. Parlo del mio paese, Mola di Bari, che nel 2002 era arrivato tra i primi nel programma europeo Urban II che concedeva oltre 10 milioni di euro per riqualificare il lungomare.
D. Come fini?
R. Che fu chiamato Ricardo Bofill, grande architetto catalano ma quando si capì che, per realizzarlo, si dovevano cambiare alcune strade, arrivarono compatti i frenatori. E poi, alla fine, il risultato è stato deludente.
Goffredo Pistelli, ItaliaOggi 4/7/2015