Piero Melati e Mario Cicala, il venerdì di Repèubblica 3/7/2015, 3 luglio 2015
La leggenda vuole che, nei rigidi inverni capitolini, Fulvio Abbate sia sceso sovente da casa, per raggiungere l’abituale bar di Monteverde Vecchio, indossando il cappotto sul pigiama
La leggenda vuole che, nei rigidi inverni capitolini, Fulvio Abbate sia sceso sovente da casa, per raggiungere l’abituale bar di Monteverde Vecchio, indossando il cappotto sul pigiama. E che, acconciato in tal guisa, sia diventato amico del regista Carlo Verdone. Mentre Nanni Moretti, monteverdino anche lui, passava, li vedeva da lontano, salutava e tirava via. Prendendosi i rimbrotti degli astanti. Il Marchese (questo il soprannome di Abbate nei social network, presso cui è attivissimo e seguito come una star) ha fatto dell’uso di mondo e della praticità della vita un paio di luminosi comandamenti. Il che lo rende egualmente seducente per salotti, tinelli, strapuntini e festival. Il Marchese, siciliano, classe 1956, professione scrittore, è autore di sette romanzi e di altre quattordici indefinibili opere. È il protagonista di un One Man Show che tiene regolarmente nella sua tv internettiana, Telederruti. Sarebbe facile definirlo l’ultimo degli irregolari, o uno scapigliato. Invece, sappiamo che è riuscito a strappare un quarto di nobiltà agli dei, al modo in cui gli eroi greci scippavano la gloria agli invidiosi abitanti dell’Olimpo. Con la forza della tenacia. L’ultima sua fatica è un impressionante tomo di 697 pagine, indice escluso, con una introduzione di Carlo Verdone. Si chiama Roma vista controvento (Bompiani, euro 19). Ma niente paura. Si snoda tutto in brevi o brevissimi capitoli. Si tratta di una guida filosofica alla Città eterna, stracarica di aneddoti, personaggi, retroscena, tesori nascosti. Chi ama Fulvio Abbate (e non sono pochi) sostiene si tratti del suo libro più geniale. Una miniera di apparizioni e una collezione di perle straordinarie. Lui, seduto al famoso bar di Monteverde Vecchio, in una giornata d’aprile, non ci fa poi tanto caso. Lodi e polemiche lo lasciano freddo. Alle spalle, tra le tante vite, c’è stata anche la passione per le storie degli anarchici e un sodalizio, da ex comunista, con l’ex fascista Pietrangelo Buttafuoco, siciliano anche lui, con cui spesso ha dilettato in tante kermesse letterarie. Così come ci sono le innumerevoli rotture con i quotidiani presso cui collaborava e la lunga catena di litigate con grillini, ex comunisti, veltroniani, destrorsi (anche se molti ex fascisti lo adorano), scrittori, critici, organizzatori di premi letterari (lo scorso anno contestò apertamente il premio Strega). E il libro? «Il libro è frutto di una sedimentazione esistenziale» spiega. «Quando ero bambino si veniva a Roma con i miei almeno una settimana ogni inverno. Per guardare le sciarpe di cachemire in vetrina a via Condotti. E sperando di incrociare in strada qualche famoso. Un volta i miei videro Sergio Tofano, un’altra Vittorio Gassman. “Gom’è alto!” dissero ammirandolo. Roma era anche uno dei pochi posti d’Italia in cui potevi incontrare dei negri, erano quasi tutti ragazzoni del corpo diplomatico. Poi dalla Sicilia mi sono trasferito qui. Sono arrivato nell’83. Ma prima avevo continuato a venire spesso a Roma con mia madre, che era insegnante e per gli esami di Stato sceglieva sempre la capitale o dintorni». Con quale sogno in tasca? «Volevo fare lo scrittore ma era difficile, quindi provai come critico d’arte. Ricordo la galleria di Angelica Savinio. Esponeva arazzi di Picasso, disegni di De Chirico. Un giorno entrò una signora e di un pezzo chiede: “Cosa costa?”. E Angelica: “Cinquanta”. Intendeva milioni. “Grazie” rispose la signora». Un libro di ricordi? «No, no. L’intento è anche psicogeografico» continua Abbate. «Racconto per voci ma rifiutando l’ordine alfabetico. Non è un libro tipo Cento cose da fare a Roma, tra le ispirazioni ci sono casomai le guide Sugarco che ti dicevano dove trovare parrucche o come noleggiare una livrea nell’Urbe». Roma vista da un flâneur «No. Sono mica Nanni Moretti in vespa. Ogni scoperta è stata casuale. Le lapidi di Roma, per esempio, le scopri quando ti ci cade l’occhio mentre stai pomiciando con una ragazza. Avrei potuto farne un blog sulla città ma non mi interessava. Volevo un libro d’autore». C’è anche un sentimento di nostalgia? «Non vado a ricercare la Roma della Dolce Vita, al limite quella dei film del tardo neorealismo strappacore, film minori girati in quartieri popolar-residenziale. Piazza Asti... Mastroianni abitava in via Sanremo. C’è la Roma dei primari (Parioli); quella dei medici (Prati) e quella dei portantini (Boccea). Con pochi Lungotevere. L’unico Lungotevere di cui si ricordi il nome è quello Dei Mellini». Zero nostalgia, niente flânerie morettiana e neppure ricordi. Ma allora, cosa mai? «A Roma non ti lasciano fare una vita d’artista, al massimo una vita condominiale. Francesco De Gregori dice che a Roma l’artista è sempre il Marziano di Flaiano. Non c’è borghesia: uniche industrie, il cinema e l’edilizia. Il solo a cui riuscì una vita eroica a Roma fu Ontani. Il bar Camponeschi è il solo in cui resta uno straccio di bohème. La ragazza che per cento euro ti fa vedere le tette». Che demone muove Fulvio Abbate? «Voltaire diceva che la curiosità è filosofia. Io aspiro all’enciclopedismo. Ma non è una pretesa demoniaca, bensì da uomo di mondo. E l’uomo di mondo è uno che deve conoscere la marca di preservativi più diffusa tra le puttane di Caracalla (Silhouette) e ricordare le dinastie dei ministri della difesa da Tremelloni (Psdi) agli occhiali scuri di Fini». C’è una morale in tutto questo? «Sono una testa di cazzo, ma non per conto terzi. E penso che lo scrittore deve avere una vita eroica, lo tratto con tutti. A Cossiga dissi: “M’hai rovinato la gioventù con quelle cazzo di leggi speciali”. Tratto con tutti tranne che con gli intellettuali di sinistra, che si ritrovano per vedere Sanremo in tv con chipster e Nutella. Hanno la gittata intellettuale di un Jovanotti. Meglio un pompino da una puttana». Sgranocchia un’altra nocciolina. Si guarda intorno: «Qual è la massima forma di vita artistica che abbia espresso Roma? Renato Zero cor piccione in testa. È una città piccolo borghese di inurbati. Una Ciampino più estesa. Ebbe vita solo negli anni 60/70 di Schifano, Pierre Clementi e Tina Aumont, quando Helmut Berger spaccava i bar a Santa Maria in Trastevere o Rafael Alberti scriveva sui muri contro i processi franchisti di Burgos... Solo allora si ebbe un sussulto. Poi la città si richiuse nella sua dimensione naturale: cinema e palazzinari». Visioni cupe? «No. Sartre l’aveva capito: a Roma comincia il Terzo Mondo perché non c’è classe operaia, ma sottoproletariato, disse. Io penso che una vita d’artista sia quando vedendoti passare dicono: quello è l’artista... ma qui, in questo contesto, Verdone, Lavia, Orsini, Moretti, Piovani hanno rapporti da condomini... è meglio l’infanzia povera di Pippo Franco in via Pavia. Oppure la casa-ufficio-cucina di Aldo Fabrizi in via Arezzo. O le strazianti foto appese nelle trattorie di Trastevere o Testaccio. Tutto è precipitato con l’arrivo di Ambra Angiolini. Presto divenne un dogma di sinistra: ancora oggi non se ne può più dir male. Si è perduta l’atmosfera di quando, da Pallotta, il ristorante a Ponte Milvio, incontravi Paolo Stoppa che beveva un brodino. Oggi, invece? La pizza con la mozzarella di bufala è una bufala per ceti medi ultrariflessivi. La pizza romana non esiste». Piero Melati e Mario Cicala