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 2015  luglio 03 Venerdì calendario

Oggi, ore 8, Corte d’Assise di Bergamo, è iniziato il processo a Massimo Giuseppe Bossetti detto Massi, muratore, accusato di aver rapito e ucciso Yara Gambirasio, 13 anni, abbandonandola a morire di gelo e di stenti il 26 novembre 2010

Oggi, ore 8, Corte d’Assise di Bergamo, è iniziato il processo a Massimo Giuseppe Bossetti detto Massi, muratore, accusato di aver rapito e ucciso Yara Gambirasio, 13 anni, abbandonandola a morire di gelo e di stenti il 26 novembre 2010. Corridoi sbarrati dalle transenne, ingressi filtrati da accrediti richiesti con mesi d’anticipo, come si fa con i grandi eventi mondani. Non c’è posto per tutti, la capienza massima è di cinquanta persone, ma a grande richiesta sono stati aggiunti altri quaranta strapuntini. Marco Imarisio, Corriere della Sera 3/7/2015 Diciottomila mila prelievi di Dna, un centinaio di testimoni ascoltati, confronti e controlli incrociati su mezzi di trasporto, telecamere, frammenti di tessuto, false piste e la scoperta di una paternità segreta, hanno prodotto alla fine la ragionevole certezza che ad ucciderla - sebbene incidentalmente, nonostante tre colpi alla testa e una dozzina di coltellate, nessuna mortale - sia stato quell’omino biondo con il pizzetto ossigenato e una vita anonima che questa mattina si presenterà in un’affollatissima aula della Corte d’Assise di Bergamo chiedendo più l’attenzione delle telecamere che quella dei giudici, come annunciato in una lettera «perché non ho nulla da nascondere». Paolo Colonnello, Sta, 3/7 Yara era uscita dalla Città dello sport di Brembate d’Adda, una fortezza moderna concepita per accogliere e proteggere bambini e ragazzi, il luogo che meglio rappresenta un paese tranquilla della Bassa bergamasca, dove si conoscono tutti, e il patto sociale prevede la fiducia reciproca, lontano dall’insicurezza delle grandi città. La ritrovarono tre mesi dopo in un campo ghiacciato di Chignolo d’Adda, davanti a una discoteca. Sul tetto del «Sabbie evolution» c’era una telecamera che il mese prima era stata colpita da un fulmine durante un temporale. Se avesse funzionato, non sarebbe cominciato questo nuovo romanzo italiano che dura ormai da un anno. Da quando indagini che sembravano disperate su 18 mila campioni di Dna scoprirono all’improvviso il nome e il cognome di «Ignoto 1», il titolare del profilo genetico estratto da un’unica traccia ritrovata all’interno dei leggins della vittima. Era il 16 giugno 2014. Quel giorno Bossetti finì in carcere dopo aver scoperto di non essere figlio di quello che aveva sempre creduto essere suo padre, ma dell’autista Giuseppe Guerinoni, scomparso nel 1999, con il quale la madre Esther aveva avuto una relazione. Sembrava finita. Invece cominciò un’altra indagine, all’incontrario. Perché intorno alla prova regina bisognava costruire il contesto, controllare alibi, verificare circostanze. C’era il presunto colpevole, che continua a dirsi innocente, mancava tutto il resto. Da allora è come se non ci fossimo mossi di un passo. Per chi ha fede nella scienza, il Dna basta e avanza. A disposizione di tutti gli altri, non necessariamente scettici, ci sono atti giudiziari dove ogni domanda trova una apparente risposta di segno contrario. Marco Imarisio, Corriere della Sera 3/7/2015 La prova regina Massimo Bossetti, detto Massi, 44 anni, tre figli, una bella moglie (ultimamente in bikini sulla prima pagina di un settimanale), partita Iva e villetta d’ordinanza, dal 16 giugno di un anno fa vive in una cella del carcere di Bergamo con un’accusa da ergastolo che i suoi difensori contano di smontare cercando di far cadere quella che finora è stata considerata la “prova regina”, ovvero un frammento di Dna ritrovato sulle mutandine e sui leggins di Yara che corrisponde alla traccia biologica del muratore, unica ad avere una corrispondenza di 21 cromosomi su 21 tra miliardi di miliardi di miliardi di individui. Difficile attaccare una prova del genere, sebbene così minuscola da essere considerata irripetibile e con un aspetto risultato controverso per la differenza rilevata tra il Dna nucleare, ovvero al centro della cellula, e quello mitocondriale, cioè periferico, delle cellule analizzate. Un aspetto fondamentale secondo gli avvocati, irrilevante secondo gli esperti del laboratorio di genetica forense di Pavia e per i vari giudici, dal gip al tribunale del riesame fino alla Cassazione, cui si sono rivolti via via i legali per chiedere che Bossetti venisse scarcerato. Paolo Colonnello Sta 3/7 Non c’è solo il Dna Perché se dovesse cadere la prova numero uno, a quel punto per le difese sarebbe facile ottenere un effetto domino su altre prove e indizi. Che non sono pochi e abbastanza univoci. E colgono le contraddizioni macroscopiche emerse dagli interrogatori di Bossetti, il quale, per inciso, deve anche rispondere di calunnia per aver cercato di accusare dell’omicidio un suo ex collega di lavoro. Per esempio, la presenza dell’Iveco furgonato del carpentiere vicino alla casa e alla palestra di Yara la sera in cui la ragazzina scomparve. Ripreso dalle telecamere, confrontato con altri 2 mila, alla fine quello che si vede andare avanti e indietro in un quadrilatero di non più di 500 metri di superficie nei 45 minuti che precedono la scomparsa della ragazzina, è proprio quello di Bossetti, grazie a un catarifrangente anomalo fatto analizzare negli stabilimenti Iveco di Torino. Ci sono poi le tracce della cella telefonica del muratore che tra le 17,45 e le 18,47 di quel 26 novembre 2010, pur non avendo ragione di essere a Brembate, visto che quel pomeriggio non andò a lavorare in cantiere, agganciano la zona in cui si trova Yara. Infine, gli investigatori dei Ros, hanno trovato un filo di tessuto sintetico sui calzoncini elastici della bambina che corrisponde al tessuto del sedile del furgone di Bossetti, dimostrando che lei, su quel mezzo, ci sarebbe salita davvero e, probabilmente, volontariamente, se si considera la testimonianza di una signora che un mese prima aveva visto Yara nel parcheggio vicino alla palestra seduta sull’auto di Bossetti. Paolo Colonnello Sta 3/7 Gli altri indizi contro il muratore sono il passaggio ripetuto del suo Iveco Daily intorno alla palestra, l’aggancio della sua utenza alle celle poco distanti dalla casa dei Gambirasio. Ma Bossetti abita a Mapello, un posto così vicino da essere coperto dallo stesso ripetitore, gira sempre con quel furgone. A Brembate di Sopra ha un fratello, un commercialista, ci passa ogni giorno. Siamo ormai abituati a dire che la vita non è un romanzo, anche se spesso ci somiglia. Ma le regole sembrano ormai incardinate, poco importa se il presunto colpevole ha una personalità unidimensionale, mentre Brembate non è certo Twin Peaks. Non è bastato il dignitoso silenzio della famiglia della vittima. La presenza fissa e ossessiva dei media è ormai un dato di fatto, un elemento non più neutro, al punto che proprio la difesa dell’imputato ha cercato la massima visibilità, fino a schierare una squadra di esperti non certo sconosciuti al grande pubblico. È la conseguenza di un anno trascorso a creare due opposte platee di innocentisti e colpevolisti che quasi ogni sera si scannavano su dettagli spesso pruriginosi, per non dir di peggio, e quasi sempre falsi. Per farlo, era necessario fingere di ignorare che tutto si gioca sul Dna. Gli avvocati di Bossetti hanno chiesto di sentire 711 persone. I magistrati ne hanno indicate 120. La signora Esther, madre dell’imputato, è chiamata in causa dall’accusa e non dalla difesa. Anche questo è un segno preciso dell’unica cosa che conta davvero. Dopo lungo travaglio, le telecamere non sono state ammesse in aula. Ma il processo durerà a lungo. E tranquilli, in un modo o nell’altro le immagini non mancheranno. Marco Imarisio, Corriere della Sera 3/7/2015 Se a indagare sulla morte di Yara Gambirasio non ci fosse stata l’ostinazione di alcuni investigatori e l’eccezionalità di un’inchiesta durata quattro anni, il mistero della morte di questa tredicenne di Brembate, tutta casa e palestra, scuola e chiesa, non sarebbe mai stato rivelato. Invece, 18 mila prelievi di Dna, un centinaio di testimoni ascoltati, confronti e controlli incrociati su mezzi di trasporto, telecamere, frammenti di tessuto, false piste e la scoperta di una paternità segreta, hanno prodotto alla fine la ragionevole certezza che ad ucciderla - sebbene incidentalmente, nonostante tre colpi alla testa e una dozzina di coltellate, nessuna mortale - sia stato quell’omino biondo con il pizzetto ossigenato e una vita anonima che questa mattina si presenterà in un’affollatissima aula della Corte d’Assise di Bergamo chiedendo più l’attenzione delle telecamere che quella dei giudici, come annunciato in una lettera «perché non ho nulla da nascondere». La prova regina Massimo Bossetti, detto Massi, 44 anni, tre figli, una bella moglie (ultimamente in bikini sulla prima pagina di un settimanale), partita Iva e villetta d’ordinanza, dal 16 giugno di un anno fa vive in una cella del carcere di Bergamo con un’accusa da ergastolo che i suoi difensori contano di smontare cercando di far cadere quella che finora è stata considerata la “prova regina”, ovvero un frammento di Dna ritrovato sulle mutandine e sui leggins di Yara che corrisponde alla traccia biologica del muratore, unica ad avere una corrispondenza di 21 cromosomi su 21 tra miliardi di miliardi di miliardi di individui. Difficile attaccare una prova del genere, sebbene così minuscola da essere considerata irripetibile e con un aspetto risultato controverso per la differenza rilevata tra il Dna nucleare, ovvero al centro della cellula, e quello mitocondriale, cioè periferico, delle cellule analizzate. Un aspetto fondamentale secondo gli avvocati, irrilevante secondo gli esperti del laboratorio di genetica forense di Pavia e per i vari giudici, dal gip al tribunale del riesame fino alla Cassazione, cui si sono rivolti via via i legali per chiedere che Bossetti venisse scarcerato. Non c’è solo il Dna Perché se dovesse cadere la prova numero uno, a quel punto per le difese sarebbe facile ottenere un effetto domino su altre prove e indizi. Che non sono pochi e abbastanza univoci. E colgono le contraddizioni macroscopiche emerse dagli interrogatori di Bossetti, il quale, per inciso, deve anche rispondere di calunnia per aver cercato di accusare dell’omicidio un suo ex collega di lavoro. Per esempio, la presenza dell’Iveco furgonato del carpentiere vicino alla casa e alla palestra di Yara la sera in cui la ragazzina scomparve. Ripreso dalle telecamere, confrontato con altri 2 mila, alla fine quello che si vede andare avanti e indietro in un quadrilatero di non più di 500 metri di superficie nei 45 minuti che precedono la scomparsa della ragazzina, è proprio quello di Bossetti, grazie a un catarifrangente anomalo fatto analizzare negli stabilimenti Iveco di Torino. Ci sono poi le tracce della cella telefonica del muratore che tra le 17,45 e le 18,47 di quel 26 novembre 2010, pur non avendo ragione di essere a Brembate, visto che quel pomeriggio non andò a lavorare in cantiere, agganciano la zona in cui si trova Yara. Infine, gli investigatori dei Ros, hanno trovato un filo di tessuto sintetico sui calzoncini elastici della bambina che corrisponde al tessuto del sedile del furgone di Bossetti, dimostrando che lei, su quel mezzo, ci sarebbe salita davvero e, probabilmente, volontariamente, se si considera la testimonianza di una signora che un mese prima aveva visto Yara nel parcheggio vicino alla palestra seduta sull’auto di Bossetti. Paolo Colonnello Sta 3/7 AULA TRANSENNATE E 40 SEDIE IN PIU’. BOSSETTI CONTRO LA PROVA DEL DNA – Almeno il posto è quello giusto. Quante volte l’abbiamo detto e sentito, che i processi si fanno nelle aule di tribunale. E quante volte l’abbiamo dimenticato, persi in questa anomalia solo nostra dove la cronaca nera diventa sempre e comunque ossigeno per talk show traballanti, cibo a menu fisso dei palinsesti del pomeriggio, intrigo per rotocalchi. Dunque oggi, ore 8, Corte d’Assise di Bergamo, si comincia, con corridoi sbarrati dalle transenne, ingressi filtrati da accrediti richiesti con mesi d’anticipo, come si fa con i grandi eventi mondani. Non c’è posto per tutti, la capienza massima è di cinquanta persone, ma a grande richiesta sono stati aggiunti altri quaranta strapuntini. C’è un solo imputato invece. Massimo Giuseppe Bossetti detto Massi, professione muratore, accusato di aver rapito e ucciso una ragazza di 12 anni, abbandonandola a morire di gelo e di stenti il 26 novembre 2010. Si chiamava Yara Gambirasio, e di lei in fondo non sappiamo neppure molto, è diventata soltanto il sorriso di una bambina in tuta da ginnastica, ignara del fatto che là fuori c’era il Male che la aspettava. Era uscita dalla Città dello sport di Brembate d’Adda, una fortezza moderna concepita per accogliere e proteggere bambini e ragazzi, il luogo che meglio rappresenta un paese tranquilla della Bassa bergamasca, dove si conoscono tutti, e il patto sociale prevede la fiducia reciproca, lontano dall’insicurezza delle grandi città. La ritrovarono tre mesi dopo in un campo ghiacciato di Chignolo d’Adda, davanti a una discoteca. Sul tetto del «Sabbie evolution» c’era una telecamera che il mese prima era stata colpita da un fulmine durante un temporale. Se avesse funzionato, non sarebbe cominciato questo nuovo romanzo italiano che dura ormai da un anno. Da quando indagini che sembravano disperate su 18 mila campioni di Dna scoprirono all’improvviso il nome e il cognome di «Ignoto 1», il titolare del profilo genetico estratto da un’unica traccia ritrovata all’interno dei leggins della vittima. Era il 16 giugno 2014. Quel giorno Bossetti finì in carcere dopo aver scoperto di non essere figlio di quello che aveva sempre creduto essere suo padre, ma dell’autista Giuseppe Guerinoni, scomparso nel 1999, con il quale la madre Esther aveva avuto una relazione. Sembrava finita. Invece cominciò un’altra indagine, all’incontrario. Perché intorno alla prova regina bisognava costruire il contesto, controllare alibi, verificare circostanze. C’era il presunto colpevole, che continua a dirsi innocente, mancava tutto il resto. Da allora è come se non ci fossimo mossi di un passo. Per chi ha fede nella scienza, il Dna basta e avanza. A disposizione di tutti gli altri, non necessariamente scettici, ci sono atti giudiziari dove ogni domanda trova una apparente risposta di segno contrario. Gli altri indizi contro il muratore sono il passaggio ripetuto del suo Iveco Daily intorno alla palestra, l’aggancio della sua utenza alle celle poco distanti dalla casa dei Gambirasio. Ma Bossetti abita a Mapello, un posto così vicino da essere coperto dallo stesso ripetitore, gira sempre con quel furgone. A Brembate di Sopra ha un fratello, un commercialista, ci passa ogni giorno. Siamo ormai abituati a dire che la vita non è un romanzo, anche se spesso ci somiglia. Ma le regole sembrano ormai incardinate, poco importa se il presunto colpevole ha una personalità unidimensionale, mentre Brembate non è certo Twin Peaks. Non è bastato il dignitoso silenzio della famiglia della vittima. La presenza fissa e ossessiva dei media è ormai un dato di fatto, un elemento non più neutro, al punto che proprio la difesa dell’imputato ha cercato la massima visibilità, fino a schierare una squadra di esperti non certo sconosciuti al grande pubblico. È la conseguenza di un anno trascorso a creare due opposte platee di innocentisti e colpevolisti che quasi ogni sera si scannavano su dettagli spesso pruriginosi, per non dir di peggio, e quasi sempre falsi. Per farlo, era necessario fingere di ignorare che tutto si gioca sul Dna. Gli avvocati di Bossetti hanno chiesto di sentire 711 persone. I magistrati ne hanno indicate 120. La signora Esther, madre dell’imputato, è chiamata in causa dall’accusa e non dalla difesa. Anche questo è un segno preciso dell’unica cosa che conta davvero. Dopo lungo travaglio, le telecamere non sono state ammesse in aula. Ma il processo durerà a lungo. E tranquilli, in un modo o nell’altro le immagini non mancheranno. Marco Imarisio, Corriere della Sera 3/7/2015 PALLINATO SU BOSSETTI PER IL FOGLIO DEI FOGLI DEL 2 MARZO 2015 - I l carpentiere Massimo Bossetti, 45 anni, in galera da otto mesi per il delitto di Yara Gambirasio, in cantiere era chiamato «Il Favola» dagli altri operai, perché diceva un mucchio di bugie. Per non andare a lavorare una volta aveva raccontato di avere un tumore al cervello, un’altra tre ernie al disco, poi di essersi rotto il setto nasale, di essere stato sbattuto fuori casa dalla moglie ecc. Tutte balle [1]. Le informazioni sulla capacità di mentire di Bossetti emergono dalla relazione dei Ros di Brescia con cui si è conclusa nei giorni scorsi l’inchiesta sul delitto della tredicenne Yara Gambirasio, scomparsa il 26 novembre 2010 da Brembate di Sopra e ritrovata cadavere il 26 febbraio 2011 in un campo a Chignolo d’Isola. A Bossetti, incriminato per omicidio aggravato, è contestata anche la calunnia, per aver tentato di dirottare le responsabilità sull’omicidio di Yara su un suo compagno di lavoro [1]. Il carpentiere, che continua a giurare sulla sua innocenza, raccontò dopo l’arresto di essere stato a lavorare tutto il giorno quel 26 novembre e di essere tornato a casa passando velocemente per Brembate. Ma neanche la moglie Marita Comi, come dimostrano le intercettazioni dei loro colloqui in carcere, riesce più a credergli: «Massi, come mai ti ricordi che quella sera avevi il cellulare scarico ma non ricordi cosa hai fatto o dove sei stato?». «Massi, hai capito? Riesci a girare lì a Brembate per tre quarti d’ora… è tanto! Capito? Non puoi girare lì tre quarti d’ora così… a meno che non aspettavi qualcuno!». «Ci ho pensato Massi... eri lì quella sera, non mi ricordo all’ora che sei venuto a casa, non mi ricordo neanche cosa hai fatto… perché all’inizio eravamo arrabbiati, comunque non te l’ho chiesto, mi è uscito dopo, non mi hai mai detto cosa hai fatto! Non me l’hai mai detto!» [1]. Il 26 novembre, quando Yara sparisce, il furgone di Bossetti, l’Iveco Daily targato CH605NZ, è alle 18 dal benzinaio davanti alla palestra; cinque minuti dopo in via Rampinelli; alle 18 e 19 in zona palestra verso Ponte San Pietro; 18.35 in via Caduti dell’Aeronautica verso Locate, poi torna verso Brembate, 18.40 in zona palestra verso Brembate, 18.47 nella stessa zona sempre verso Brembate, 18.51 idem [2]. Marita Comi, che ha visto le foto del ritrovamento del cadavere di Yara, non si spiega come mai la bambina avesse una scarpa slacciata. Bossetti, durante un colloquio in carcere, secondo i pm a quel punto rivela perfino un dettaglio dell’omicidio: «Eh, però il campo era bagnato, la terra impelliccita e tutto, se tu corri in un campo è facile che le scarpe si perdano!». Poi se ne accorge, cambia discorso [1]. Quel pomeriggio di novembre di cinque anni fa, Bossetti non andò a lavorare e non incontrò nessuno a Brembate, non il commercialista, non il fratello, non l’amico con cui dice di essere andato a bere una birra. Gli uomini del Ros hanno fatto un lavoro di ricostruzione preciso, ascoltando centinaia di testimoni, verificando ogni dettaglio, anche ogni accusa di Bossetti che prima ha adombrato «una vendetta» verso il padre di Yara Gambirasio, poi ha cercato di gettare la colpa su un collega di lavoro: «…Quindi ipotizzo di aver perso un guanto o uno straccio sporco di sangue e qualcuno è andato a depositarla su… su questa bambina qua». Un’idea? «Sì, il Massimo Maggioni che mi aveva prestato uno straccio rosa scuro una volta che mi ero ferito una mano… lui provava invidia per la mia bellissima famiglia… Io non voglio accusare nessuno, però l’ho visto come fa… un cane che sbava». Ma il Maggioni nei giorni in cui scomparve Yara era ricoverato in ospedale [1]. Colonnello: «Al di là delle menzogne quasi infantili del carpentiere di Mapello, al di là delle visite sui siti porno alla ricerca di “tredicenni senza pelo”, parlano i fatti che si riassumono in tre elementi schiaccianti: il Dna ritrovato sui leggings e le mutandine di Yara incontrovertibilmente di Bossetti; le immagini del suo furgone, il camionato Iveco, che passa avanti e indietro per tre quarti d’ora davanti alla palestra di Brembate e alla casa della ragazzina la sera della sua scomparsa; i frammenti di tessuto del plaid usato per rivestire i sedili dell’abitacolo del camioncino, (giallo, rosso e verde) trovato sempre sui leggings di Yara. Più la testimonianza di un uomo che lo riconosce quella sera vicino alla palestra e di una donna che è sicura di averlo visto appena tre mesi prima, settembre 2010, incontrarsi con Yara e farla salire sulla sua Volvo grigia station wagon nel parcheggio del cimitero di Brembate, guarda caso, proprio attiguo alla palestra: “Me ne sono ricordata perché lui aveva gli occhi incredibilmente azzurri, di ghiaccio”» [1]. La stessa teste qualche giorno dopo al supermercato Eurospin ha rivisto il carpentiere che faceva la spesa. Dell’intera famiglia Gambirasio, l’unica che ci andava era Yara, in compagnia della zia Nicla. È là che lui l’ha «puntata»? [2]. La radiografia dell’attività informatica di Bossetti – dice il gip Vincenza Maccora – rivela un forte interesse per «ragazzine rosse tredicenni, vergini». Yara aveva 13 anni ed era rossiccia di capelli [3]. Stando alla consulenza informatica, il «pallino» intorno al quale ruota la curiosità online di Bossetti – le «tredicenni per il sesso» – prevede anche una declinazione «nera». Il muratore si interessa a «fatti di cronaca in merito a rapimenti e violenza sessuale su minore». Ad esempio apre il sito del Mattino di Padova, legge il pezzo che racconta il caso di Matteo Meneghello, di Bovolenta. È stato arrestato per corruzione di minorenne e violenza sessuale. La vittima ha 13 anni. Altri clic vanno a ripescare storie di rapimenti e omicidi: a farne le spese, sempre bambine [3]. Bossetti dal suo profilo Facebook è anche andato in cerca dei profili di alcune vicine di casa, giovanissime [2]. Ai detenuti che gli dicevano «confessa, così puoi avere uno sconto di pena. Altrimenti rischi l’ergastolo», Bossetti, intercettato dalle cimici, ha risposto: «Rischierò l’ergastolo, ma non confesso per la mia famiglia» [4]. La principale prova contro Bossetti resta il Dna, che i suoi avvocati difensori definiscono «solo un indizio». Ma colpisce che proprio Bossetti sia stato categorico con la madre Ester Arzuffi sul valore del Dna. Quando lei, in un colloquio in carcere dell’8 novembre, gli dice «tuo padre è Giovanni Bossetti, non l’autista di Gorno» lui le risponde: «La scienza non sbaglia. Lì non puoi smentire. Perché tutti i miei 21 cromosomi corrispondono ai 21 cromosomi del Dna di Guerinoni? Lì è al cento per cento, non puoi sbagliare» [5]. «Quello che mi frega è il Dna sul cadavere» (Bossetti alla moglie, durante un colloquio in carcere) [6]. (a cura di Roberta Mercuri) Note: [1] Paolo Colonnello, La Stampa 28/2; [2] Paolo Berizzi e Piero Colaprico, la Repubblica 27/2; [3] Paolo Berizzi, la Repubblica 12/2; [4] Giuliana Ubbiali, Corriere della Sera 22/2; [5] Fiorenza Sarzanini, Giuliana Ubbiali, Corriere della Sera 28/2; [6] Paolo Berizzi e Piero Colaprico, la Repubblica 28/2. martedì 17 febbraio Fili Secondo le ultime ricostruzioni, Yara Gambirasio, il 26 novembre 2010, è salita sul furgone di Massimo Bossetti: sui suoi leggings sono stati ritrovati fili compatibili con quelli del sedile del camioncino del presunto assassino (Longo, Sta). Bossetti 1 In un colloquio nel carcere di Bergamo del 26 giugno 2014, Massimo Bossetti, presunto killer di Yara Gambirasio, se la prende con la moglie Marita Comi per non avergli fornito un alibi per la sera del 26 novembre 2010. Bossetti: «Sul giornale c’è su l’articolo... che tu hai detto che non sapevi dove mi trovavo quel giorno lì a lavorare... ». Comi: «Allora, io non ho fatto nessuna dichiarazione sui giornali, assolutamente (...) Ascolta io gli ho detto... perché mi hanno chiesto, a che ora sei arrivato... Gli ho detto “non mi ricordo” Massi». Bossetti: «Il marito non trova un alibi con la moglie... ». Comi: «Ecco ma dopo, dopo ci ricamano sopra Massi. È per quello che non devi ascoltare, non devi leggere i giornali. Non è vero, gli ho detto solo che non mi ricordo a che ora sei arrivato. Quattro anni fa non mi ricordo a che ora sei arrivato! Gli ho detto che comunque di sicuro prima delle 19.30, perché comunque cenavamo sempre insieme, e poi, siamo sempre insieme anche la sera». Bossetti: «Usciamo sempre a fare la spesa insieme, ho detto io!». Comi: «La spesa? Ma comunque siamo sempre a casa alla sera. Guarda che loro mi hanno chiesto un’ora, l’ora non mi ricordo Massi, non posso dirgli un’ora che non mi ricordo, capisci? È per quello che non mi sento di dire bugie, Massi, devo dire solo la verità... basta! La dico io e la devi dire anche tu, hai capito? Basta... ». In un altro incontro, a luglio, lui, parlando di certi coltelli che tiene in casa, le dice: «Buttali, buttali... capito? Buttali via». (Berizzi e Colaprico, Rep). Bossetti 2 «Quando parlavamo di Yara diceva (...) quello lì (...) non lo prenderanno mai» (Ester Arzuffi, le madre di Massimo Bossetti, intercettata nella sala d’attesa dei carabinieri di Bergamo, qualche ora dopo l’arresto del figlio) (ibidem). 29/2/2015